20 giugno 2021

Na vòolta se murìva püsè de spès ma püsèe sàan de adès . (Una volta si moriva più spesso ma più sani di adesso). Considerazioni sul pensare in dialetto salute e malattie

Nel campo del dialetto, un argomento offre uno straordinario campo di informazioni e di riflessioni riguarda le concezioni, pratiche e parole che indicavano aspetti corporali, malattie e modalità di cura. (Ne ho parlato ampiamente nel periodico dell’Associazione “El Zàch”, numero di agosto 2015. Mi sono riferito al linguaggio di Isola Dovarese, che però non è molto dissimile da quello di Cremona città).  

I caratteri corporei strutturali fungevano molto più di oggi da “spiegazione-base” di tante situazioni di salute e di malattia: ricordo solo nervagn, nervis (forte), taroòch (malandato in salute), gnàgner (debole, di poco conto), dezembreén (debole, malaticcio). E c‘erano termini che esprimevano in modo molto svalutativo certe debolezze fisica, come l’originalissimo e intraducibile piabrìna, ma anche gli impietosi léendes (da “uovo marcio”); impestent (collegato anche a malattia venerea), marsòon (tisico). 

Negli anni '40 e '50 erano diffusi malanni oggi scomparsi, come el gòos (gozzo), la guba, ma anche diffuse erano le vèene varicùuse, assai poco gradevoli per il genere femminile, anche se allora non doveva lottare contro i peli superflui che anche sulle gambe erano apprezzati dal genere maschile. Mi ricordo che quando gli uomini vedevano una donna (con particolare riguardo se era bella) con le gambe pelose, dicevano con tono decisamente “laudativo”: se j è cuzé i binàri, chissà en stasiòon! 

Ricordo che allora si usava ancora fasciare i neonati come mummie; che non esistevano, tra l’altro, le supposte; che l’integratore energetico somministrato a noi bambini era sempre il disgustoso olio di fegato di merluzzo; che la cura dell’orzaiolo consisteva, in genere, nell’accostare un occhio e guardare nel collo di una bottiglia d’olio e quella del terribile fòoch de Sàant Antòni erano le formule magiche di apposite guaritrici,  che il rimedio-principe al “sangue grasso” e alla pressione alta era il salasso (con i suoi terribili getti di sangue nella bacinella d’acciaio del dottore); che il rimedio al catarro e alle tossi invasive consisteva nei fastidiosi impiastri bollenti sul petto e la schiena … Per combattere la stitichezza, solo magnesia e olio di ricino (òli d’urigen) e, nei casi limite, oltre al clistere, la scombussolante silàpa. E per succhiare il sangue raffermo, ecco le sanguisughe: disgustose alla vista, ma, penso, benefiche, anche perché avevano contribuito a curare gli attributi virili di mio zio Adelio, divenute mostruosamente gonfi e neri per una caduta in moto.

Altri vocaboli definivano in termini assai svalutativi l’handicap mentale. Anche se oggi il “disabile” è spesso “fissato” in categorie definitorie rigide e negative, prevale una concezione che contiene spiegazioni psicologiche, sociali e, quindi, prevede progetti integrati di riabilitazione, per cui sono vietati termini troppo rigidi. Perfino il termine “disabile” è ritenuto così scorretto da imporre la definizione “diversamente abile”. Decenni fa, la definizione più benevola di una persona “diversa” era l’è mia tàa’n me n’àater, ma quelle meno rispettose, come deficèent, màt, balabiòt (balla nudo: scemo, demente), erano assai più usate. Occorre però dire che spesso il “diverso” rimaneva nel contesto della famiglia e della comunità, allacciando legami di reciprocità.  

A suggerire, più o meno consapevolmente, il legame tra il piano affettivo-emotivo e quello fisiologico, c’era, credo, solo l’espressione vìighe mia i sòo set sentimènt (non essere mentalmente più in sé). Il legame tra sentimènt e capacità cognitiva era avallata anche dal detto, di conio e di uso maschile, la dùna la gh’àa sèt sentimènt men de la galina…

Nota. A proposito della peculiarità semantica, concettuale ed espressiva di certe parole, mi soffermo solo sulla locuzione te strìipi, te cavi oppure te taìi la maigula. Essa è interpretata come “ti strappo l’ombelico”, tesi avallata dal gioco degli adulti che fingevano di strappare el luén con le dita, per poi mostrarlo ponendo il pollice tra l’indice e il medio (un giochetto che io faccio con i bambini piccoli, fingendo di estirpare il loro naso, per poi rimetterlo al suo posto).

Per altri, l’oggetto in questione è qualcosa che, un poco più in basso, caratterizza la mascolinità e la cui estirpazione costituisce dai tempi dei tempi una minaccia cruciale. Io condividevo questa tesi minoritaria con gli opinion leader del mio ristretto gruppo di amici (ovviamente, tutti maschi), inconsapevoli ma pervicaci assertori della tesi freudiana del complesso di castrazione: per noi bambini ciò che era minacciato era el piséen, termine che designava il membro maschile dei bimbi piccoli.

Assai poco benevolo era il modo di considerare l’omosessualità, considerata, come del resto dalle leggi fasciste e naziste, una malattia congenita. Non credo sia necessario riportare i termini con cui veniva designato il gay…

Il rapporto delle persone col sesso era, in generale, molto complesso e contraddittorio, perché mescolava censure, ipocrisie, proibizioni e dure condanne ai comportamenti immorali (attribuiti quasi inevitabilmente al genere femminile) contro la donna con la diffusa e tacita convinzione che la forza delle pulsioni sessuali era difficilmente controllabile (da qui, forse, la notevole percentuale di bambini nati “settimini” …).   

Ufficialmente, tutto ciò che aveva a che fare con il sesso era censurato dalle donne, tanto che perfino l’evento più “puro” possibile, l’aspettare un figlio, era designato con giri di parole tese a cancellare ogni riferimento alla sessualità e perfino alla fisicità. Così, “essere incinta” era un’espressione proibita anche fra donne mature, che parlavano di èsser in attesa, “duì andar a l’uspedàle, spùda in de la sener (per via della nausea). Non deve pertanto stupire il fatto che al dottore, in caso di mal di seno, si diceva “me fàa màal el stùmech”, per cui il medico era obbligato a chiedere “el stùmech de dènter o de föra?” 

Noi ragazzi sentivamo spesso parlare del mal de li dùni, dai caratteri assai misteriosi, perché spesso associato a sofferenza, irritabilità, ipocondria e soprattutto connotato in modo assai negativo, dato che la donna mestruata non si poteva lavare nelle zone intime, altrimenti si ammalava, né toccare fiori e piante di case, altrimenti morivano. Il mistero era accresciuto dai nomi che lo designavano: oltre al ben poco esplicativo la gaa li so robi, gli altri evocavano una periodicità di manifestazione altrettanto misteriosa: li so régule, el so ciclo, el so perìodo…

Decenni fa, appariva piuttosto anomala all’opinione pubblica la condizione dell’uomo celibe e della donna nubile, tanto che la cultura contadina, prendendo spunto dalla osservazione etologica, attribuiva al primo le caratteristiche del mül (animale notoriamente incapace di generare) e alla seconda la condizione di capunéra (la gabbia dei capponi e per metafora una impenitente zitellona).

Ma era la parola "natüüra", che designava l’organo sessuale femminile, ad essere una straordinaria condensazione di significati antropologici e culturali, espliciti o solo evocati. Gli uomini la nominavano spesso, usando molte denominazioni ed evocando funzioni che anche per noi ragazzini erano inequivocabili. Dalle donne, invece, l’ho sempre sentita in riferimento a pratiche igieniche, a malanni nascosti e ad attività di cura. 

La “natura” come forza vitale e la natüüra come organo sessuale femminile, condividono molte proprietà concettuali e simboliche, a partire da ciò che, come conferma l’etimologia, ha a che fare con il nascere. Ma condividono anche l’ambivalenza e, certo, la contraddizione che sono costitutive del loro significato. Madre-Natura non è sempre benefica e protettrice: non c’è bisogno di riandare ai miti, alle narrazioni religiose, alla poesia e alla letteratura per ritrovare questo contrasto. E analogamente non c’è bisogno di ricorrere a Freud per ritrovare anche nella natüüra l’oscura dialettica fra ciò che è riferibile alla promessa, al dono, alla fecondità e ciò che è riferibile alla perdita, alla minaccia e alla sterilità.    

Su questi argomenti collego ora alcuni episodi – sempre riferiti al dialetto – sicuramente curiosi.

El turmènt del Pués

Tempo fa, ho incontrato un mio parente, chiamato Pués, perché, come l’omonimo bue, era alto, magro, fortissimo e già da giovane bianco di capelli.

Pur confortato dalle cure delle figlie, si lamentava della sua recente vedovanza. Io, per celia, gli ho chiesto come faceva soddisfare le sue brame sessuali. E lui, che aveva già superato gli ottanta anni, mi confidò serio: El sèt, Vitòrio, che deli vòlti el me dà bacàn tüta la nòt?” Il suo “tormento” per sovraeccitazione sessuale è altamente improbabile (“dar baccano” significa far soffrire, come nel caso dei denti avariati), ma l’invenzione fantastica è strepitosa, anche da punto di vista linguistico.

Le regàse le s’è màasava 

I miei genitori sostenevano che durante la loro giovinezza, cioè negli anni ‘30, alcune ragazze si suicidavano perché abbandonate dal fidanzato. Secondo la visuale di quel tempo, una ragazza che era stata fidanzata per un certo periodo di tempo “non poteva più essere vergine” e quindi trovava molte difficoltà a sposarsi con un altro. Molte allora ingurgitavano un beverone di capocchie di solfanelli e di erbe bollite…. Le più forti, con la lavanda gastrica in ospedale, si salvavano e con gesto “purificatore” riuscivano a riconquistare il loro vecchio fidanzato a trovarne un altro. Altre, invece, morivano…

Io non volevo credere a un fatto del genere, fino a quando mia madre, facendo una ricerca al cimitero, mi ha indicato cinque o sei tombe di ragazze sue coetanee morte giovani. E di loro ha ricordato il perché erano arrivate a questo passo estremo, il quale, malgrado le prescrizioni ecclesiastiche, non ha impedito di essere benedette in chiesa e sepolte in terra consacrata. 

Negli anni Cinquanta, non succedevano più queste cose: c’era stata la guerra, che aveva favorito lo sfogo di molte pulsioni e in parte sovvertito la gerarchia delle cose che davvero contano. Fra le quali, certo, c’era ancora la verginità delle ragazze, ma con margini di libertà assai maggiori nell’interpretazione della regola (non a caso, parecchi matrimoni venivano organizzati in fretta e furia e molti bambini, chissà perché… nascevano “settimini” o ancor più immaturi…    

La Madòna la s’è impietuzìda

Quando ero piccolo, ogni tanto si sentiva una speciale campana dal suono diverso dalle solite campane a morto: era deceduto un neonato (evento allora ancora frequente). Tutte le donne si facevano il segno della croce. Mia madre, commentando anni dopo questo comportamento, mi disse che in certe occasioni alcune esclamavano: La Madona la s’é misa na man in söl cör.

Mia madre mi spiegò che si diceva così nel caso della nascita in una famiglia molto povera e con tanti figli, per cui la morte del neonato era una specie di liberazione… 

Ora non so se questo costume vigeva ancora al tempo della mia infanzia, oppure va ascritto ai tempi della sua giovinezza, ma in ogni modo dà a pensare. In una comunità di donne che per tradizione amavano e curavano i bambini, questa reazione popolare non segnala di certo cattiveria e egoismo, ma evoca le ancora durissime condizioni di vita di molte famiglie.   

Sulla Bainsìzza

Un altro episodio che si riferisce alla morte. Nella trattoria di mio padre, capitava che un avventore venisse platealmente messo in disparte dagli uomini della sua generazione, perfino trattato con disprezzo. Erano uomini maturi, che io, di nascosto, prendevo in giro per il loro continuo parlare della loro esperienza sul fronte durante la Grande Guerra. Passi per l’Isonzo, ma il tormentone Quand serum in se la Bainsìzza… mi divertiva molto (solo dopo ha scoperto che su quell’altopiano era avvenuta una lunga e spaventosa battaglia…). 

Ma la ragione del loro disprezzo per quel coetaneo non aveva nulla di ridicolo. Dopo trent’anni, veniva ancora punito per un crimine infamante: El rubava ai suldat mort! E il fatto che probabilmente fossero austriaci, non alleviava la sua terribile colpa.

Lotta di classe… anomala

Un vicino di casa voleva trovare il modo di “punire” una delle più ricche signore del paese, che la sera passava superba e ingioiellata davanti alle persone, soprattutto donne impegnate a chiacchierare ma anche a cucire, sedute davanti all’uscio della propria casa facevano el filòs, umiliate da tante opulenza. Ovviamente, anche perché la famiglia della signora era di alto rango e, tra l’altro, benvoluta, non poteva manifestare con parole il suo biasimo socio-politico, per cui, come raccontò nell’osteria, “g’hòo tirat na schìda sfrisàada che gh’àa séntit tüta la cuntràda. M’è brüzàt el cül per dù dé, ma che sudisfasiòn!”. Per chi non lo sapesse, la schìda è una scoreggia rumorosa ma striscinte e sibilante che, pertanto, provoca spesso irritazioni all’apposito organo emittente…  

Ci sarebbe molto da discutere sulla reale saggezza dei proverbi e dei modi di dire legati alla cultura dialettale, che in tutti i paesi del mondo dicono cose contraddittorie e soprattutto in certi casi esprimono una morale chiusa o retriva. Inoltre, non ritengo si possa reintrodurre il dialetto come perno della comunicazione della nostra società. Ma si può e si deve riscoprirlo nei suoi molteplici valori referenziali ed espressivi.

Nella fotografia, in attesa della tv al bar Mutilato (1957)

Gianvi Lazzarini


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti


gianpaolo

22 giugno 2021 15:28

La passione verso la propria terra nativa permette al lettore un bel tuffo nel passato del dialetto cremonese.
Ciao Proff.

Mario

11 agosto 2021 16:13

Un tuffo nel passato molto simpatico e socialmente istruttivo. Queste battute, che non conoscevo, sono indicative delle caratteristiche della comunità