Non da tutti aver avuto un prof. "quasi" beato. La personalità umana e culturale di Giuseppe Berti in una testimonianza autobiografica
Certo, non è da tutti scoprire che il proprio professore di Storia e Filosofia al Liceo, può essere proclamato “Beato”, in quanto è stata aperta la causa di Beatificazione, che gli ha fatto acquisire il titolo di “Servo di Dio”. Sto parlando del notissimo prof. Giuseppe Berti, di cui tutti, dal 1939 al 1970 al Liceo Classico “Manin” di Cremona, avevano una conoscenza più o meno approfondita, data l’estrema originalità del suo modo di insegnare ed educare. E anche di comportarsi. Da parte mia porterò una testimonianza, piena di tante annotazioni personali.
Dopo gli esami di terza, quando non sapevo che scuola scegliere, giunse il parere del Consiglio di classe della “Virgilio”, allora in via Palestro, sulla prosecuzione degli studi: scuola di carattere umanistico. Alla fine, tra magistrali e liceo, scelsi il classico, con il proponimento di studiare più seriamente, perché lì, al liceo, non si scherzava: Nell’ottobre 1956, giunsi così anch’io, come Dante, a varcare l’ingresso fatale: certo, non era quello dell’Inferno, con parole di colore oscuro, indelebilmente scritte al sommo d’una porta, ma in ogni caso vi trovai un segno iniziatico. Mi accolse infatti il lungo scalone della vecchia entrata del ‘Manin’, in Via Attilio Boldori. Visto dal basso, con i suoi numerosi gradini, sempre più in alto fino alla porta d’ingresso, portava con sé un qualche significato simbolico: l’ascesa faticosa all’empireo della maturità classica? Forse una sfida alle incerte capacità di un ragazzo, che ancora sentiva di campagna, e che per qualche ora al giorno serviva espressi e cappuccini, distribuiva calici di vino o vendeva alla tabaccheria di suo padre toscani e sigarette nel Bar Orologio di Via dei Mille di fronte alla chiesa di S. Ilario, ai confini di una delle due zone “malfamate” di Cremona: San Bassano (l’altra era S. Imerio).
Il primo giorno di scuola avevo avuto il permesso, per non rischiare una caduta, essendo stato colpito dalla poliomielite, di entrare qualche minuto prima del suono della campana. Vidi dall’alto così salire via via tutti gli studenti. Pur nella frammentarietà delle immagini mnestiche di quel primo appuntamento, emergono tuttavia le figure dei ragazzi ‘grandi’ degli ultimi anni, con giacca e cravatta, eleganti, disinvolti e sicuri di sé, oppure ragazze che mi sembravano ormai donne irraggiungibili, come la magnifica Del Soldato, con una lunga treccia nera pendente dalle spalle: contenti di ritrovarsi dopo le vacanze estive.
Poi ricordo che comparve sulla soglia quello che mi sembrava un ometto dal viso buono e ingenuo, vestito modestamente, con un misero cappello, una borsa di cuoio un poco consunta e un ombrello, che tutti i ragazzi contornavano, salutavano, con fare protettivo e ironico. “Sarà un bidello molto popolare”, pensai. Invece era uno dei ‘personaggi’ del Liceo di quel tempo, che conobbi due anni più tardi in classe: il prof. Giuseppe Berti, ex-parlamentare alla Camera dal 1948 al 1955 per la DC. Eppure non udii mai nessuno chiamarlo “Onorevole”, come meritava, ma solo “professore”. Il suo stipendio da deputato finiva in carità e in offerte a istituti religiosi.
Berti aveva una grande forza: l'anticonformismo connaturato con le sue scelte etiche, che lo portava a disinteressarsi completamente del decoro solo formale, del presentarsi bene, eleganti e ben vestiti, di eventuali critiche dei colleghi e anche delle bonarie ironie dei suoi studenti. Portava a volte uno scialle per ripararsi dal freddo o un maglione da naufrago polare, come lo descrisse il suo allievo e poi collega Ferruccio Focher. E sui suoi cappelli – specie il panama estivo – si potrebbero scrivere novelle. Quando fu eletto deputato i suoi amici si accorsero che era in partenza per Roma vestendo il solito cappotto rattoppato. Allora gliene donarono uno nuovo, che però il professore vestì raramente, finendo sulle spalle di qualche povero.
Aveva una casa assai modestamente arredata: uno studio disadorno, qualche mobile essenziale, carte di appunti, molti libri, pochissimi soprammobili. Una volta i suoi studenti lo trovarono seduto sui gradini del Duomo di Cremona, a consumare un frugalissimo pasto. Aveva fatto un voto durante la prima guerra mondiale, essendosi salvato per miracolo, di non consumare carne, né cibi ricchi, come dolci, vino, frutta: praticamente vegetariano, con un pezzo di pane, un boccone di formaggio, un termos con una bevanda calda. Allora, imbarazzati per lui, lo invitarono a casa per il pranzo. Ma lui, novello Socrate, rispose: “Cari ragazzi, a casa vostra potreste offrirmi una sala bella come questa piazza?”.
Allora non sapevamo, dato che non parlava quasi mai di sé e di quanto faceva a Piacenza, che era stato un ragazzo del ’99 dopo Caporetto e aveva combattuto sul Montello. Che era stato tra i fondatori del Partito Popolare di don Sturzo e proprio per questo oggetto di violenze fisiche da parte dei fascisti nel 1923. Né che partecipò alla Resistenza, finendo arrestato qualche mese prima della fine della guerra e liberato per uno scambio di prigionieri con un sergente della RSI, catturato dai partigiani della Val d’Arda. Era il Natale del 1944. Grazie a queste esperienze e al suo spessore di studioso, divenne poi il primo presidente dell’Istituto Storico della Resistenza a Piacenza. Tra l’altro vale la pena segnalare che Berti fu Commissario Politico della 10^ Brigata del Popolo, formazione cattolica, e ricevette l’attestato di “Partigiano Combattente”.
E nemmeno sapevamo che fosse attivo propulsore dell’associazionismo cattolico, ricoprendo incarichi di prestigio, nella San Vincenzo, nella FUCI, nell’Azione Cattolica, nelle ACLI e nell’ENAIP. Amico di personaggi come Giorgio La Pira e Giuseppe Lazzati. La povertà e i poveri come ideale di vita: “il Signore, nella sua grande bontà, mi ha dato i poveri”, scrisse nel suo testamento spirituale. Si alzava prestissimo al mattino, andava alla prima messa, poi prendeva il treno per Cremona per presentarsi in orario al “Manin”. Dove ricevette, al momento della pensione per raggiunti limiti di età nel 1970, la medaglia d’oro e il diploma di prima classe dal Ministero della Pubblica Istruzione, come benemerito della scuola.
Riusciva a collegare un vivissimo interesse per le problematiche sociali e politiche contemporanee con un profondo senso morale cristiano. Voleva appartenere, lui intellettuale cattolico, non alla media e piccola borghesia, ma al mondo del lavoro, agli uomini e alle donne che costruivano con fatica la società italiana. E anche al mondo dei giovani. Aveva diverse propensioni che travalicavano il suo essere docente di filosofia, come quella di approfondire gli aspetti privati della vita degli studenti - maschi naturalmente, tanto radicata era in lui la diffidenza per le “ragazze” - i quali finivano spesso per raccontargli storie personali. A volte paradossali, che egli accettava sempre con un sorriso, anche se penso capisse quando fossero inattendibili. Grazie a questo, divenne un acuto interprete della crisi giovanile degli anni ’60, cogliendo i primi cenni di diffusione delle droghe tra gli adolescenti.
Scrive Ferruccio Focher: “c’era chi si preparava a fargli delle drammatiche confessioni per interessarlo alla propria persona o per prendersi gioco di lui. Ma sull’ingenuità di Berti era rischisoso illudersi. Veniva il momento che si capiva che lui aveva capito, ma aveva lasciato fare per meglio studiare l’allievo. Chi di ciò s’accorgeva, preferiva non dirlo o fingere con se stesso. Centro dei suoi interessi, ragione suprema della sua vita, era dunque l’animo dei giovani, che egli sapeva, nei suoi anni migliori, stimolare alla partecipazione e alla discussione, veemente, con uno stile indubbiamente precorritore di moderni metodi didattici”.
Una scelta didattica peculiare della linea pedagogica bertiana consisteva nell’assegnazione di brevi scritti personali, di solito una volta al mese. La richiesta di questa specie di “tema mensile” si verificava anche nei suoi corsi educativi per lavoratori. Brevi scritti che lui diligentemente leggeva e conservava, come conservava i suoi diari personali che, scritti con una calligrafia fitta fitta su agendine tascabili, vanno dal 1928 al 1979, il cui modello si deve fare risalire alle “Confessioni” di Agostino di Ippona. Ma molto caro gli era anche il pensiero di Antonio Rosmini, con la sua concezione della persona come “diritto sussistente”, cioè diritto vivente, con la libertà di ciascuno di ricercare Dio nella coscienza secondo percorsi propri.
“Perché un diario? Per ritrovare sempre me stesso in sincerità, rivedere la storia delle mie povere cose, constatare se la linea va verso l’alto, verticale o se devia. Uno stimolo dunque a questa volontà spesso incosciente, incerta o imperiosa”. Dove, poche righe dopo, si trova un rarissimo appunto sul suo rapporto con le donne. “Io non mi sono mai innamorato in vita mia. E non mi mancano le occasioni, perché fui sempre liberissimo di me stesso e del mio tempo… Io so dove sono le ragazze. Ne ho incontrate di bravissime, ma l’amore è un fatto eminentemente spontaneo, non è creazione della riflessione e del ragionamento. Così, cosa posso fare? Io credo che il partito migliore sia di tenermi spiritualmente pronto, come se la cosa potesse avvenire da un’ora all’altra” (9-12-1928). Dieci anni dopo scriverà in uno stile peculiare di autoindagine interiore: “Inizia un altro anno della mia povera vita: 39. Signore, quanti doni! Ma anche quante miserie! Tutte mie! Fai che abbia il cuore semplice come un fanciullo. Che mi ricordi solo il bene. Aiutami a dimenticare il male, in modo da gettare ponti alle anime, che Ti cercano, specialmente nella scuola. Che sappia amare e soffrire. Vergine, aiutami” (8-12-1938).
Ma la sua fede non lo staccava dalla vita attuale intorno a lui. In classe, il suo impegno sociale cristiano lo portava a parlarci in continuazione dei problemi interni ed internazionali, anche se le sue interpretazioni ci parevano alquanto soggettive. A distanza di tanti anni lo devo ringraziare, perché le sue lezioni ci aprivano al mondo. Riempiva la lavagna di schemi storici – le alleanze, i contrasti, i dissidi tra le diverse potenze. Ricordo ancora i suoi riferimenti alle diverse strategie politiche di società in evoluzione, i suoi complessi schemi sulla Cina di Mao, l’India dopo Gandhi, la Comunità europea, la politica cattolica messa a confronto con la via italiana al socialismo di Togliatti, con cui aveva avuto diversi colloqui.
Nonostante avesse interiorizzato pregiudiziali molto radicate, era molto attento alle novità. Quando uscirono canzoni come ‘Sassi’ di Gino Paoli o ‘Il cielo in una stanza’, ci sorprese giudicandole interessanti perché influenzate dall’esistenzialismo. Alcuni anni dopo gli portai, diventato studente di filosofia all’Università Statale di Milano e incontrandolo in stazione a Cremona in partenza per Milano, i libri di Herbert Marcuse, che lesse avidamente formulando un’acuta critica al testo che sarebbe diventato la Bibbia per gli studenti contestatori, “L’uomo a una dimensione”: “tutto il suo discorso porta ad una proposta solo estetica, intendendo la società come opera d’arte”. Molto distante quindi dalle sue scelte morali e sociali.
Gli portai anche, in quel tempo precedente le lotte operaie e studentesche del ’68, “Operai e capitale”, di Mario Tronti, a cui aveva fatto l’esame per l’entrata in ruolo. “Brillantissimo in filosofia, ma poco preparato in storia”, il suo giudizio. A Tronti e Asor Rosa attribuì il merito di aver capito in anticipo la ‘questione operaia’, che sarebbe esplosa con l’autunno caldo. Non penso fosse molto efficace come docente di filosofia, ma stimolava l’interesse per i problemi – così mi iscrissi dopo la maturità proprio a filosofia.
Ripensando a quella figura di insegnante, ora che ho raggiunto anch’io la sua età – di quando nel 1979 fu investito da un’automobile al mattino mentre si recava alla prima messa come aveva fatto tutta la vita – mi domando quanto Berti abbia influenzato il mio essere insegnante ed educatore. Penso molto poco, data la distanza tra la sua cultura, la sua fede, il suo stile di vita rispetto alla mia vicenda esistenziale.
Però, forse, ripensandoci un attimo… All’ITIS “Torriani”, dove ho insegnato trent’anni, quando arrivò il primo ragazzo di colore dal Congo, all’inizio degli anni ’80, il preside mi disse: “Lazzarini, lo mettiamo nella tua classe, vero?”. Così avvenne anche a proposito di Mariangela, che era stata operata per sei volte alla testa, per le conseguenze di un aneurisma celebrale: “Carmine, la inseriamo nella tua classe, va bene?”. E nel 1992, quando Maja e Brankiça giunsero da noi, dopo essere fuggite da Sarajevo e dalle brutture di quella guerra fratricida, ed erano in Italia da pochi mesi: “Pensiamo di far loro frequentare la tua classe… D’accordo?”.
Certo, non è da tutti scoprire di aver avuto un professore “povero tra i poveri”, che potrebbbe essere proclamato “Beato”.
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commenti
Michele de Crecchio
27 luglio 2021 21:50
Mi congratulo con Carmine Lazzarini per lo splendido ricordo di Giuseppe Berti che, purtroppo, ebbi come insegnante solo quando le sue energie fisiche (e forse anche intellettuali) si erano ormai ridotte al lumicino, come ci fece ben rilevare il prof. Ferruccio Focher (che ne era stato anche lui allievo) quando, indignato per lo scorretto e ostinato comportamento della mia classe nei confronti dell'anziano e misogino insegnante, ci rivolse una memorabile "intemerata" che non ottenne però risultati pratici. Mi è rimasto, da allora, un certo senso di colpa per non essere riuscito a garantirgli, in aula, almeno un poco più di rispetto umano da parte dei più cinici compagni di classe che non si preoccupavano minimamente di sfruttarne le note debolezze, Resta il fatto che nulla mi rimase delle sue lezioni di storia e pochissimo delle sue lezioni di filosofia (salvo quelle relative alla tomistica medioevale che era, credo, il suo preferito "cavallo di battaglia"!).