14 marzo 2023

Sessant'anni fa il film "La rabbia" firmato da Pasolini e Guareschi

Sessant’anni fa erano tempi duri per Giovannino Guareschi e lo scrittore non ne faceva mistero. La fine di “Candido”, decisa dall’editore Rizzoli nel 1961 lo aveva messo in ginocchio. La ribellione agli scenografi e al regista Carmine Gallone per come era stato costruito il film “Don Camillo Monsignore ma non troppo” gli era costata un infarto.

Nel 1963 Guareschi si sentiva solo, proprio come quel merlo impaniato sulla cima di un pioppo al quale si paragonava: «Io fischio, ma come faccio a sapere se quelli che stanno sotto mi sentono?». Così l’invito del produttore Gastone Ferranti a realizzare quello che lo stesso Ferranti riteneva il “film del secolo” stuzzicò notevolmente l’orgoglio e il bisogno di lavorare di Giovannino. «Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?» Questo l’interrogativo che doveva veder rispondere da una parte Pierpaolo Pasolini, dall’altra Guareschi. In realtà, però, il film non nacque proprio così. Ferranti, proprietario del cinegiornale “Mondo libero” aveva deciso di affidare al solo Pasolini la realizzazione di un lungometraggio che analizzasse, dal punto di vista di un cineasta-poeta, calato profondamente nella realtà, gli ultimi dieci anni della nostra storia, rispondendo ai tanti interrogativi che attanagliavano una società appena uscita dal dramma della seconda guerra mondiale e non ancora del tutto padrona del boom economico che sarebbe esploso alla metà degli anni ’60.

Pasolini prese in esame centinaia di migliaia di metri di pellicola dall’archivio del cinegiornale e ne ricavò un film, commentato dalle voci di Giorgio Bassani e Renato Guttuso, due speaker davvero d’eccezione, Ma a Ferranti il risultato non piacque: Pasolini aveva una visione di parte, serviva qualcuno che potesse suonare, come si suol dire, l’altra campana. Il produttore pensò, così, a un tempo del film da affidare a un antagonista e iniziò a chiedere se fosse interessato al lavoro Indro Montanelli, che, come del resto Giancarlo Vigorelli prima di lui, rifiutò garbatamente. A Ferranti venne in mente di interpellare Guareschi che, per le ragioni già note, accettò contrapponendo a Bassani e Guttuso Gigi Ortusio e Carlo Romano, rispettivamente voce fuori campo e doppiatore di Fernandel nei film di don Camillo.

Erano i primi mesi del 1963 e, tutto sommato, viste le premesse, “La Rabbia” si presentava come un film non solo moderno, addirittura avveniristico per molti versi. Ma fu un fiasco solenne. Visto il film, Pasolini minacciò di ritirare la firma; i pochi giorni di programmazione registrarono pubblico scarsissimo, la stessa Warner Bros. distributrice della pellicola decise di boicottarla. Forse il film raccontava una realtà, non presa dai precedenti dieci anni, ma addirittura troppo futuribile e non fu capito. Forse gli attacchi all’America, sia quelli scontati, da parte di Pasolini che quelli, nient’affatto scontati, di Guareschi convinsero il distributore a ritirare la pellicola. Forse davvero il pubblico non mostrò l’interesse che Ferranti sperava di aver suscitato.

Sta di fatto che, dopo sessant’anni, “La Rabbia” è ancora un film pressoché sconosciuto e certamente, per alcuni aspetti, datato. Leggere però gli appunti inediti che Giovannino Guareschi metteva nero su bianco per il film, è divertente e, allo stesso tempo inquietante, quando immagina il dialogo fra due neo-genitori di un figlio maschio: «Sesso? Lo deciderà poi lui. Bisognerebbe dargli un nome non impegnativo, che possa servirgli o come uomo, o come donna. Se non riesce a prendere moglie, prenda marito.» O ciò che scrive in una parte del commento non utilizzata: «Tutto serve a chi vuol farsi della pubblicità. Non ci sono limiti. Anche la valutazione del sacro e del profano è del tutto cambiata. Oggi si ritiene più conveniente scherzare coi Santi piuttosto che coi fanti perché, mentre i Santi stanno in cielo, i fanti sono in terra. Così anche il matrimonio va sempre più perdendo il carattere e la funzione originali. Per esempio, la legge ha tolto dai documenti l’indicazione della paternità allo scopo di non umiliare i cittadini che hanno come padre il marito della madre. Coll’avvento dei termoconvettori e dell’aria condizionata, il focolare domestico ha perso ogni importanza.» E dire che, attorno all’impresa cinematografica dei due antagonisti, Ferranti iniziò a costruire un battage pubblicitario destinato ad accrescere la curiosità del pubblico su cosa sarebbe uscito dal confronto fra due personaggi così famosi, non solo per il loro lavoro, ma anche e, soprattutto, per la nettissima opposizione di idee: il montaggio del film non sarebbe durato a lungo e urgeva creare interesse e qualche polemica sull’atteggiamento dei due autori. Nacque la leggenda della richiesta, da parte di entrambi, Pasolini e Guareschi, di non incontrarsi mai, per alcuna ragione, fino alla fine della lavorazione, cosa che avrebbe costretto il produttore a erigere un muro provvisorio fra i due studi di montaggio (cosa risultata poi del tutto falsa), così come si diffusero voci sulla disistima dell’uno nei confronti dell’altro, al punto di decidersi a ignorare completamente le reciproche opere, temendo di potersi trovare, per qualche fortuito accidente, d’accordo con l’avversario su qualcosa, anche se di minino conto. Le cose, però, non stavano così e, mentre Pasolini leggeva Guareschi, Guareschi leggeva Pasolini e i libri del poeta friulano sono ancora oggi conservati nell’archivio dello scrittore della Bassa. Alla fine si optò addirittura, cosa inaudita a quei tempi, per uno spot televisivo, un promo si direbbe oggi, di tre minuti e passa, nel quale i due registi si scambiavano una lettera: iniziava, come del resto nella stesura del film, Pasolini, che scriveva a Guareschi: «Egregio Guareschi,[….]se la rispetto come umorista, la rispetto meno come scrittore. E appunto perché lei userà le armi della mediocrità, del qualunquismo, della demagogia e del buon senso, lei riuscirà vincitore in questa nostra polemica, lo so bene. Ma quale è la vera vittoria, quella che fa battere le mani o quella che fa battere i cuori? Stia bene suo Pier Paolo Pasolini.» Rispondeva Giovannino: «Egregio Pasolini, scherza coi fanti e lascia stare i santi. Ma Lei, per aver scherzato coi santi, s’è preso quattro mesi con la condizionale, mentre io, per aver scherzato coi fanti, ho dovuto macinarmi tredici mesi di prigione, epperciò, ben conoscendo la situazione, prego ardentemente Dio  d’evitarle, anche in avvenire, la galera.[….] Non potendoLe dire “arrivederci” perché le nostre strade vanno in direzioni opposte, La prego gradire i distinti saluti di Giovannino Guareschi.» Un approccio intrigante, che certamente avrebbe avuto facile presa sul pubblico, facendo crescere l’attesa di poter vedere il film. Dunque, il film sembra dover veleggiare sicuro verso il successo auspicato da Ferranti: il promo viene trasmesso in tivù, ottenendo l’effetto sperato e ai primi giorni di Aprile arriva il visto della censura e la proiezione per la stampa e lo staff, compresi i due registi. Fallimento su tutta la linea.

Finisce dunque qui questa storia, nata come l’idea cinematografica del secolo e naufragata come il Titanic contro un ostacolo imprevisto, il mancato apprezzamento del pubblico e l’ostracismo della critica per l’inaccettabile commistione di “sacro e profano” fra il purissimo Pasolini e l’intoccabile Guareschi. Un naufragio dal quale, però, “La Rabbia” è riemersa, come il relitto di una nave corsara, grazie all’interesse della Cineteca Nazionale di Bologna, che quindici anni or sono ha dedicato alla fatica cinematografica più singolare (questo è certo) della seconda metà del ‘900, una mostra e una serie di conferenze e proiezioni, per ragionare del Guareschi filmico, da “Gente Così” a “Il decimo clandestino” (girato da Lina Wertmüller dopo la morte di Giovannino) passando attraverso questo lungometraggio che, finito nel nulla, significò uno smacco per Guareschi, ma diede vita al suo nuovo entusiasmo, alla volontà di lavorare che porterà alla collaborazione con “Oggi”, con “Il Borghese”, alla pubblicazione del volume e alla realizzazione del  film “Il Compagno don Camillo”.

Da una sconfitta apparente a una nuova vittoria, per lo scrittore che non smetteva mai di sperare nella Provvidenza, come recita il suo commento proprio alle inquadrature finali de “La Rabbia”: «Nonostante Mao, Kruscev e gli altri guai, vale ancora le pena di viverci, su questo pianeta! Una fiamma scalda ancora il nostro vecchio cuore di terrestri. E, in noi, è ancora più forte la speranza che la paura. Grazie a Dio

 

Egidio Bandini


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