27 febbraio 2021

Un Giuseppe Verdi inatteso nelle lettere della moglie Giuseppina La arrabbiature per i lavori in campagna o alla villa

Che Giuseppe Verdi fosse un uomo tutt’altro che facile, non è certo un mistero. Ma leggere ciò che il Maestro scrisse e, non da meno, ciò che scrisse di lui Giuseppina Strepponi, che il suo “Mago” conosceva a menadito, serve a renderci un ritratto del più grande musicista italiano se non inedito, almeno inusuale. Deciso, dal carattere d’acciaio (forgiato dalle tante disgrazie della vita), Verdi è qualcosa che va al di là dell’uomo d’affari preoccupato soltanto di ciò che materialmente gli poteva derivare dal proprio lavoro di compositore.

Cominciamo dall’inizio: «Con quest’opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica; e se dovetti lottare contro tante contrarietà, è certo però che il Nabucco nacque sotto una stella favorevole ...» E ancora «Non posso accettare la somma che la S. V. mi offre nella lettera dell’1 corr. Calcolata la messa in scena dei Lombardi, la spesa del libretto, le spese di viaggio e dell’alloggio in Venezia, io verrei ad intascare per l’opera nuova (Ernani ndr.) molto meno di quello che ho avuto per i Lombardi, somma della quale non mi contenterei per l’anno venturo.» E poco dopo «Io farò scrupolosamente il dovere che mi sono imposto; ma gli altri dovranno adempiere a tutti i patti contratti!!!»

Ad un giovane compositore che si affacci sui palcoscenici più importanti d’Italia e del Mondo si può perdonare qualche intemperanza e qualche ruvidezza di carattere, ma Peppino non cambiò sino all’ultimo: basti leggere ciò che scrisse al momento di comporre la sua opera finale, “Falstaff” «Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme dei miei anni? So bene che mi risponderete, esagerando lo stato di mia salute, buono, ottimo, robusto ... E sia pur così; ciò malgrado converrete meco che potrei essere tacciato di grande temerità nell’assumermi tanto incarico.» Una volta composto il melodramma, però, torna a galla un Verdi assai meno remissivo «Io domando semplicemente di essere padrone della roba mia e di non rovinare nissuno. Ed aggiungo, se si potesse farmi il dilemma: o accettate queste condizioni od abbruciate lo spartito, io preparerei subito il fuoco e porrei io stesso sul rogo Falstaff e la sua pancia.»

Arrivati all’accordo, però, il Maestro non rinunciò affatto a dire la sua anche sull’esecuzione dell’opera «Scusate: ma tutti avete agito senza energia! Spieghiamoci: 1) Io ho il diritto che le mie opere, come da contratti, vengano eseguite come le ho scritte; 2) l’Editore deve mantenere tale diritto, e se in Francia, come voi diceste, non ha abbastanza autorità, subentro io come autore e domando che Falstaff venga eseguito come io l’ho immaginato».

Dello stesso stampo anche le osservazioni che Verdi faceva sulla propria vita pubblica, soprattutto politica «Tu mi domandi notizie e documenti sulla mia vita pubblica? La mia vita pubblica non esiste. Sono deputato, è vero, ma fu per sbaglio». E quando venne nominato Commendatore, così scrisse al Ministro Broglio «Ho ricevuto il diploma, che mi nomina Commendatore della Corona d’Italia. Quest’ordine è stato istituito per onorare coloro che giovarono sia con le armi, sia con le lettere, scienze ed arti all’Italia. Una lettera a Rossini della E. V. benché ignorante in musica (come Ella stessa lo dice e lo crede) sentenzia che da quarant’anni non si è fatta più un’opera in Italia. Perché allora si manda a me questa decorazione? Vi è certamente un equivoco nell’indirizzo e la rimando».

Insomma, per dirla in soldoni un “uomo di difficili costumi”! Fin qui il Maestro compositore, deputato, mancato commendatore, ma ben oltre questo Verdi “pubblico” esisteva un Peppino “privato”, l’uomo di Sant’Agata, il “paesano delle Roncole”, di cui la sua “Peppina” arrivò a scrivere «… il suo amore per la campagna è diventato mania, follia, rabbia, furore, tutto ciò che volete di più esagerato. Si alza quasi con il giorno per andare a controllare il grano, il mais, la vigna eccetera. Rientra spossato dalla fatica, e allora come trovare il mezzo per fargli prendere in mano la penna!»

Ed egli stesso così descriveva le sue attività extra musicali «Il prelodato maestro trovasi tutto il giorno là in fondo, un po’ per incoraggiare i lavoranti, un po’ per strapazzarli e soprattutto per dirigerli. Dirigerli?!!! È questo il debole del signor maestro. Se tu gli dici che Don Carlos non val niente non gliene importa un fico, ma se tu gli contrasti la sua abilità nel fare il magut  (muratore in dialetto milanese n.d.r.) se n’ha a male… Così io faccio l’architetto, il mastro-muratore, il fabbro-ferraio, un po’ di tutto. Quindi addio libri, addio musica; mi pare di aver dimenticato e di non conoscere più le note…»

Come conciliare due personalità tanto forti in una persona sola? Solo un genio poteva riuscirci: solo un “Mago” che, a un certo momento, spiegò cosa ci fosse sotto questo amore per la terra, per la sua terra «Tu dirai cosa diavolo vado a fare in campagna? Ma tu sai che sono in fabbriche, che l’anno passato ho fabbricato una cascina, quest’anno due ancor più grosse e che sono là circa un duecento operai che hanno lavorato fino ad oggi, ed ai quali ho dovuto dare disposizioni per lavorar in avvenire appena il gelo lo permetterà. Sono lavori inutili per me, perché queste fabbriche non faranno che i fondi mi diano un centesimo più di rendita; ma tanto tanto, la gente guadagna, e nel mio villaggio la gente non emigra…»

Già, il suo villaggio, quello dove avrebbe voluto essere sepolto «I miei funerali dovranno esser fatti all’ave Maria del mattino o all’ave Maria di sera, senza cavalli e suoni con un prete e due candele e voglio essere seppellito nel cimitero del mio villaggio, in una modestissima tomba che ispero poter far costruire io stesso.» Così non fu… Ma di certo sono le rime della “Canzone” che Gabriele D’Annunzio scrisse quel 27 gennaio del 1901 a ritrarre come meglio non si potrebbe tutto ciò che Verdi era: «Ci nutrimmo di lui come dell’aria / libera ed infinita / cui dà la terra tutti i suoi sapori. / La bellezza e la forza di sua vita, / che parve solitaria, / furon come su noi cieli canori. / Egli trasse i suoi cori dall'imo gorgo dell’ansante folla. / Diede una voce alle speranze e ai lutti. / Pianse ed amò per tutti».

Egidio Bandini


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