"Il Trovatore" al Ponchielli il 18 e 20 novembre
Un appuntamento d’Opera con un capolavoro verdiano al Teatro Ponchielli, capofila di questa produzione per OperaLombardia. In scena il secondo titolo della così detta trilogia popolare: Il Trovatore, il 18 e 20 novembre (ore 20.00), che vedrà sul podio il debutto del M° Jacopo Brusa, uno dei più interessanti giovani direttori d’orchestra italiani, mentre la raffinata ed elegante regia sarà affidata al regista palermitano Roberto Catalano.
giovedì 18 novembre ore 20.00
sabato 20 novembre ore 20.00
Il Trovatore
Dramma in quattro parti. Libretto di Salvadore Cammarano, Leone Emanuele Bardare
musica di Giuseppe Verdi
Prima rappresentazione: Teatro Apollo, Roma, 19 gennaio 1853
Ed. RICORDI
Matteo Falcier (Manrico), Leon Kim (Il Conte di Luna), Marigona Qerkezi (Leonora), Alessandra Volpe (Azucena), Alexey Birkus (Ferrando), Sabrina Sanza (Ines), Roberto Covatta (Ruiz), Riccardo Dernini (Vecchio Zingaro), Davide Capitanio (Messo)
direttore musicale Jacopo Brusa
regia Roberto Catalano
scene Emanuele Sinisi
costumi Ilaria Ariemme
luci Fiammetta Baldiserri riprese da Oscar Frosio
ORCHESTRA I POMERIGGI MUSICALI DI MILANO
CORO OPERALOMBARDIA
maestro del coro Diego Maccagnola
Coproduzione dei Teatri di OperaLombardia
Allestimento ripreso dalla produzione dell’Ente Concerti "Marialisa De Carolis" di Sassari, 2019
Prezzi dei biglietti: platea/palchi €60-galleria €40-loggione €22
Biglietto studenti € 15
L’accesso agli eventi in programma presso il Teatro Ponchielli sarà consentito esclusivamente ai soggetti muniti di Green Pass.
STORIE DI AMORE, GELOSIA E VENDETTA
note musicali a cura di Jacopo Brusa
Il celebre critico musicale e studioso delle Opere di Verdi Abramo Basevi scrisse nel 1859, a proposito del Trovatore: “ognuno vede che le inverosimiglianze ed anche le assurdità non mancano in questo argomento, ma per compenso vi è quanto basta a scuotere la fibra dello spettatore”. In questa definizione, in effetti, si racchiude il “segreto” del successo del Trovatore che, fin dalla prima rappresentazione del 1853, fu sancito dal pubblico. Il Trovatore, nonostante le ambiguità della trama, ammalia l’ascoltatore grazie alle suggestioni melodiche, ritmiche e coloristiche che si susseguono quasi freneticamente e che, paradossalmente, sono rese possibili dalla struttura del libretto stesso. Prendiamo ad esempio i primi cinque numeri musicali dell’Opera, quelli che hanno il compito di renderci, o meno, interessati all’ascolto. Ebbene, in quattro di essi vi sono dei “racconti” che, indipendentemente dalle vicende narrate, stimolano in noi il fascino arcaico del “rito del racconto”, quel rito che evoca Ferrando nell’Introduzione e, nel momento in cui il coro (ma anche il pubblico!) gli chiede di “narrare la vera storia di Garzia”, lui risponde: “La dirò: venite intorno a me!”, invitandoli/ci tutti idealmente attorno al fuoco per ascoltarlo. É Verdi stesso che ci “invita”, sfruttando magistralmente le possibilità espressive legate al testo della narrazione che, a sua volta, ci rimanda all’affascinante esotismo del mondo gitano di Azucena. La zingara, peraltro, è il personaggio veramente innovativo dell’Opera per il quale, fin dall’inizio, Verdi prevede un ruolo talmente centrale che vorrebbe che l’intero melodramma fosse intitolato a lei! Azucena si muove sempre tra disperazione, malinconia e sete di vendetta, tra momenti di lucidità e di follia, condizioni emotive, queste, che esaltano la scrittura verdiana. “Quando Azucena non ragiona, ragiona meglio il Dramma”, scriverà. Come per la Lady Macbeth di sei anni prima, la “pazzia” e, ancora di più in Azucena, lo stato ipnotico in cui spesso si trova, portano Verdi a sperimentare un uso della voce che volge molto spesso al “declamato” e al “parlato”. Di contro, Leonora, è l’espressione del Belcanto, incarnata dal legato dei Cantabili, dalle cadenze virtuosistiche, dalle agilità e - perché no? - dalle variazioni nelle Cabalette. La dinamicità dell’azione drammatica, infine, è garantita dal tradizionale duello “guerriero e amoroso” tra il Baritono e il Tenore. Verdi, per il Conte e Manrico, si esalta utilizzando le “armi” della Solita Forma. Le vicende narrate nel Trovatore, quindi, sono una vera summa di quelle passioni che Verdi cerca avidamente in quegli anni (Amore, Gelosia e Vendetta) e che gli permettono di immettere nella “tradizione” quegli elementi innovativi che contribuiranno a renderlo immortale.
NOTE DI REGIA
a cura di Roberto Catalano
Siamo in un luogo dove qualcosa è successo. Un luogo dove il fuoco ha distrutto ogni cosa.
La fiamma ha attraversato la bellezza che un tempo vi dimorava e ne ha ucciso ogni possibile testimonianza.
Resta l’ossame di quel mondo e una gigantesca immagine del vecchio progetto, ciò che doveva essere quel mondo prima del disastro, lo scheletro su cui costruire il nostro luogo da abitare.
Questo progetto è sotto gli occhi dello spettatore da subito, quasi fosse un promemoria dello sforzo compiuto prima della sua realizzazione. Come se facessimo coincidere il progetto di un palazzo bellissimo con la fotografia della sua distruzione. È un ricordo, è lo strazio della memoria che continua a bruciarci i pensieri, è la compresenza di ciò che era e di ciò che non c’è più.
Così questa storia comincia, in un mondo compromesso, dove il trauma di Azucena, amplificato sulla scena, ha investito la vita di chi vive in una stanza completamente sommersa dai resti di un mondo perduto.
Non è rimasto nulla; solo oggetti carbonizzati a ricordarci delle cose che erano e che non torneranno mai più. Una libreria bruciata ci rimanda a una memoria compromessa, a un’impossibilità di verificare che le cose qui narrate siano davvero accadute.
Gli uomini che abitano questo posto vivono nella completa solitudine, errando sulla terra deserta e nera, intrappolati nella storia che non li lascia andare.
È la storia di un dolore doppio e terribile. La storia di una donna che ha visto morire la madre e che per errore ha arso vivo il proprio figlio. Il fuoco è l’assassino, l’immagine che si è impressa negli occhi al punto da sostituirsi al mondo tutto intero.
Azucena, così come tutti gli abitanti di questa storia, si muove sopra i resti che quel fuoco ha lasciato dietro di sè, e il suo incedere passo dopo passo, nel mare nero che le ricorda tutto, le brucia ancora la pelle. Nessuno può liberarsi di un dolore simile, nessuno può rimuoverlo.
Ma c’è qualcosa in questa storia, una voce che canta ancora l’amore vero e autentico, che come un aratro, incide la terra nera di cenere, scoprendo la luce che vi si nasconde.
E allora si lavorerà per disseppellire il mondo che era, una “pace bianca” che possa tornare a far respirare tutti. La rimozione di un trauma. La pulizia definitiva di un’anima fortemente compromessa dal dolore. La ricerca della luce che ognuno di noi possiede, e che è seppellita sotto il peso delle colpe.
Da questo momento in poi bisognerà far respirare la luce per sopravvivere al soffocamento.
Azucena assolderà gli zingari per rimuovere le tracce del trauma che infesta questo mondo da quando il fatto è stato commesso.
I resti bruciati che vengono rimossi non sono mai abbastanza, e il bianco che giace sul fondo lo si può solo intravedere, Mucchi di sporco vengono prelevati a tempo, con le donne che incitano gli uomini a fare un buon lavoro. In quel mondo bisognerà abitarci per sempre e, per sempre, si sarà condannati forse ad operare questa rimozione. Come ci fosse, sulla pelle di ciascuno, l’impronta di un peccato da dover espiare.
Ognuno col suo peso. Ognuno con la propria colpa. Azucena rivive il trauma di quella doppia morte di continuo. La sua realtà, filtrata da occhi ormai morti, è quella che ciascuno di noi vede.
Ciò che le è accaduto è talmente potente che ha involontariamente toccato tutti.
Solo Leonora potrà liberarli.
Soltanto la sua morte potrà davvero rendere possibile questo amore che altrimenti, soffocherebbe sotto la cenere come tutto questo mondo che agonizza. Sarà così che deciderà di offrirsi all’uomo che da tempo brama di possederla. Al cospetto del Conte di Luna, infatti, offrirà se stessa in cambio della libertà, in cambio di una breccia nel muro, di uno spiraglio di luce che consenta a Manrico di fuggire via da questa “tomba di vivi”.
Il suo sacrificio, questo amore che in questo mondo non trova spazio, potrebbe liberarli tutti.
Nessuno però ha tempo di vedere che la via è schiusa; che, finalmente, tutto il mondo è in luce. Al cospetto della definitiva libertà, si resterà immobili e inermi. Ciascuno impegnato con la propria rabbia, con la grande stanchezza che questo vivere comporta.
Manrico viene mandato a morire. Gli occhi di Azucena si posano su un altro omicidio.
“Egli era tuo fratello”, urla al Conte che finalmente entra in possesso della verità.
Quell’uomo è ora un omicida; si è sporcato. Irrimediabilmente e per sempre. Il trauma col quale convivere adesso è soltanto il suo. Azucena, come Medea sul carro alato del dio Elios, fugge verso la sola porzione di luce rimasta. È la fine di ogni dolore. Il conte resta solo.
Le mani completamente sommerse da nuova cenere.
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