25 aprile 2025

25 aprile di 80 anni fa. Le campane a festa delle chiese salutano l’arrivo dei partigiani in città. I tedeschi in ritirata si concentrano fra la Baldesio e le colonie padane

Ennio Serventi rappresenta una delle memorie di quello che accadde a Cremona il 25 aprile 1945, ottant'anni fa. All'epoca era ospite in orfanotrofio ma la sera che precedette il 25 aprile dormì nel letto della sua casa di via Bissolati. Ecco il suo racconto pubblicato nel 2007 sulle pagine de "La Cronaca". Una narrazione viva, senza fronzoli che dice quale fosse la situazione di quelle giornate nelle strade di Cremona.   

...In quei giomi alla “Paolini” erano accasermati un centinaio di militi della brigata nera. Mentre eravamo in fila al bancone del fornaio, una voce disse in dialetto “guardate, guardate, scappano”. Guardai dalla parte indicata , vidi che da una delle finestre della caserma, l’ultima prima che i due corpi di fabbrica si in- nestassero fra loro, alcuni uomini si calavano verso terra. “Scappano”, commentò il fornaio da dietro il banco, aggiunse: “hanno cominciato ieri”.

In collegio c’era agitazione. Notizie di quel che si diceva e stava succedendo in città erano state riportate da studenti arrivati prima di noi e dagli allievi che lavoravano in diverse botteghe della cifra fatti rientrare anticipatamente dai datori di lavoro. Ci eravamo tutti raggruppati al di qua del grande cancello che ci divideva dalla strada, luogo dove era in corso di svolgimento qualche cosa di straordinario. Tenevamo costantemente sott’occhio il vano della portineria, posto dal quale sarebbero sbucati gli ultimi a rientrare. C’era timore, curiosità, voglia di sapere e anche un po’ di affascinante attrazione per quell’avventura che sembrava giocarsi dall’altra parte di quel cancello. Dalla portineria entrò Mario Modina, era uno dei più grandi, in un attimo gli fummo tutti attorno. Con la consueta vivacità raccontò di essere stato coinvolto in una certa cosa. In una lettura fatta anni dopo mi parve di trovare tracce e riscontro del suo racconto. Quella notte dormii nel mio letto di via Bissolati, mio fratello era venuto a prendermi e riportato a casa.

Chissà come nella strada si intuì che gli occupanti se ne erano andati, lasciando la caserma incostudita. Quando questo divenne certezza la gente si riversò nella strada e correndo raggiunse il grande portone. Le grandi ante spalancate non opposero resistenza ed i cortili vennero invasi. Vuota di soldati la caserma venne anche svuotata di ogni cosa che fosse tra-sportabile. Per un tempo che non so quantificare la caserma fu sottoposta al saccheggio di quanti spera- vano di potersi finalmente sfamare dopo quei tanti mesi di privazioni. Alla gente mancava quasi tutto quello che era indispensabile per vivere, tutto poteva essere utile e tutto venne asportato, compreso l’inutile. La gente correva, andava svelta e si chiamava, consapevole e timorosa che il tempo di quell’illusoria occasione non sarebbe durato a lungo.

Affacciato alla prima finestra della caserma, quella all’angolo con via “Vachina”, un tale in maglietta bianca e maniche corte con ampia gestualità e con la voce incitava chi ancora era nella strada ad affrettarsi. Il signor L. che abitava nel cortile ed era il padre di bambine con le quali giocavo, andava verso casa cercando di non fare traboccare il vino dalle secchie che teneva una per mano. Sorridente rispondeva alle battute ironiche che la gente gli rivolgeva. Giorgio e Roberto M. scendevano per il vicolo dove abitavano nella casa che fu anche di S. Omobono, il più grande si era caricato sulle spalle un mobile con specchio e cassetti che poteva essere stato parte dell’arredamento della barberia della caserma. Il fratello, più piccolo, non ricordo cosa portasse, ma aveva anche lui le mani occupate.

Arrivavano dalla “Colletta”che aveva subito la stessa sorte delta “Manfredini”, incrociandoli mi dissero: “vai c’è anche E.” Io tornai verso il mio angolo di via Bissolati. “E.” era un ragazzino che abitava alla estremità della strada, verso la piazzetta di Santa Lucia, anni dopo mi raccontò che lui si era dato da fare
con un aggeggio gigantesco che poteva essere stato o la batteria di una orchestrina o la grancassa di una banda. Non riuscendo a sollevarlo, aveva fatto rotolare quell’immenso tamburo come si faceva per gioco con i cerchioni in disuso delle biciclette. Poi, per l’intervento di un adulto, aveva desistito.

Quel mezzogiorno il pasto fu più veloce del solito, Maurizio doveva andare a “suonare le campane”, io andai con lui. Data l’ora era escluso che lo scampanio dovesse servire per richiamare gente ad una funzione religiosa. Uscimmo che la sarta stava già cercando di ritrovare la pagina del libro dove aveva interrotta la lettura il giorno prima. Leggeva sempre subito dopo avere mangiato. Finita la guerra, a liberazione avvenuta cominciarono ad uscire i liberi giornali. In quello spazio di tempo il libro venne sostituito da un “quotidiano” Cosi fecero la loro comparsa in casa prima “IL FRONTE DEMOCRATICO” e, più tardi l‘“AVANTI!”.

Con Maurizio, che dopo la vittoria della rivoluzione cinese prendemmo a chiamare “Mao”, percorsi per intero la navata centrale della deserta chiesa di S.Agostino e ci infilammo in una porta d’angolo. Entrammo nella buia ed un tantino misteriosa sagrestia di quella chiesa dove trovammo ad attenderci il parroco don Stuani con il sagrestano. Il sagrestano lo conoscevo bene, nel tempo libero andava per i cortili a rifare i materassi. Era venuto anche da noi. Io ero convinto che per suonare le campane fosse necessario salire in alto, magari fino in cima alla torre, invece dopo avere salito una rampetta di scale ci trovammo in una stanza dove dall’alto pendevano alcune grosse corde. Non riuscii a vedere dove fossero agganciate. Il parroco che era di colorito roseo con stampata sulla bocca una piega che sembrava un permanente sorriso, guardava costantemente l’orologio. Tutte le volte lo estraeva e riponeva in una tasca della tonaca. Era chiaramente attento a non farsi sfuggire l’ora concordata per un appuntamento che non poteva mancare. Poi l’orologio lo tenne in mano, senza distogliere lo sguardo dal quadrante assunse quella caratteristica espressione di attenzione di chi aspetta una cosa che certamente avverrà.

Proveniente dall’esterno si sentì un suono di campana. Il parroco diede un’ultima occhiatina al quadrante dell’orologio mentre diceva: “Questo è il torrazzo” e fece un cenno con la testa. Il sagrestano e Maurizio tirarono forte la corda che avevano già stretta fra le mani, la lasciarono di colpo e si spostarono veloce- mente a tirare l’altra. Sentii distintamente i primi due rintocchi delle nostre campane, i successivi si fusero con quelli delle altre torri. Il parroco era molto attento ai suoni che provenivano dall’estemo,sembrava eseguire un controllo. Ormai le campane delle chiese cittadine suonavano quasi tutte in un unico concerto ma lui, il parroco, di ogni nuovo rintocco sapeva dire la provenienza: questa è S. Ilario e quest’altra è S. Sebastiano. I rintocchi del campanone del torrazzo sovrastavano tutti gli altri e quando quella campana cessò di battere il sagrestano e Maurizio smisero di tirare le corde. Il parroco disse alcune parole, il cui senso poteva essere: “Il vescovo ha fatto certamente una scelta meditata, noi abbiamo ubbidito”.

Tornai verso casa, le strade erano deserte. Nel nostro angolo di via Bissolati trovai gli altri ragazzi della contrada, mi fermai con loro. Improvvisamente ci rendemmo conto del silenzio che ci circondava. Non si sentiva assolutamente niente se non il silenzio. Le porte delle case cominciavano ad essere chiuse e cosi le finestre dei piani bassi. Un tantino impauriti da quella quiete andammo tutti verso casa. Io attraversai in diagonale la strada e mi infilai nel corridoio che da questa portava al cortile, la gente della casa era riunita in quel passaggio. Ogni tanto qualcuno andava a dare una sbirciatina all’esterno finchè tutti an- dammo sul marciapiede. Il silenzio era sempre totale ma il deserto cominciava a non essere più tale.

Qualche cosa si muoveva all’incrocio di vicolo Ferrario con via Bissolati, davanti alla porta della caserma. Un gruppo si staccò e venne nella nostra direzione. Oltrepassò la leggera sporgenza delle case davanti a quella dei Gerosa e quegli uomini furono davanti a noi. Non indossavano divise ma erano armati di fuci- le. Ci superarono dandoci una occhiata ma senza dirci una parola. Saranno stati quindici, o forse venti. “Sono quelli dell’oratorio di S. Pietro” disse la sarta del secondo piano, che aveva riconosciuto fra quegli armati uno dei figli della Ida Matarossa. La Ida abitava in una casetta in via del Giordano proprio di fronte allo sbocco della via Lungastretta. A dire della sarta il parroco di S. Pietro aveva visto di buon occhio, ed anche stimolati, i giovani dell’oratorio ad andare con i partigiani. Così, sempre a giudizio della sarta, non si era comportato il parroco di S. Agostino.

Poco dopo un gruppo di partigiani ripassò davanti alla nostra casa provenienti dalla direzione opposta ai primi. Potevano essere gli stessi che per una qualche ragione tornavano sui loro passi. “Non sanno neanche loro cosa fare” commentò la sarta a quel ripassaggio. Un gruppo di partigiani cominciò a radunarsi al portone della casa di Milanesi, proprio dirimpetto alla nostra. Milanesi era il capo dell’ U.P.I. (ufficio politico investigativo del fascio repubblichino) la sua sede abituale di lavoro era la “Villa Merli”, luogo di interrogatori e di tortura. Per i cremonesi “villa Merli” divenne sinonimo di sofferenza e dolore. qualche anno fa  una signora ospite di una casa di riposo cremonese alla classica domanda “si trova bene?” rispose: “ come a villa Merli”.

Alcuni di quei partigiani vennero a chiacchierare con le ragazze del cortile finchè non furono richiamati. Picchiarono rumorosamente al portone che rimase chiuso. Uno di loro aiutandosi ed aggrappandosi alle inferriate delle finestre del piano terra si affampicò fino al balcone, stese la mano per aiutare altri a sali- re. Lo conoscevo bene, era stato in collegio con me ed anche negli anni successivi avemmo sempre un buon rapporto. Era Otello Marri.

I tedeschi, in ritirata, stavano attraversando il Po concentrandosi sull’argine maestro fra la Baldesio e le colonie padane. Si sparse la voce che nel tentativo di aprirsi la strada verso il nord quella notte avrebbero investito la città sottoponendola al saccheggio. “Rico”, l’unico uomo del cortile che avevo visto indossare una divisa militare, andò e ritornò armato di fucile. Mi disse che le armi venivano distribuite in piazza del Comune. Sotto la legna accatastata nel cortile vennero nascoste le poche cose ritenute di valore come lenzuola e qualche aItro capo di biancheria. Nessuno di noi possedeva argenteria. La porta verso strada venne chiusa e rinforzata con un paletto messo di traverso ed incastrato fra i muri laterati. Alle due finestre del piano terreno, che si aprivano verso la strada protette da grate di ferro, furono sistemati dei materassi per impedire che oggetti lanciati dall’estemo potessero finire dentro casa. “Rico” aveva organizzato la difesa ma i tedeschi non entrarono in città, defluirono per strade laterali e la notte passò tranquilla.

Ennio Serventi


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