27 giugno 2025

29 giugno. Storie e tradizioni dei Santi Pietro e Paolo, ricorrenza legata ai nostri territori. La festa in città e nei paesi

Tempo di feste tradizionali e patronali, ricorrenze legate ancora una volta alle nostre campagne ed ai nostri territori. Il 29 giugno, che quest’anno cade in domenica, ricorre la festività dei santi Pietro e Paolo apostoli. E’ festa in città, a Cremona, ma è festa anche in tante località della diocesi, da Barbata a Calvenzano, per proseguire con Cascine San Pietro, Pumenengo, Vailate, Barzaniga, Casanova del Morbasco, Castelnuovo Ghirardi, Gallignano, Gera San Pietro, Polengo, Soncino San Pietro, Cà dè Soresini, Solarolo Monasterolo (dove si custodiscono, in chiesa, la splendida pala dell’altare maggiore raffigurante il Battesimo di San Paolo, opera del pittore fiammingo Ubert De Lange e l’affresco della caduta da cavallo di san Paolo datato 1614 mentre in facciata si possono ammirare le due statue dei santi Pietro e Paolo opere dello scultore Ferraroni e della fonderia Boccacci), Pieve Delmona, Bozzolo, Viadana San Pietro e Vicomoscano. E’ festa anche in diversi centri della diocesi di Crema: a Quintano, Ricengo, Casaletto Ceredano, Madignano, Moscazzano, Salvirola Cremasca e nella parrocchia cittadina in borgo San Pietro.  Ancora una volta è doveroso attingere a quanto scrive Luciano Dacquati in quella “pietra miliare” di storia delle nostre terre che è il libro “Ròbe de na vòolta – Cinque secoli di tradizioni, usanze, proverbi cremonesi” uscito nel 1960 ma sempre attuale. Pagine in cui innanzitutto ricorda che un tempo banchetti e giostre venivano posizionati da piazza Cavour a piazzale Cadorna, estendendosi anche nelle vie interne, specie  verso la chiesa di san Pietro. Una fiera, quella cittadina, nata in origine come mercato di stampo contadino, coi cittadini che sono stati coinvolti solo in un secondo tempo.  A fine giugno nelle cascine veniva completata la “raccolta” delle “galète” (cioè dei bozzoli o bachi da seta) ed i contadini vendevano questo loro piccolo tesoro ed avevano così una certa disponibilità di denaro (ed era forse l’unica volta dell’anno). Arrivavano in città il 29 giugno, al mercato di san Pietro, per far scorte  di utensili e stoviglie da utilizzare nei mesi successivi e naturalmente si dedicavano anche a qualche svago ed è da lì che il mercato si trasformò in una fiera. Come ogni fiera che si rispetti non mancano i dolci tipici come il “cibàlo”, il “tiramòla” , il “croccante” e il classico zucchero filato, mentre per dissetarsi ecco la “grattata” di ghiaccio con l’aggiunta di sciroppi vari (la classica granita). Dacquati ricorda anche il classico urlo “cìinch ghèi pusèe, ma vìirda”  lanciato da qualche assetato campagnolo così come ricorda che fino alla  Grande Guerra, a San Pietro veniva venduto anche un caratteristico giocattolo, costituito da una serie di cerchi di legno concentrici, ai quali si appendevano dolciumi di basso prezzo. Era il cosiddetto “castèl” perché nelle intenzioni doveva  raffigurare il castello di Santa Croce. In passato era anche usanza  recarsi in bicicletta nel piacentino per gustare pane, coppa,  culatello e pesce minuto fritto prima di divertirsi sulle giostre. Tanti sono anche i detti per questa occasione: “San Péeder l’è a caval dèl  méeder” (per San Pietro la mietitura è nel suo massimo fervore”; “”Per San Péeder in dèl melegòt se scòont  el puléeder” (a fine giugno  il granoturco di prima semina è tanto alto che può nascondere persino un puledro); “A San Péeder el pàs de ‘n pulèeder” (proverbio identico al precedente come significato); “Per San Péeder el cùulmo del méeder” (Per San Pietro la mietitura è al culmine); “Se Péder  e Pàao i vèen piuvèent, per èn mèes  farà brot temp” (significa che se quel giorno il tempo è brutto c’è da attendersi che per un mese le condizioni meteo non miglioreranno””. Tra i rituali spicca invece quello della Barca di San Pietro, un rito che attraversa i secoli che non è né una leggenda né una superstizione. Si tratta di un rito nato nell’VIII secolo per iniziativa dei monaci benedettini che lo diffusero tra i contadini del Nord Italia con lo scopo di rinforzare il culto di San Pietro. Ancora oggi in molte famiglie la sera del 28 giugno si compie questo piccolo gesto, semplice e poetico: si rompe un uovo freschissimo, si raccoglie solo l’albume e lo si versa in un recipiente pieno d’acqua limpida. Il contenitore viene quindi lasciato fuori tutta la notte, meglio se esposto alla luce della luna. In caso di pioggia va esposto in un angolo riparato, ma comunque all’aperto. Quando ci si sveglia, al mattino, l’albume ha preso forma: vele, scafi, alberi. Una barca in miniatura che galleggia e affonda dolcemente nel bicchiere. Secondo la tradizione, a formarla sarebbero stati proprio i santi Pietro e Paolo, scesi sulla terra nella notte per soffiare sull’acqua e guidare la “navigazione del destino”. La lettura del veliero porta ai segni del raccolto o del futuro. In caso di vele larghe e ben spiegate si annuncia un anno fortunato,  con lavoro abbondante  e affari che vanno bene; in caso di scafo grande e definito si prevedono stabilità, benessere familiare ed equilibrio. In caso di alberi sottili ed inclinati l’invito è quello alla prudenza, a prendersi cura di sé o dei propri cari. Se la barca è sul fondo la fortuna arriverà ma occorrerà pazienza e se è sospesa o si solleva significa che il destino è vicino e positivo. Questo può essere anche un laboratorio per i più piccoli che certamente lo vivranno come una magia. Non serve spiegare la scienza (l’albume si rapprende al freddo notturno e si modella per effetto della temperatura): è sufficiente accendere una candela, raccontare una storia e osservare il cielo insegnando così, ai più piccoli, il senso dell’attesa, della fiducia, ed il rispetto per i gesti lenti. In passato alcuni contadini usavano leggere la barca per prevedere pioggia o siccità a seconda della forma ed in certe zone si lasciava il bicchiere tra le spighe di grano come benedizione e c’era anche chi aggiungeva una goccia di limone  per rendere più visibile l’albume. Non era e non è solo un gioco ma  un modo per sentirsi, il tempo che passa. Oggi rifarlo e riviverlo significa tendere un filo invisibile verso chi c’era prima di noi e magari lasciare un segno per chi verrà parte di qualcosa di più grande: la famiglia, la terra, in un mondo che corre la barca di San Pietro ci insegna a  fermarci, ascoltando in silenzio l’acqua, la luce, il Creato e la memoria. Da evidenziare inoltre che è ancora meglio se nel recipiente si usa  l’acqua di rugiada ma solo se raccolta la notte di San Giovanni.

Ecco spiegato il legame tra i due santi celebrati ad inizio estate ed il passaggio simbolico tra feste pagane, calendario solare e tradizione cristiana. Per quanto riguarda poi la vicina sponda emiliana sarà festa patronale a Ragazzola, piccolo borgo fluviale del parmense che ebbe senz’altro una chiesa in epoca remota. A livello di documentazioni ufficiali la prima figura in una pergamena cremonese (L.Astegiano: Codex diplomaticus Cremonae) datata 27 giugno 1271 (allora Ragazzola faceva parte della diocesi di Cremona). Si tratta di un foglio che parla di una lite intercorsa tra Umberto De Grondono, chierico e sindaco del monastero di Castione Marchesi, e la nobile famiglia dei Sommi, feudatari del vescovo di Cremona. In quella documentazione il borgo è definito come “Carpeneta” o “Carpaneto”, ben diverso quindi dal successivo “Ragazzola”. Va detto, e non è un particolare secondario, che nei secoli passati Ragazzola non si trovava esattamente dove sorge ora. Il nucleo più antico era in una posizione più ad ovest rispetto a quella attuale, verso Pieveottoville. Non a caso, ancora oggi, si trova il “Viottolo Piazza Vecchia”, a ricordare evidentemente il precedente centro storico del borgo. Borgo che, nei secoli, come gli altri circostanti, ha subito fortemente le influenze e, in particolare, le piene del Po. A pochi passi dal “Viottolo Piazza Vecchia” esiste ancora, inoltre, ancora oggi, una antica struttura, denominata “Chioso” che, in una mappa del XVIII secolo del territorio di Zibello è indicato come “Casamento delle Madri di San Giovanni di Borgo San Donnino” (l’odierna Fidenza) ed era quindi, in parole povere, un monastero. Nella stessa mappa si nota anche la presenza di una osteria e, in un documento dell’Archivio Pallavicino datato 1780 e conservato a Busseto, si possono distinguere la chiesa vecchia (in golena) e l’antico cimitero. Vi sono inoltre indicati una strada che portava al porto e al Po ed una strada definita “derelitta”.   Pare, tra l’altro, che una serie di tunnel sotterranei collegassero il “Chioso” all’azienda agricola Palazzo (oggi proprietà Levrini)  la cui origine è particolarmente antica. Pare infatti che, a sua volta, sia stata sede di un monastero e, da ritrovamenti effettuati, è da considerare certa che questa fu colpita e devastata da un pesante incendio. Alcuni cedimenti che, anche di recente, si sono formati nei campi adiacenti, ed il ritrovamento di grossi mattoni durante le operazioni di aratura avvallerebbero l’ipotesi circa l’esistenza di tunnel che avrebbero collegato il “Chioso” e il “Palazzo” anche alla corte Le Giare (prima della costruzione degli argini) e al Crocilone. Al “Chioso” sarebbe anche esistito il famoso e leggendario pozzo delle lame. 

Venendo alla leggenda ufficiale, questa più che mai va a “fondersi” con la storia. Storia che conferma che nella zona in cui oggi sorge il celebre “budri” (che dà anche il nome ad un eccellente agriturismo di fresca apertura) si trovavano un tempo la vecchia chiesa e il cimitero del paese, andati  distrutti durante una inondazione, tanto improvvisa quanto tremenda del Po. Leggenda vuole che in quel momento si trovasse, all’interno del sacro edificio, una ragazza, che sarebbe stata risucchiata dall’acqua e dal fango, insieme a tutta la chiesa, sprofondando così nel sottosuolo. Da qui e, quindi, dal “ragazza sola” sarebbe nato il nome del paese: Ragazzola.

Ma le narrazioni popolari sembrano non concordare troppo tra loro. Un’altra leggenda, infatti, dice che nella vecchia chiesa vi fosse in corso un matrimonio clandestino, o comunque contrastato dai familiari degli sposi, e che in quel momento fu la piena dirompente e improvvisa del Po a spazzare via tutto, originando comunque, poi, il nome del paese.

Infine, altra leggenda, vuole invece che una devastante inondazione del Po abbia spazzato via tutto il paese, uccidendo i suoi abitanti. Secondo questa leggenda rimase in vita soltanto una ragazza. Da qui si converge, ancora una volta, sul nome Ragazzola. Narrazioni, dunque, che non concordano tra loro, ma che hanno anche alcuni elementi in comune: su tutti il fatto che, all’origine della vicenda vi sia stata una piena del Po; la presenza di una chiesa e, comunque, di un fatto talmente importante da aver creato l’elemento di base per dare il nome al paese.

Cosa c’è di vero e cosa di falso? Domanda a cui, come sempre, è difficile dare una risposta. Dicerie popolari e pezzi di storia, ancora una volta, si mescolano. Un mix affascinante, misterioso, che rende ancora più interessante la storia e l’importanza del “budri”. Una leggenda che, tra l’altro, si lega ad un’altra simile del Parmense, vale a dire quella del Lago di Varsi dove, secondo le narrazioni popolari, sarebbe addirittura sprofondato un convento.

Della chiesa che sorgeva nei pressi dell’area in cui oggi si trova il “budri” (quest’ultimo ancora non si era formato), in passato venne alla luce anche l’ossario durante scavi occasionali. 

Di piene del fiume, va ricordato se mai ce ne fosse bisogno, ce ne sono state tante e sono andate a modificare ampiamente anche il territorio di Ragazzola così come quelli circostanti. Tra le esondazioni passate alla storia spiccano quella del 1741 (in occasione della quale, per mettere in guardia le popolazioni, le campane suonarono a martello per tre giorni); quella del 1474, che durò qualcosa come cinquanta giorni, e quella del 1680. In occasione di quest’ultimo evento calamitoso il Po corrose circa duecento biolche parmigiane di terreno e, sette anni dopo, altre trecento. Addirittura il fiume in quegli anni, a causa delle grandi piene, deviò il proprio corso giungendo in prossimità della vecchia chiesa (forse quella dove oggi sorge il “budri”?) e dell’osteria. Altra piena devastante fu quella del 1801.

La nuova chiesa fu realizzata (con i lavori che iniziarono nel 1680 e l’inaugurazione che si tenne il 13 dicembre 1683, con benedizione impartita dall’allora parroco di Zibello don Bernardino Gardini) a circa un chilometro di distanza e la vecchia, storia alla mano, fu lasciata andare in rovina (rimasero solo, sempre storia alla mano, il sagrato con poca terra e una maestà dove si trovava la Madonna del Rosario). E’ di fatto da considerare certo che le leggende del “budri” di Ragazzola affondino le proprie radici ad una di queste inondazioni, in particolare a quelle del 1680 e del 1687. Un mix di storia, leggende e misteri che, anche in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo rendono le terre di fiume ricche di fascino.

Nelle foto vecchie immagini della fiera di San Pietro e la pala di Solarolo Monasterolo

Eremita del Po

 

Paolo Panni


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