Il diario del giovane Franco Tantardini nell'Archivio diaristico nazionale: gli occhi sul mondo del seminarista destinato a diventare cerimoniere di sei vescovi
Il diario del giovane seminarista Franco Tantardini (leggi qui), che diventerà, dal 1940 al 1997, cerimoniere di sei vescovi di Cremona, è entrato nella lista d’onore del Premio Pieve-Saverio Tutino, 39esima edizione, dell’Archivio diaristico nazionale Pieve Santo Stefano. L’Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano è un archivio pubblico che raccoglie documenti cartacei italiani in forma diaristica, epistolare e memorialista autobiografica. L’archivio è stato fondato nel 1984 nella biblioteca comunale di Pieve Santo Stefano su iniziativa di Saverio Tutino. Contemporaneamente, per incentivare l'afflusso di testi si è organizzato il Premio Pieve di Santo Stefano per diari, memorie, epistolari inediti, divenuto successivamente Premio Pieve - Saverio Tutino. Da quel momento la città ospita un archivio pubblico che raccoglie oggi oltre 8000 scritti autobiografici di gente comune in cui si riflettono, in varie forme, la vita di tutti e la storia d'Italia: sono diari, epistolari, memorie dell'esistenza personale. Le motivazioni della scelta sono spiegate di seguito da Stefano Leandro, della commissione cultura del Premio, che offre un ritratto fresco ed originale del giovane seminarista cremonese (allora aveva solo 16 anni).
Descrizione del diario
“Esplicitamente pensoso, come nella fotografia da solo della prima comunione…. o lieto come nella prima fotografia, ma di una ilarità che, se mi fosse stato fatto un brutto scherzo, sarei divenuto serio, pensoso... C’è quindi innata coscienza una consapevolezza ma anche una gravità abituali proprie di altre età che si vede mancare… anche a fotografie di adulti stessi.”
Questo è l’incipit del diario del sedicenne Franco Tantardini scritto durante le vacanze estive dell’anno 1934. Già in questo primo quaderno al di là di una giovanile presunzione, ci appare non solo un giovane pienamente consapevole della propria personalità, che pare già affermata per intero. Ma anche uno scrittore che padroneggia perfettamente la lingua per l’accuratezza dei termini scelti e per la complessa articolazione del discorso e, ciò che è più sorprendente, per la scelta di un costrutto e di figure retoriche che si propongono di interessare il lettore. Quasi che il diario sia sottoposto all’attenzione non tanto di un altro non prevedibile, ma di un se stesso sommamente esigente. Anche per questo linguaggio che si ripete per tutto il primo quaderno e, rafforzato e perfezionato, nel secondo redatto durante gli anni di seminario, dal 1938 al 1940, il diario rappresenta, per chi lo ha letto e presentato al Premio, un unicum, che mantiene sia nella forma che nei contenuti piena validità soprattutto per i nostri tempi. Tempi dove l’amore per la lingua è ormai inesistente.
Franco passa queste vacanze a visitare chiese di Cremona e dei dintorni. Ne descrive con accuratezza estrema gli ambienti e pregi o difetti artistici e architettonici, giudica con severità e acribia gli arredi sacri e perfino i mobili delle sagrestie. A un giudizio affrettato potrebbe sembrare una strana mania. In realtà è una manifestazione precoce della sua vocazione di cerimoniere. Attraverso giudizi positivi e negativi, sapienti rilievi Franco sembra costruire pazientemente una grande chiesa, probabilmente nel trionfante stile barocco, quale ambientazione ideale per le complesse e potenti cerimonie di una chiesa post-tridentina e preconciliare, in concorrenza forse con le parate e i fasti di un regime con cui ha comunque un rapporto storicamente competitivo.
Visita ai palazzi. Passando davanti al palazzo Trecchi in via Guido Grandi, mi son fatto una leggera violenza, e sono entrato. Sotto il colonnato, a destra, naturalmente non vedevo che stanze di uffici, appesi in una un cappello e un indumento bianchi di signorina, un lontano ticchettio di dattilografia, ma nessuna anima viva. Erano gli uffici del procuratore (non c’era “marchese”) Mina Bolzesi, dell’avvocato Boschi e un altro. Allora mi son rivolto all’uscio di fronte, che aveva più l’aspetto di introdurre in una portineria…. Suonato o, meglio, premuto per due volte il bottone d’un campanello che o era rotto o metteva in comunicazione quel luogo con l’Australia, ho sospinto l’uscio, pensando che fosse il meglio. In fondo a una portineria che mi è parsa sconclusionata, seduta a un tavolo quasi sotto l’alta finestra della strada, la portinaia stava lavorando di biancheria, come quella del Museo, e anche l’età non dev’esser men equivalente. Quando sono finalmente giunto in fondo a quell’ambiente, ero aspettato rispettosamente in piedi (dopo, uscito, mi son rimproverato d’esser stato così poco cortese da non dire che non si scomodasse per un tal seccatore).
Dopo aver indicato alcune modifiche per l’oratorio del seminario, aggiunge (difficoltà non ne mancherebbero), e poi… son le sei, prendo in mano il vangelo di S. Luca e leggo. “Cum autem turba plurima convenirent…” una folla di chi? di fanciulli che accorrono al mio oratorio così riformato e organizzato? Oh, no! di videntes non videntes, et audientes non intelligentes, nisi in parabolis”.
Non manca però una costante riflessione su se stesso, sui suoi sentimenti, sugli inevitabili conflitti adolescenziali. Si irrita se la mamma lo controlla troppo come ogni ragazzo che tiene alla propria autonomia di cui si crede senz’altro all’altezza. Si definisce un “cespuglio”. Per descrivere se stesso a 16 anni sceglie uno dei più commoventi passi del Manzoni, la monaca di Monza. E cita da I Promessi Sposi “s’inoltrava in quell’età cosi critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna e rinvigorisce tutte le inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma o le rivolge a un corso impreveduto”. E commenta con impeto giovanile: “Non è l’amore? Il periodo seguente par che confermi: L’amore è quella cosa che nasce nel cuore a 15 anni – e io ne ho sedici.”
A sedici anni le letture si susseguono: il Manzoni campeggia ampiamente assieme a testi sacri e a classici latini citati con larghezza e rara padronanza sia che si tratti di Cicerone che dei vangeli o della Bibbia. Legge l’introduzione a Jonathan Swift e ne critica aspramente il costume libertino del protagonista. Si comprende, dal compendio delle sue letture, come il suo sorprendente italiano, sorprendente soprattutto a noi abituati a ben altro, si produce per naturale osmosi dalle sue molteplici e varie frequentazioni letterarie e dalle attente riflessioni su di esse, piuttosto che da corsi di scrittura. È una lingua che non è solo forma, come potrebbe rilevare superficialmente qualcuno, ma è “Raggionamento”, come citava Pirandello, e efficace costrutto d’animo.
L’amore per il Leopardi lo porta, nel secondo diario, a concepire un passo dedicato a un topos del poeta recanatese, la luna, di cui è impossibile non citare almeno l’incipit. Non potendo, per ragioni di spazio, riportare l’intero brano: “Nove e mezzo di sera, sulla porta maggiore della cappella: notte quieta di piccola luna crescente e un bel cielo stellato quantunque un poco pallido. A eguale distanza i ciuffi neri delle due magnolie, che davan fastidio a don primo Mazzolari. Mi ha colpito subito la bella scena; poi mi sono messo con fretta irrequieta a interrogare i sentimenti suscitati nell’animo, che, con un po’ di pazienza, son venuti pigramente sgomitolandosi”. E più avanti, nello stesso brano, cita il Leopardi stesso “e più di lor non si ragiona “; parla dell’età dei sogni, gli studi classici, i manti turchini, …. e l’Ellade, il Kalòs kai Agatòs dei greci (nei romantici “il bello e il buono, il giusto e il vero”); e, nel punto più alto, il SUBLIME.
Riflette su se stesso sempre; quasi una pratica continua di un esame di coscienza che, con sincerità e quasi insolita spregiudicatezza intellettuale, lo porta a ragionare sugli impulsi vitali di quell’Eros giovanile di cui anche lui non è esente. Non lo nega, lo individua come quasi un dono divino, protagonista di una natura da Lui generata, in quanto forza creatrice. Non lo nega, non forza, in un modo innaturale, se stesso e la sua giovinezza. Non vuole diventare (testuale) fisiologicamente un eunuco. Ma come un cenobita benedettino, spremere dalla preghiera e anche dall’austerità ecclesiastica tutte le soddisfazioni lecite. Da una parte gli eunuchi, dall’altra i libertini, in mezzo i sacerdoti santi. L’ Eros non più visto come Tanatos satanico ma forza da educare e indirizzare.
Se ragionassimo attraverso stanchi stereotipi saremmo tentati di concludere dipingendo il giovane Tantardini come uno dei tanti uomini di chiesa, misticamente astratti dalle cose del mondo. Ne saremmo giustificati dalla disciplina con cui segue le diverse fasi della liturgia, con cui testa la sua anima, la capacità della stessa di staccarsi dal proprio stato d’animo e di aderire al senso dei salmi, dal continuo proporsi obbiettivi sempre più alti e impegnativi nel suo percorso spirituale. O, infine, dai modelli dei santi cui si ispira; massimamente Federigo Borromeo (“Mio ideale, come ecclesiastico, rimane ancora la figura dolce e austera di Federigo, zelante, prudente, chiaroveggente, largo, studioso”). (ancora il Manzoni! nipote di Carlo, monumentale protagonista dei Promessi Sposi, ascetico, ieratico, che con la sua forza e la sua umiltà, compie il miracolo della conversione).
Ma egli dimostra di vivere nel suo mondo che non è un mondo facile con i rapporti fra il regime e la chiesa che diventano, anche alla luce delle persecuzioni ebraiche, sempre più distanti, conflittuali. Segue una conferenza tenuta alla facoltà di teologia sul razzismo: politica sporca e non scienza. Mein Kampf, basato sul sangue. È sempre stato attentissimo. Forse ha letto anche l’enciclica “Mit brennender Sorge” promulgata da Pio XI, contro il nazismo e la sua politica razzista. Quando poi visita in ospedale un suo amico, fervente avanguardista, lo definisce “fiore del Regime” e poi prosegue “meglio essere un fiore dell’Azione cattolica”. Non si può certo dire, senza fargli violenza, che sia un “antifascista” soprattutto nel senso “politico”. Ma piuttosto un profetico prete che vede come la Chiesa millenaria oscurerà presto un Fascismo transeunte.
Concludiamo qui anche se nelle intense pagine del diario abbondano passi degni di essere non solo messi in evidenza ma anche approfonditi, meravigliandoci di una vita insolita e a noi lontana. E concludiamo traendo da questa lettura due esempi per i nostri giorni tumultuosi e incerti anch’essi. L’esempio di un uomo proiettato oltre le angustie del secolo in cui vive, prezioso per noi che trascorriamo i nostri giorni appiattiti in un livido presente senza prospettiva e profondità. E lo scorrere di una lingua di cui abbiamo forse perso le tracce; efficace, indispensabile strumento, non solo per comunicare, il che non è poco, ma per immergersi in se stessi e continuamente mutare e crescere in un processo di continua rigenerazione.
Stefano Leandro, Commissione di lettura Premio Pieve Saverio Tutino
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commenti
michele de crecchio
10 novembre 2023 20:04
Grande e delizioso personaggio, l'amabile monsignor Franco Tantardini. La fotografia sopra riprodotta lo coglie in un ambiente che gli era congeniale: una delle sagrestie della cattedrale. Qui ricordo di averlo incontrato una mattina quando, come era allora mia abitudine, andavo a chiedergli le chiavi della porticina attraverso la quale riuscivo, una volta all'anno a far salire una classe dei miei allievi, apprendisti geometri, a visitare i matronei della cattedrale, allora da chissà da quanti lustri, visitati solo da famiglie di piccioni. Ricordo quella mattina nella quale lo trovai impegnato ad aiutare un sacrestano nel delicato lavoro di sminuzzare blocchi di resina d'incenso, operazione, mi spiegò, indispensabile per facilitarne l'uso nel corso delle cerimonie. Il suo volto apparentemente severo, la tonaca nera, le bacche d'incenso e gli stupendi armadi barocchi che coprivano le pareti del locale realizzavano una scena di estrema suggestione.