La casotta di Burtul a Po e la consegna in triciclo del vino di Ghirèen "lavorato" in via Bissolati
Dove il bosco cedeva alla sabbia, Burtul, trattore da spiaggia, aveva piantato la sua baracca per bibite e merende. Oltre era l'arenile dove il sole, implacabile, picchiava “sulle cose e sulle teste degli uomini” arrossandone dorso e busto. A quanti, accaldati, cercavano refrigerio, Burtul offriva la frescura dell'ombra del pioppeto e la comodità di rustiche panche dove la seduta era un asse di legno, residuato da chissà quanti altri usi, sorretto da quattro paletti di pioppo piantati nel terreno. Di tale fattura erano anche i tavoli dove, agli accaldati, Burtul serviva vini rossi o bianchi, ed ai ragazzi bibite e granite di ghiaccio tritato, ottenuto dalla manuale raspatura di tutta l'ampia superficie di un parallelepipede ghiacciato steso sul bancone, una specie di liscio iceberg industriale, la famosa “stèca de giàs” dei tempi andati. Per evitarne il precoce scioglimento la teneva rigorosamente coperta con tele di juta (de s'ciavéen si diceva). Per tale sminuzzatura Burtul si serviva di un aggeggio di ferro simile alla pialla del falegname, con serbatoio nel quale si depositavano i trucioli gelati, messi nel bicchiere, venivano colorati di verde, giallino, o bruno con parsimoniosi schizzi di sciroppi dai gusti menta, limone o tamarindo, a seconda i desiderati dei clienti.
Non era ancora il tempo dei frigoriferi diffusi e caserecci, Burtul, come facevano in tanti, si riforniva del necessario alla fabbrica del ghiaccio delle vie Massarotti - Amidani dove il muro di cinta era costituito da un residuo relitto delle cittadine mura medievali. Un grande mastello ricavato dalla metà di una botte, abbondantemente rifornito di ghiaccio diversamente spezzettato, accuratamente coperto con un coperchio di legno e da più strati de s'ciavéen, accoglieva, per rinfrescarle, bottigliette di birra e di bevanda gazosa; ancora le lattine per bevande non erano state inventate.
Io, a Burtul, portavo il vino, certamente non era di “Vernazza e di Corniglia”, ma quello che Ghirèen abbondantemente annacquava, miscelava e gassava in un antro profondo nascosto e buio in fondo al cortile, sotto la loggia della casa di via Bissolati n.45, dove, ragazzo, aveva abitato anche Federico. Ghirèen, oltre a quel commercio, gestiva “el caffetèen” d'angolo da anni scomparso, di fronte al portone della caserma.
Il precedente proprietario di quel piccolo bar ed osteria, chiacchierato nella strada per la compromissione con il passato regime fascista, se ne andava, non so dove, con tutta la famiglia e, Nelda, la ragazzina bionda, non sarebbe più venuta in compagnia con noi ragazzi della contrada.
Aveva un che di timido o di riservato pareva non riuscire a condividere la comunanza chiassosa. Forse risentiva di quel che si diceva. A me piaceva e avrei voluto avvicinarla e parlarle con confidenza ma mi era difficile, lo sarà anche in futuro vincere la naturale ritrosia, rafforzata da mille esortazioni familiari su quello che si poteva e quello che non si poteva con il risultato di non fare ciò che avrebbe dovuto essere fatto. Fu lei una sera ad avvicinarmi, mi regalò una clip applicata ad una riprodotta foglia d'edera, forse voleva essere un piccolo ricordo per non essere dimenticata dopo il suo trasloco che si faceva prossimo, o il tentativo per instaurare un rapporto più confidenziale. Io non seppi cogliere le ragioni e il senso nascosto in quel gesto.
Quando per il suo lavoro d'alchimia e d'imbroglio Ghirèen aveva bisogno di aiuto mi chiamava. Lo faceva spesso. Io andavo volentieri, con quel che mi elargiva in cambio del mio lavoro davo un piccolo contributo in casa, cosa che mi riempiva di orgoglio e mi guadagnavo una paghetta. Fu così che entrai in quella cantina. Prima di aprire la parta Ghirèen mi ripeteva sempre una sua raccomandazione: non “dire mai a nessuno quel che io faccio qui dentro” mi diceva guardandomi negli occhi, facendomi, di riflesso, complice del suo broglio. Solo oggi, che stanno passando tre quarti d'evo da quei giorni, rompo la quasi secolare consegna.
Per prima cosa , Ghirèen, da un grande tino spillava una certa quantità di vino riversandolo in una tinozza di legno. Dalla manovra della pompa manuale nel cortile ricavava tre secchie d'acqua che aggiungeva subito al vino precedentemente cavato dal tino. Con un aggeggio che pareva un remo da canoa mescolava e rimescolava quella mistura, poi era il rito dell'assaggio. Sciacquava e risciacquava, in quella mescolanza, una caraffa di vetro, come voler togliere odore e seccati residui di una precedente libagione depositati sul fondo ed avvinarla. Infine attingeva una piccolissima quantità di quel liquido, lo portava alla bocca senza trangugiarlo, tenendolo lì. Certamente lo faceva ballare spostandolo da una parte o dall'altra delle fauci. Lo capivo dall'alternato rigonfiamento-sgonfiamento delle gote. Ma quel che più mi colpiva durante questa operazione era il suo atteggiamento quasi mistico, da implorante penitente, che era anche d'attenzione estrema quale i deboli di vista o d'udito assumono nel tentativo di captare cose e suoni che a loro sfuggono. Con quelle fluttuazioni Ghirèn cercava di cogliere le diverse flagranze che l'agitare, in bocca, di quel miscuglio, si sarebbero liberate. Molto spesso questa operazione si concludeva con l'aggiunta di un altro secchio d'acqua e con una finale ripetuta analisi sensoriale della broda ottenuta. Con un insieme di canne e cannucce che permettevano di travasare un liquido da un livello ad un livello più basso passando per un livello più alto, Ghiren riempiva i bottiglioni vuoti che io gli passavo riportando, di volta in volta, quelli riempiti. Quando questi erano in numero sufficiente passava alla gasàtura ed alla successiva messa dei tappi. In piedi, difronte a quella macchina, riceva il bottiglione pieno che io gli passavo, per evitare danni alla sua persona nel male augurato caso il bottiglione scoppiasse, cosa che una volta successe, lo infilava in una specie di tubo protettivo dal quale sporgeva solo per un una parte del collo. All'imboccatura del recipiente applicava un boccaglio che teneva calcato con una mano, con l'altra manovrava il rubinetto di una bombola fornita di aggeggi rotondi che sembravano orologi, poi era la manuale tappatura dei contenitori. Continuava il passaggio, da una parte all'altra, dei bottiglioni. Messi in cassette, caricate su di un triciclo ne portavo una parte al “caffèteen”. Ricaricato il furgoncino, tutto era pronto per la consegna da effettuarsi il giorno seguente, il destinatario del carico sarebbe stato Burtul. Così, spingendo sui pedali, quella mattina percorsi il tratto acciottolato di via Bissolati, il viale che porta al Po ed il ponte che unisce le due province, scarsi di traffico, quasi assente quello automobilistico.
Al di la di quel collegamento presi per l'argine maestro, il piano di calpestio portava le tracce di un sentiero centrale con ai lati ciuffi di erbe cresciuti disordinati e spontanei, fra terra incisa da solchi, precedentemente ammollata dalla pioggia e dal tornato sole duramente solidificata. Il percorso non agevole mi indusse a scendere di sella e spingere il furgoncino con le mani. Anche così non era facile. Il piano di calpestio del tratturo, che discendendo dall'argine immetteva al pioppeto e portava alla più lontana casotta di Burtul, aveva le stesse asperità del piano dell'argine, accresciute, per quanto riguardava la manovrabilità del mezzo, dall'essere in discesa. Il furgoncino, fra tanti sobbalzi, scossoni, trabalzi tendeva ad andare per conto suo, io stentavo a trattenerlo così risalii in sella. Quella posizione mi permetteva di premere, con un piede, il pedale del freno, limitando, per quanto possibile, la velocità del trabiccolo che il declivio del sentiero gli imprimeva. Ma anche con quel supporto la manovrabilità continuava ad essere problematica, non trattenni né riuscii a correggere la virata provocata da quello sballottamento ed il furgoncino finì con una ruota nel fossetto laterale e l'altra in carreggiata. Non fui capace di riportarlo in sede sulla carrareccia, l'abbandonai e andai da Burtul a chiedere aiuto. Non so se lui o qualcuno mandato da lui venne ad aiutarmi. Insieme riuscimmo a riportare il triciclo in sede carraia. Non cerano rotture, non c'erano vetri sparsi, i bottiglioni erano tutti integri, ma lo stare al sole, complice probabile la gasatura di Ghirèen, alcuni sugheri erano saltati e altri ancora saltavano e il vino, spumeggiante, traboccava schiumoso ed effervescente riversandosi sul piano del trabiccolo e da questo sulla terra argillosa, dura e riarsa, che stentava ad assorbirlo, formando piccole pozze rossastre. Non c'era niente da fare se non cercare un po di frescura riportando il carico all'ombra e fu la cosa che facemmo. Poi, spingendo quel macinino, raggiungemmo la casotta di Burtul.
Poco dopo questo viaggio finì la mia collaborazione con Ghirèen, compiuti i quattordici anni un conoscente mi procurò un lavoro d'officina all'auto rettifica Fioretti di via Mantova all'angolo con via dei Fornaciai. Qui conobbi la Rosetta che ancora vedo, apprendista sartina alla sartoria Spotti, con sede nello stesso stabile. Andavo volentieri a quel lavoro che per ragioni non mie durò poco, venni sostituito da due ragazzi, così mi venne detto, mandati dalla Scuola Industriale Ala Ponzone Cimino frequentanti un corso di addestramento che prevedeva anche una esperienza diretta di lavoro. Da questo cambio Fioretti, sicuramente non noto per prodigalità, ne ricavò un utile pecuniario. E' certo che a questi non corrispose una paga, niente affatto prevista per quel tipo d'impegno, ma forse una misera paghetta. Né tanto meno effettuò il pagamento dei contributi pensionistici-previdenziali assicurativi che erano, per i ragazzi in quelle situazione, come per i frequentanti i “cantieri scuola” o arruolati dal servizio militare obbligatorio, figurativi. Così, fra Natale e capo d'anno, mi ritrovai disoccupato.
Le foto sono di Ezio Quiresi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
claudio
6 agosto 2023 16:20
...sempre affascinanti e ricchi di "umana storia" i racconti di Elio Serventi!!!!!!!!!!!!