Le bombe, la paura, le preghiere alla Madonna. Straordinaria testimonianza di quel 10 luglio '44 vissuto nell'Orfanotrofio di via Geromini
Ennio Serventi, ci ha fatto avere questa mattina, un suo ricordo delle bombe su Cremona nel 1944. Una testimonianza toccante, con la paura di quei momenti e la grande solidarietà che si viveva in orfanotrofio. Le camerate tremarono per l'esplosione, la corsa al rifugio nell'istituto. Ecco la sua testimonianza.
Anche quella mattina la voce dell’educatore riempì la camerata. Ampie finestre sui lati lunghi del rettangolo, due file contrapposte di letti, un libero ampio corridoio di passaggio al centro. L’imperioso invito convinse tutti, pigri o dinamici, ad abbandonare velocemente i bei letti dipinti con un brillante smalto azzurro dove, sulla pediera, stendavamo l’asciugamani perché asciugasse.
E’ l’ultimo ricordo che ho di quei letti, che non ho più trovati quando, per la ripresa della scuola, rientrai in collegio a fine settembre. In un giorno di quei mesi i fascisti li “requisirono”, come allora venivano chiamate quelle spoliazioni, e li portarono chissà dove. Smontati nelle loro parti li calarono dalle finestre i materassi buttati giù sulla terra del cortile ed il tutto caricato sugli autocarri che aspettavano lungo la via Felice Geromini. Il portone era troppo stretto perché riuscissero ad entrare. Ma questo avvenne in seguito.
La notte era passata tranquilla, la sirena dell’allarme aereo non aveva suonato. C’era fra noi chi sosteneva che questa tranquillità notturna fosse dovuta alla speciale preghiera serale. Il nostro era ancora un istituto completamente laico, qualcosa cambiò in seguito, le preghiere ognuno era libero di dirle o di non dirle. Circolava in città una preghiera, frutto di devozione popolare,che si diceva fosse particolarmente efficace nello scongiurare le incursioni aeree. SI rivolgeva alla madre di Gesù e diceva:”Ave Maria di grazia piena / fa che non suoni la sirena / fa che non vengano gli aeroplani /fammi dormire fino a domani.” Ricordo che a scuola, fra i ragazzi, si era discusso se quella invocazione poteva essere sostitutiva delle tradizionali preghiere o se doveva solamente integrarle. Fra i sostenitori di questa seconda ipotesi non c’era unanimità di pareri. Prevalevano i sostenitori che quella invocazione andasse recitata alla fine delle tradizionali preghiere della sera, solo modo per mantenerne integra l’efficacia evitando che venisse parzialmente obliterata dalla sovrapposizione delle altre implorazioni. Non so dire se i quesiti trovarono soluzione. Comunque sia la notte passò tranquilla e quella mattina di luglio preannunciava una giornata da passare nella normalità quotidiana fra le piccole incombenze personali scandite dagli orari predisposti ed i piccoli giochi nel cortile.
Improvvisamente la sirena dell’allarme aereo suonò, di mala voglia e potentemente sollecitati dalla voce dell’istitutore ci avviammo all’imboccatura del “rifugio”. Fino a qualche mese prima non era solo che lo scantinato di quel corpo di fabbrica che delimitava, da quel lato, il cortile e che si affacciava sulla via Felice Geromini. All’angolo estremo, in due povere stanze, il vecchio Franceschini o Franceschino (noi lo chiamavamo Franceschin) seduto al deschetto si dava da fare con lesina e martello ad aggiustare i nostri zoccoli e stivali. Più su l’appartamento della Perotti, guardarobiera dell’istituto, e ancora più in alto quello della signora Camperini, la capo guardarobiera. Ci abitava anche un tale che godeva fra noi di vasta considerazione perché aggiustava gli apparecchi radio, a quei tempi aggeggi ancora abbastanza misteriosi. Dove sembrava che due diverse costruzioni si innestassero fra loro, una un tantino più sporgente tanto da formare un piccolo angolo protetto, cera la porticina d’ingresso al rifugio. Lì a ridosso di quella sporgenza e sulla soglia della porta abitualmente i ragazzi più grandicelli si attardavano. Davano un’ultima occhiata alla porzione di cielo che l’alta costruzione dirimpettaia permetteva di scrutare, speranzosi di vedere comparire gli aerei. La scala era ripida e stretta la si scendeva fra gli spintoni di chi, sempre ed in ogni occasione, voleva arrivare prima e fra le grida di protesta degli altri. Nel rifugio le panche erano sistemate lungo il muro perimetrale, ritenuto il punto più sicuro. Le due caditoie, una verso il cortile e l’altra verso la strada, trasformate in uscite di sicurezza. Una porta di legno ci divideva dal rifugio femminile. Anche in quel frangente i generi rimanevano rigidamente separati. Non ho mai saputo come facessero le ragazze ad arrivare in quella cantina.
Udimmo i primi scoppi e il furibondo scalpiccio di quelli che, abbandonato il loro punto di avvistamento in superficie, scendevano precipitosi la scala. Nei minuti di silenzio che seguirono, gli ultimi arrivati raccontarono non solo di avere visto gli aerei incrociare sulla verticale con la terrazza che divideva i cortili ma anche le bombe cadere. File verticali di bombe, ogni aereo una fila di bombe, ogni fila decine di bombe. Anche al di là della porta di legno c’era già chi piangeva. Più che con le parole ci si interrogava con gli sguardi, qualcuno parlò di probabile bombardamento alla stazione. Per Cremona sarebbe stato il primo, portatore di morte a 119 persone.
Ripresero i boati e tutto venne investito da tremore, squassato e scosso da sussulti . Fra un rimbombo e l’altro si risentivano le voci di angoscia dei ragazzi e quella , sovrastante, un tantino dolce e rassicurante, dell’educatore: “Tranquilli ragazzi” diceva “non siamo noi che cercano, l’obbiettivo è un altro” . Ma la paura continuava ad essere tanta e gli sguardi sempre più interroganti. Chissà come si era consolidata l’idea che l’obbiettivo da distruggere fosse proprio la stazione ferroviaria ed il nodo di binari che da questa partivano. L’effetto fu di aumentare l’apprensione di chi da quelle parti aveva casa.
Renato e Giorgio Scazzoli abitavano in piazza di Porta Milano nella casa d’angolo con via Bergamo che per anni ospitò anche l’albergo S.Marco, Giorgio, il più giovane, sganciò il fermo della grata che chiudeva la caditoia, quella verso la strada. Nessuno lo trattenne, riuscì a scappare dal collegio. Andò a vedere se esisteva ancora la sua casa e non tornò all’istituto. Molti furono gli edifici crollati, si salvò la palazzina della stazione ma non diversi degli androni del cimitero. Giorgio rientrò dopo la riapertura del collegio, alla fine dell’estate. Per noi la conseguenza del bombardamento fu lieve.
La mattina non era ancora trascorsa che già arrivavano i parenti. Molti di noi quella notte dormirono nella propria casa, nel giro di pochi giorni il collegio venne svuotato, chiuso. La possibilità che un evento simile potesse ripetersi, magari inasprirsi, portò gli amministratori dell’E.C.A. a decidere per una chiusura temporanea. Tutti a casa, dunque ! Tutti a casa meno quattro, per ragioni diverse non avevano nessuno che li accogliesse.
”Ci penso io”, disse il signor Rocca al tempo giovane provvisorio istitutore (oggi apparterrebbe ad una delle infinite categorie del precariato). “Li porto con me da mia madre, siamo già in tanti e non peserà la loro presenza. Mia madre sarà contenta”. Non so con quale mezzo i ragazzi raggiunsero quella, al tempo sperduta, frazione di Pessina Cremonese, rivierasca dell’Oglio. So però che di quel soggiorno conservarono sempre un buon ricordo. Io alcuni di quei mesi li passai a casa della antica balia dei suoi nove figli, alla cascina Terra Amata. Scoprii il piacere dell’andar per campi, di fare spoglio il bagno nell’acqua del Naviglio Civico e in quella delle rogge più nascoste, tutti insieme che il genere non separava. Di quel periodo e di quelle persone conservo un ricordo ed un affetto profondo.
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commenti
Pietro Galbiati
11 luglio 2022 16:27
I ragazzi delle elementari di Gorla non furono così fortunati,