23 giugno 2025

Le noci di San Giovanni. Tradizioni, fantasie, gesti e ricette sull'insuperabile nocino fatto in casa

In casa mia ci sono due bastoni che godono di indiscussa sacralità, li aveva fatti entrambi mio padre Umberto. Oltre a quello in nocciolo usato nel ‘45 per tornare a casa a piedi dalla Germania ed inciso col coltello in più punti, ce n’è un altro usato per arpionare i rami dei noci. Un tubo di alluminio di nemmeno un metro e mezzo di lunghezza con un diametro giusto quanto quello di un tappo in sughero martellatogli dentro per ancorare stabilmente un gancio modellato con un robusto fil di ferro ripiegato tre volte. Tutta tecnologia avanzata, come si noterà.

Dopo alcuni anni di umiliante sgabuzzino, la scorsa settimana ho riportato “el bàc del nocìino” in rigogliosa attività. L’inizio dell’estate cremonese prevede infatti due rigorosi appuntamenti: San Péeder, per la fiera e i fuochi, e poco prima San Giuàn, per le noci utili alla preparazione del nocino, una genialata dei nostri avi. Nei suoi ultimi anni mio padre affidava a me il compito di litigare con i rami dei noci che orgogliosamente si ostinavano a far frutti fuori portata. Andavamo in campagna in auto e lui da sotto la pianta faceva lo stratega: “Làsa stàa chèl bròc lé… tìira zó chéesto… no, el va mìia beèen, le nùus j’è segnàade…”. Ma in tempi di grande spolvero partiva per gli argini da solo in bicicletta in impeccabile look padano: bastone puntato alla forcella del telaio, fissato cùl làastec alla canna e appoggiato su un lato del manubrio con tanto di rampìin in bella vista, spòorta per le noci sull’altro lato del manubrio, cappellino in spessa tela beige, per mio padre “da pescadùur”, per mia madre “da Pirlìin”, camicia a quadri in tela leggera ma a maniche lunghe, “ché le sensàale le pìa”.

La cortesia dell’amico Giancarlo e la rigogliosità del suo bel noce di cinquant’anni mi hanno permesso di riavviare tutta l’epica familiare della raccolta delle noci di San Giovanni. Certo, secondo note meno ruspanti, perché riempita la cassetta ci si è comodamente seduti a tavola nel fresco giardino per un aperitivo, nome in codice per cena sostitutiva, in compagnia di altri amici accorsi premurosamente a portare tutta la loro partecipazione morale alla prima fase dell’operazione “Nocino 2025”, e a segnalare già da ora la loro partecipazione materiale all’ultima sua fase, quella dello svuotamento delle bottiglie.

La dose comunemente accettata prevede una ventina di noci tagliate in quattro per litro di alcol, le cui bottiglie non sfigurerebbero anche se vendute in gioielleria, visto il costo; l’amico Claudio sostiene che comunque per una buona riuscita del nocino il numero di noci deve assolutamente essere dispari. E Salvatore Monguzzi, un vecchio mediatore di bestiame della zona di Rivolta d’Adda che conobbi agli inizi degli anni ’80, per garantirsi una buona raccolta piantava ogni anno nel tronco dei suoi noci un chiodo alle tre del pomeriggio del venerdì santo. La tradizione sostiene che le noci vadano raccolte dopo che su di esse si sia posata la rugiada della nòt de San Giuàn (tra il 23 e il 24 giugno), che in evidente ricalco dell’acqua battesimale di san Giovanni, era considerata di particolari poteri curativi dai nostri contadini, soprattutto contro la scabbia e i dolori artritici, tanto che al mattino si recavano nei campi per cospargersi braccia e gambe. Le noci bagnate da quella rugiada curativa avrebbero prodotto un liquore in grado di rimediare a tutti i guai dello stomaco. In realtà, più che la rugiada, occorre tener d’occhio l’andamento della stagione.  Le noci di quest’anno ad esempio hanno preso una botta di caldo africano che ha accelerato la loro maturazione, attendere il 24 sarebbe stato a mio parere eccessivo. Conviene infatti che all’interno, sotto il mallo, il frutto sia ben tenero, soprattutto se lo si vuole gustare al termine del periodo di infusione in alcol: è buonissimo. 

 Le ricette del nocino sono molteplici e le soluzioni variegate. C’è chi mette lo zucchero subito nei vasi e chi lo aggiunge al termine; chi aggiunge le scorze di limone e chi ne prova orrore; chi allunga con acqua e chi preferisce il vino, sia bianco che rosso; chi agita ogni giorno i vasi e chi li lascia a riposo; chi li tiene al sole e chi al buio. Anche il tempo di infusione delle noci in alcol varia, due, tre, sei mesi… Ma la signora Mary mi ha gentilmente passato una ricetta in uso a Noceto (Parma) che prevede di lasciare a riposo per un intero anno in cantina vasi contenenti solo le noci, l’alcol e i classici chiodi di garofano con la cannella; a fine periodo si aggiunge lo zucchero col lambrusco ridotto a sciroppo. E dopo il travaso in bottiglia, altri due mesi di affinamento e poi finalmente si assaggia; per quanto mi riguarda, ho già preparato un vaso secondo questa versione che da una settimana ha già cominciato la sua lunga maturazione in cantina. Mi attrae questo esercizio di pazienza in tempi di abolizione della lentezza; se non ricordo male fu in riferimento al romanzo dei Promessi Sposi che il poeta Mario Luzi scrisse che è proprio la pazienza la virtù lombarda per eccellenza. Virtù lombarda per un nocino emiliano, e perché no?

Ma poi ho preparato anche il nocino che ho visto fare per anni da mio padre, ed è già sul balcone a prendere il sole dei prossimi due mesi. In questi ultimi anni ho infatti vissuto di rendita, grazie alla scorta di bottiglie in cantina; ora però che stanno esaurendosi, mi sono deciso a riprendere la produzione secondo la ricetta di famiglia. Le noci, alla conclusione del loro periodo di infusione, oltre a essere mangiate, possono essere riutilizzate e rimesse in alcol e vermuth bianco per il “secondo nocino”; a questa base io aggiungo di nuovo chiodi di garofano e cannella che integro però con genziana, china, anice stellato, scorze secche di arancia e limone. E se a conclusione il richiamo del sapore del nocino risulta troppo leggero, basta aggiungere mezzo bicchiere di nocino propriamente detto e il gioco è fatto, ecco pronto quello che a me piace chiamare el büreghìin.

Per l’autunno invece ho già in cantiere l’operazione “Bargnolino 2025”. Non ho mai preparato questo liquore, ma mi metterò alla scuola dell’espertissimo amico Giuseppe che nel frattempo mi ha già passato la ricetta. Quando lo dirà, andremo insieme a cercare i bargnóoi, i frutti del pruno selvatico, così mi insegnerà a riconoscerli e a raccoglierli. Mai porre limiti alla conoscenza e alle sue benefiche consolazioni… “spirituali”.

 

Maurizio Cariani


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commenti


Giancarlo

23 giugno 2025 17:25

Grazie Maurizio che mantiene vive tradizioni e ricette antiche.
Il noce tra l'altro in autunno, quando i frutti cadono, offre ottimo cibo a gazze, corvi, tortore, merli ecc

Marco

23 giugno 2025 20:03

È un racconto commovente perché ricorda le tradizioni, sembra quasi una poesia......grazie .