Quel che resta dell'antico convento francescano di San Zeno a San Giovanni in Croce. C'era la chiesa di San Marco. E le pietre vennero usate per i portici di Villa Medici
Sono numerosi i luoghi, in tutta la pianura, sia nel Cremonese che nel Casalasco e nel Cremasco, che dopo i fasti di un tempo sono oggi in condizioni di evidente rovina. Molti di questi in stato di totale abbandono, altri meno; altri ancora che non esistono nemmeno più se non nelle macerie che ogni tanto riaffiorano quando si arano i campi ed altri che con l’andar del tempo stanno andando incontro ad un inesorabile declino. Ad elencarli tutti ci sarebbe da “perdersi” visto, purtroppo, il loro significativo numero. Ma ad uno ad uno sono da raccontare, mostrare e raccontare ancora se non altro per tenerne viva la storia, la memoria e, in qualche caso, anche la “gloria”.
Tra questi spicca l’antico convento di San Zeno, posto appena fuori dall’abitato di San Giovanni in Croce ad ormai due passi da San Lorenzo Aroldo di cui si è scritto nei giorni scorsi a proposito di Villa Zanetti e del suo degrado (leggi qui). Di fronte al remoto complesso monastico, ben visibile dalla provinciale 87, passano ogni giorno centinaia, forse migliaia di veicoli ma nessuno, o quasi, fa caso alla sua esistenza, tanto più che poggi è invaso da edera e sterpaglie che ne coprono, in larga parte, la struttura. Un luogo che, da tempo, è immerso nel silenzio, ma la cui storia è ricca di importanza.
Il nome stesso del convento, San Zeno, richiama chiaramente alla sua impronta veneziana, vista la lunga dominazione della Serenissima, in questi territori, per parecchi anni. Qui pregavano, cantavano, lavoravano e celebravano le loro funzioni i frati francescani che dipendevano dal convento di San Francesco di Casalmaggiore, dove la presenza di un convento di Minori francescani è documentata, documenti notarili alla mano, fin dal 1273, mentre i più antichi cenni ad una chiesa monastica si ritrovano nel 1340.
Nei secoli successivi il convento, grazie anche ad un cospicuo patrimonio, assunse una rilevante importanza nella vita cittadina di Casalmaggiore e, di fatto, San Zeno, “dipendeva” a tutti gli effetti dal convento poco distante della stessa Casalmaggiore. La festa principale era quella di San Marco (ed anche qui il riferimento alla Serenissima è chiaro ed evidente) che cade il 25 aprile mentre il fondatore del complesso conventuale fu un certo Bertani nel Cinquecento con la donazione di terra che erano di sua proprietà e confinavano con la chiesa (già esistente prima della realizzazione del monastero) che era particolarmente frequentata.
Di questa chiesa di fatto, almeno in loco, non resta traccia alcuna ma, in realtà la “memoria materiale” esiste ancora. Infatti le pietre furono utilizzate per realizzare i portici davanti alla villa Medici del Vascello di San Giovanni in Croce e quindi, anche se da secoli ormai hanno una funzione diversa, sono e restano memorie di quel sacro edificio andato perduto. La chiesa fu abbattuta nel Settecento per volere di Giuseppe II d Austria, figlio di Maria Teresa d’Austria, uno dei più importanti imperatori del Sacro Romano Impero. Di lui si conserva un ritratto (della seconda metà XVIII sec.) al Museo Diotti di Casalmaggiore ed è della scuola di Francesco A. Chiozzi (Casalmaggiore, 1730 -1785). In questo dipinto l’imperatore è ritratto all’interno dello studio, con uno scaffale di libri sullo sfondo e accanto ad un tavolo su cui si trovano gli strumenti dello scrivere: tale atteggiamento, ricorrente in molti ritratti di nobili e prelati, intendeva evidentemente alludere alla cultura come radice profonda del potere: alle sue spalle si riconoscono saggi di economia politica e una copia degli Statuti di Casalmaggiore che mette in luce la connessione locale del ritratto e fa sì che l’immagine assuma il significato politico di un implicito riconoscimento della tradizione di autonomia di cui la città aveva goduto dal Cinquecento. Doveroso ricordare anche che Casalmaggiore, di cui evidentemente la monarchia asburgica percepiva la posizione strategica, fu scelta per la cerimonia di consegna della sposa di Giuseppe II (Isabella di Borbone di Parma) che, provenendo da Colorno, sarebbe entrata in città dopo aver attraversato il Po su un ponte di barche. Di questo, sempre al Museo Diotti, si conserva una stampa settecentesca di Marc’Antonio Dal Re, artista a cui si devono numerose testimonianze grafiche di luoghi, personaggi ed eventi del Ducato di Milano, che raffigura appunto l’elegante ponte costruito per il passaggio del corteo di Maria Isabella di Borbone, figlia del duca di Parma, diretta a Vienna per andare in sposa a Giuseppe II, futuro imperatore d’Austria (1760). Di fronte a Casalmaggiore c’era un isolotto: qui il ponte si interrompeva e il percorso proseguiva su una passerella montata su palafitte, passando attraverso un arco provvisorio in legno. Al punto di arrivo della struttura sulla terraferma fu costruito invece un arco in muratura, l’unico arco settecentesco sopravvissuto alle demolizioni e ancora esistente nella zona del Lido Po, anche se oggi il rialzo dell’argine ne falsa la prospettiva originaria di primo accesso alla città dal fiume. La cerimonia creò una mobilitazione inconsueta: a Casalmaggiore giunsero più di 10mila persone provenienti dall’Austria e dal Ducato di Milano; molti degli ospiti erano personaggi illustri e, dopo lunghi preparativi, i festeggiamenti durarono tre giorni. Molti ricevimenti si tennero nei palazzi nobiliari, ma poiché le attrezzature pubbliche e private disponibili non erano considerate all’altezza delle esigenze, furono allestiti anche saloni temporanei e i mobili per l’alloggio della Principessa furono trasportati direttamente da Milano. I due si erano conosciuti meno di un mese prima, il 13 settembre, quando l’imperatore era andato a prendere la sua sposa al confine fra il Ducato di Parma e i territori governati da Vienna. Letteralmente al confine: perché nessuna delle delegazioni dei due fidanzati dovevano recarsi nella terra dell’altra, e per questo era stato appositamente costruito un ponte di barche sul Po con Giuseppe ed Isabella che si erano presi per mano a metà della sua lunghezza, sull’acqua del Grande fiume. Nel 1760, l’Austria si estendeva a tutta la Lombardia, fino al Po. Sull’altra riva c’era il Ducato di Parma. Fino al 1859, superare il fiume Po significava quindi varcare una frontiera. Per passare da una riva all’altra si doveva usare necessariamente la barca. Questo ponte “nuziale” fu il primo ad essere costruito sul Grande fiume fra Colorno e Casalmaggiore. Era galleggiante e poggiava su una lunga fila di barche ancorate. Con tutte le opportune manutenzioni, quel ponte resistette fino ai primi del Novecento quando fu sostituito con un nuovo ponte galleggiante, questo su chiatte non più in legno ma in materiali moderni, calcestruzzo e resina. I passaggi sul Po, come noto, fino alla metà del Novecento, avvenivano però per lo più su barche. Nel territorio del Ducato di Parma, a inizio Ottocento cerano 24 diversi punti di attraversamento, con barconi, ponti mobili o battelli e le rive del parmense, per portarsi nel cremonese, si potevano passare sulle barche alla foce dell’Ongina, a Polesine, a Zibello, a Ragazzola, a Stagno, a Torricella, in due diversi punti presso Sacca, a Mezzano Rondani, alle Ghiare de Lucchesi (oggi dette Bonvisi, dirimpetto a Cicognara) e a Bocca d’Enza. Per quanto riguarda l’abbattimento della chiesa posta accanto al convento di San Zeno (divenuto poi, per molti anni, corte agricola prima dell’attuale stato di evidente abbandono e decadimento), non si conoscono le cause esatte di questa decisione. E’ lecito supporre che nel Settecento il sacro edificio, più antico rispetto al convento, potesse avere problemi di carattere strutturale. Ma sono anche noti i rapporti, non proprio idilliaci, tra Giuseppe II e la Chiesa di Roma. Nel 1780 era morta l’imperatrice Maria Teresa ed il figlio, asceso al trono con il nome appunto di Giuseppe II, si preparava all’attuazione del più importante, forse, dei suoi piani “illuministici” in campo ecclesiastico: assorbire la Chiesa austriaca nello Stato. L’autorità di Roma sul clero, secondo l’imperatore, doveva essere limitata o, almeno, ridotta: al papa non dovevano rimanere che prerogative d’onore; non gli sarebbe stato più permesso di corrispondere con i sacerdoti, inviare legati, emanare atti di portata legale e vincolante, al di là di quelli propriamente dottrinali. I rapporti del clero con Roma dovevano avvenire esclusivamente tramite il Governo imperiale. Giuseppe II intervenne anche sul piano spirituale, sull’educazione e la preparazione dei seminaristi e del clero, nel regolamento della liturgia e del cerimoniale ad essa relativo, come pure sulle formulazioni dottrinarie, tanto che nel 1781, in Austria fu compilato ed adottato un “Catechismo di Stato” con forti venature giansenistiche ed in decisa contraddizione con quello di impronta gesuita in uso nel mondo cattolico, sebbene Clemente XIV avesse abolito la Compagnia nel 1773. A Vienna nel 1782 ci fu l’incontro tra papa Pio VI e l’imperatore col pontefice che fece la sua entrata trionfale nella capitale austriaca il 22 marzo 1782, con un’accoglienza popolare mai vista prima. Però il primo ministro austriaco Kaunitz gli fece subito capire che aria tirava a corte: durante il loro primo incontro, il principe austriaco non baciò la mano al papa, ma si limitò a stringerla, da pari a pari, da potenza a potenza. Un mese durò il soggiorno di Pio VI a Vienna e solo dopo trattative estenuanti si giunse ad un compromesso. L’imperatore fece al papa alcune concessioni più che altro di carattere formale e nulla di più; la più importante fu la dispensa per i vescovi dal giuramento nelle mani imperiali. Comunque si era evitata la rottura con la “diletta” Austria. Il papa tornò poi a Roma e, quando fece la relazione ai cardinali sull’esito del suo viaggio ci furono non pochi commenti negativi sul suo operato; anzi, gli si fece trovare un biglietto su cui era scritto: “Ciò che Gregorio VII, il più grande dei pontefici, aveva stabilito, Pio VI, l’ultimo dei preti, ha distrutto”. Pio VI scrisse sotto questa risposta: “Il Regno di Cristo non è di questo mondo, e Quei che distribuisce le corone celesti non si cura di quelle caduche della terra. Diamo a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. In effetti, la missione del pontefice a Vienna era stata oltremodo difficile. Di fronte ai governi ispirati dall’assolutismo illuminato non si potevano più sostenere diritti e privilegi, ritenuti medioevali. Per di più Pio VI non era proprio una tempra di ferro. Pertanto, quel viaggio, che al pontefice era stato ispirato essenzialmente dallo zelo religioso, fu interpretato invece da molti come un gesto politico.
Le mura di San Zeno, e le pietre della chiesa scomparsa, a modo loro “parlano” di tutto questo e di tanto altro, ma c’è da chiedersi per quanto lo faranno ancora visto che l’antico convento è in condizioni di rovina sempre più evidenti.
Eremita del Po
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