San Rocco e la devozione nelle terre del Po: la vicenda storica e religiosa del santo taumaturgo e gli aneddoti legati alla venerazione del santo che si festeggia il 16 agosto
Con la festa di San Rocco del 16 agosto ricorre una delle date dell’estate più attese, seguite e popolari per i cremonesi (e non solo).
A Cremona, come scrive anche Giovanna Gregori Maris nel suo “Campane a festa – Viaggio nella religiosità popolare cremonese” edito da Nuova Editrice Cremonese, il 16 agosto fu dichiarato festivo nel 1481 dai Decurioni della città che diedero ordine che la “Festa del santo fosse perpetuamente osservata e gli fossero offerte due Torze ogn’anno nella stessa festa a memoria indelebile né secoli futuri”. Soltanto due anni prima imperversava la peste. Pellegrino Merula, sacerdote e storico nato a Zibello nel 1550 circa visse sempre a Cremona (dove morì in seguito alla celebre peste manzoniana del 1630) dove pubblicò diversi saggi storici, su tutti “Il Santuario di Cremona” nel quale, oltre a ricordare Zibello nel quale ebbero sepoltura parecchi suoi congiunti, scriveva: “Sorgeva l’anno di nostra redenzione 1479 quasi in tutta l’Italia con inevitabile colpo di spaventosa morte una proterva, e troppo fiera pestilenza, che senz’alcun ordine depredava ogni stato, e ogni sesso, facendo le Città vedove d’habitatori, e li paesi vicini deserti, e inabitabili, il che è solo a vergar in carta si inorridisce la penna, s’indura l’inchiostro, tremano le dita, languisce la mano, s’inarcano le ciglia, s’impallidisce la fronte, palpita il cuore, s’inaridiscono le membra, e si confonde la memoria. Non puotè questa città anch’ela campare del ferale, e lagrimoso spettacolo; la onde veggendosi in stato tanto strano, e funesto, implorò il divino aiuto facendo voto pubblico, se fosse liberata da si mostruoso contagio per intercessione di San Rocco, di osservare la sua festa”. La gente infatti, se non era impegnata a morire o a seppellire cadaveri, accorreva come sempre appresso ai suoi santi.
Moltissime persone in quell’anno si rivolsero a San Rocco, in onore del quale sorgeva una piccola cappella fuori Porta Mosa. Terminato il contagio, il Governo della città fece voto di sostituire l’oratorio con una nuova chiesa dedicata al Santo e immediatamente si avviò l’opera, finanziata principalmente con le offerte e le elemosine dei fedeli. In quegli anni si era recato a Cremona, per predicare in cattedrale, fra' Arcangelo da Bologna dell’Ordine dei Servi di Maria. Il religioso chiese ai cremonesi che vicino alla chiesa di San Rocco venisse realizzato un piccolo convento per l’ordine monastico al quale apparteneva. L’adesione popolare fu tanto immediata quanto entusiasta ed il frate, allo scopo di garantire anche economicamente il futuro convento, ottenne dal vescovo il divieto di dedicare a San Rocco qualsiasi altra chiesa o cappella nella città di Cremona. Quando poi nel 1485 venne sancita la pace tra il Duca di Milano e la Serenissima Repubblica di Venezia, la comunità cremonese decise una nuova offerta di cera per San Rocco. Ma nonostante la solennità dei voti, e nonostante la chiesa fosse stata consacrata in breve tempo, dell’offerta della cera il 16 agosto non si vide nessuna traccia.
Il convento fui portato a termine soltanto nel 1488 e finalmente, il 9 luglio “con atto del notaio Vincenzo Ferrari, ‘sub lobia pallatij veteris’ del podestà di Cremona , presenti il magnifico Renato Trivulzio, luogotenente ducale; il conte Alberto Bruscolo, podestà, il canonico Battista Pellizzari ed il cavaliere aurato Leonardo Botti, il venerabile dottor Zanardi Bagarotti, amministratore dell’episcopato cremonese, consegnò a fare Benedetto da Piacenza, maestro di Sacra teologia, dell’ordine dei Servi di Maria, la chiesa di San Rocco e San Sebastiano, già da dieci anni costruita con le elemosine di tutto il popolo di Cremona. I frati, dovendo vivere grazie alla carità della gente, chiesero presto aiuto alle autorità cittadine e nel 1592, in prossimità del Natale, “per la qualità et penuria dè tempi si ritrovano in tanto bisogno et necessità per non haver beni con quali posiamo essere socorsi che non sano come poter vivere essendo il loro solito mantenersi di elemosine ma col tempo di oggi con difficoltà ritrovano chi li socora”. E’ pressoché certo che i frati ebbero l’aiuto desiderato ma sull’offerta della cera ci fu silenzio.
Nel gennaio del 1618, il priore del convento, padre Valeriano, ritrovò in un archivio le delibere del 1481 e del 1486: “..e non si trova – lamenta il priore – che mai siamo stati essequiti questi ordini; però si pregano le SS.VV. Illustri in star servite di ordinare, che questa oblatione, come si fa alle altre Chiese, si facci ancora nella nostra di San Rocco, che del tutto questi poveri frati resteranno per sempre obbligati a pregar nostro Signore per loro”. Finalmente il tutto si mise in moto e molte delle Università e dei Paratici che il giorno prima, festa dell’Assunta, si erano presentati in gran pompa a portare la propria offerta alla madonna del Popolo, si recarono fuori Porta Mosa, accompagnati da suonatori di viole, per offrire elemosine e cera all’altare di San Rocco.Cera e paramenti sacri – ma il Merula già nel 1627 lo racconta al passato – vennero offerti anche dall’Accademia delle Lettere. Per i Servi di Maria, certamente, un sospiro di sollievo che comunque non durò molto perché nel 1647, Francia, Savoia e Modena entrarono in guerra con Milano e Cremona ci si trovò letteralmente in mezzo al punto da subire, l’anno successivo, un assedio molto duro di ben 86 giorni consecutivi. In quella occasione le truppe piemontesi si attestarono intorno a San Sigismondo e quindi, allo scopo di impedire che la chiesa ed il convento di San Rocco venissero utilizzati come alloggio dei soldati, vennero demoliti ed i frati si trasferirono in una casa nella Vicinia di San Sepolcro.
A guerra terminata, il primo obiettivo dei Serviti fu naturalmente quello di ricostruire il loro convento ed il carteggio con le autorità cittadine fu lungo e laborioso, ma il popolo ne restò fuori. La ricostruzione sembrò concretizzarsi con la proposta di sistemare i due edifici all’interno delle mura e, per la precisione, in fondo al “Prato del Vescovo”, nei pressi di Santa Maria in Betlem ma non se ne fece nulla visto che nell’ottobre del 1652 papa Innocenzo X emanò la bolla di soppressione di piccoli conventi e così, pochi mesi dopo, in aprile, il priore di San Rocco consegnò la propria rinuncia al vescovo insieme alle poche, povere suppellettili ed ai pochi beni, citati dal Cavalcabò. Fra le suppellettili ed i beni consegnati c’erano un tabernacolo antico di scarsa qualità, ornamenti di legno dorati, tre pietre sacre d’altare, due campane, la statua della Vergine Maria e quella di San Rocco riposta nella chiesa di Betlem.
Ma non è finita perché i Serviti a Cremona, anziché arrendersi, si appellarono più volte al Generale del loro ordine in forza di alcune promesse poco consistenti della città di Cremona. Questo accadde nel 1663 e nel 1667. In ogni caso il convento e la chiesa di San Rocco non risorsero più e al loro posto furono costruiti una cascina ed un mulino sulla riva del cavo Conca. Col tempo poi sparirono anche il mulino e la antica cappelletta che sorgeva subito dopo il ponte sul canale, in via San Rocco. Alla fine degli anni Sessanta la municipalità , al fine di allargare la strada, demolì la cappella promettendo ai cittadini di riedificarla a lavori ultimati. Ma questo non avvenne e, in ogni caso, la gente ogni anno si ferma a pregare nella piccola cascina posta tra il “bòodri” ed il canale ed il cui ingesso, per la verità piuttosto singolare , ha fatto pensare a qualcuno che possa trattarsi del campanile della antica chiesa.
Proprio in quel luogo è fiorita, già da tempo, una leggenda dal sapore manzoniano che, per altro, Melchiorre Bellini riporta nelle sue “Storielle vane” e riguarda due figure, quelle di Alina e Geroldo che dimoravano nei pressi di San Rocco e desideravano sposarsi. Ma proprio quando le nozze stavano per compiersi, un piccolo feudatario del borgo, Riccardo, si invaghì di Alina tentando di conquistarla, senza riuscirvi. A quel punto il “don Rodrigo cremonese” riuscì a prendere accordi con un frate del convento e così, quando la giovane, il giorno delle nozze, si recò in chiesa per la confessione, il frate fece in modo di portarla in sacrestia rinchiudendola. La promessa sposa, terrorizzata, iniziò a suonare la campana per cercare aiuto e fin dai primi rintocchi la terra traballò, si aprì e si spaccò letteralmente inghiottendo chiesa e monastero ed al loro posto non restò che uno stagno profondo e silenzioso. Secondo la versione più drammatica di questa vicenda, Geroldo (nulla a che vedere col san Geroldo che fu martirizzato sulle rive del Po a Cremona), si gettò in un fosso e annegò. In un misto di suggestione e leggenda gli abitanti della zona hanno sempre riferito, nel tempo, che nelle notti di nebbia dal “bòodri” emergerebbe la diafana figura di Alina intenta a chiedere aiuto con le braccia teste. Secondo un’altra versione, la vigilia di Natale o per Carnevale si vedrebbero galleggiare sull’acqua due mani con maniche da frate mentre ogni anno, durante le buie notti invernali, dalle profondità dallo stagno si leverebbero lugubri rintocchi di campana.
Le venerazione dei cremonesi per San Rocco di Montpellier ebbe un codicillo verso la metà del ’600 quando nacque la Compagnia “con veste di tela bianca” che aveva un piccolo oratorio nel vicolo delle Erbe nel quale si riuniva anche l’Università dei granaioli ma quando, nel 1787 la compagnia venne soppressa, fu demolita pure la chiesa. Pare che l’altare di San Rocco con le tele del Genovesino della cattedrale siano state commissionate dalla stessa Compagnia a titolo di ringraziamento in seguito alla peste del 1630.
Una figura, quella di San Rocco di Montpellier, decisamente popolare, con un culto che è fra i più diffusi e popolari della Chiesa Occidentale: un fenomeno di vaste dimensioni, su cui si sono depositati secoli di storia e di leggenda. Santo tanto popolare quanto ricco di enigmi e di interrogativi da secoli irrisolti. Celebre pellegrino, taumaturgo, ed eremita, secondo alcuni studiosi anche Terziario francescano, è particolarmente venerato in tutta Italia. Un culto diffusissimo anche nel Cremonese come nel Mantovano e nelle dirimpettaie province di Parma e Piacenza ma anche nel resto della Pianura Padana (terra in cui, secondo la tradizione e le fonti storiche il pellegrino e taumaturgo transitò). Non c’è praticamente paese o località in cui non esista una chiesa, un oratorio, una santella o una maestà, una strada, una piazza o una associazione a lui dedicati e non c’è praticamente chiesa in cui non sia conservata almeno una statua o un dipinto in cui è raffigurato il santo.
Tutto questo è frutto di una tradizione e di una fede popolare e molto diffusa, che getta le sue radici in particolare ai tempi in cui si diffusero le epidemie di colera, contro le quali il santo taumaturgo veniva invocato. In epoche passate, quando le epidemie di peste erano ampiamente diffuse, San Rocco veniva invocato dai fedeli, al fine di ottenere guarigioni ed affinchè queste stesse epidemie venissero debellate. Il Santo di origine francese avrebbe soggiornato a Sarmato ed a Caorso e avrebbe operato guarigioni a Piacenza. Nel pieno del medioevo, quando povertà e violenza, assieme a contagi ed insicurezze, flagellavano persone e comunità precarie ed indifese, questo personaggio soccorreva gli appestati divenendo ben presto una vera e propria icona della solidarietà e della fratellanza. Così dal Quattrocento in avanti la sua figura si è rapidamente imposta in tutta Italia ed in tutta Europa. Permane però, sulla celebre figura del pellegrino e taumaturgo, un grande interrogativo. Quella che lo riguarda è storia o leggenda? La realtà del pellegrino originario di Montpellier è racchiusa in un paradossale contrasto: da un lato è uno dei santi più venerati e popolari della storia della Chiesa e del popolo cristiano, a lui sono attribuite un numero incalcolabile di guarigioni, ma dall’altro la sua vita appartiene ormai più al limbo della tradizione e delle leggenda che non al dominio della storia, perché sono assai poche, e scarsamente documentate, le vicende conosciute ed attendibili del suo percorso umano e cristiano. L’oscurità è così fortemente diffusa ed evidente che, da tempo, non pochi esperti e studiosi, ritengono che la figura di San Rocco non sia altro che, addirittura, una pia invenzione.
Diversi anni fa è uscito un libro, “San Rocco Pellegrino”, edito da Marcianum Press (con tanto di presentazione del cardinale Angelo Scola), curato da Paolo Ascagni, cremonese “d’adozione”, uno dei massimi studiosi rocchiani, autore anche di altre pubblicazioni dedicate a San Rocco. Lo studioso con questo volume ha cercato di districare le tracce della storia dalle secolari incrostazioni della leggenda, ripercorrendo le principali direttive di studio che, in particolare dall’Ottocento ad oggi, hanno recato di fare luce sulla indefinibile figura del santo. Ne è sorto un ritratto tanto problematico quanto avvincente dell’affascinante carisma di Rocco di Montpellier, uomo dai mille misteri, crocevia di questioni irrisolte ma simbolo sempre attuale della santità cristiana e dei valori umani più veri e profondi. A porre forti dubbi sull’esistenza di San Rocco è stato anche il belga Pierre Bolle, celebre studioso e ricercatore dell’Università Libre di Bruxelles, che con Ascagni ha pubblicato "Rocco di Montpellier. Voghera e il suo santo” (2001). Secondo quanto sosteneva lo studioso belga si sarebbe di fronte ad un duplicato agiografico. In pratica il celebre santo di Montpellier sarebbe il “doppione” di un altro santo vissuto nel VII secolo, vale a dire Racho di Autun. Quest’ultimo, dati ecclesiastici ufficiali alla mano, è stato il primo vescovo franco di quella città, è morto intorno al 660; è festeggiato il 28 gennaio (ma anche il 5 dicembre) ed il suo nome è equiparato a “Ragoberto”, una concordanza in realtà molto discutibile. Per coloro che sono interessati ad approfondire ulteriormente la questione, si consiglia di consultare i saggi riportati diffusamente sul portale sanroccodimontpellier.it.
Di fatto, Pierre Bolle dimostra che i numerosi racconti, cioè le antiche “Vitae”, infarciti di stereotipi, non sono affatto utili sul piano rigorosamente storico. E presenta invece numerosi indizi di natura liturgica, che gli consentono di arrivare a conclusioni originali e proposito dell’evoluzione del processo leggendario, prima che esso assumesse una forma letteraria. Per esempio, nella regione francese di Montpellier, una menzione del santo come “vescovo e martire” (ciò che in effetti egli non è), al 16 agosto di un calendario liturgico del XV secolo, era sempre stata interpretata come la confusione di un copista con San Raco, vescovo di Autun e protettore dalla tempesta, venerato, come già anticipato, il 5 dicembre. Come dimostra una ricerca più approfondita, anche diversi manoscritti della Linguadoca presentano questa particolarità. Essa, dunque, traduce piuttosto un uso liturgico regionale del santo di Autun spostato ad un’altra data del calendario, che è quella del 16 agosto. Questo è confermato da altri indizi di “duplicazione”: alcuni lezionari inediti del santo di Autun; una preghiera in francese medievale del XV secolo, che associa “pestilenza”, “peste” e “tempesta”; una messa in latino che associa “languores epidemiae” ed “aeris tempieres”; una xilografia provenzale della fine del XV secolo, che riproduce entrambi i santi; infine, anche una tradizione italiana sulla vendita delle reliquie.
L’accumulo di tutte queste testimonianze di natura liturgica, iconografica, leggendaria e storica porta di conseguenza a sostenere che San Rocco di Montpellier potrebbe realmente essere un “doppione” agiografico di Raco di Autun, santo vescovo il cui culto pare risalire all’epoca merovingia. Tale sdoppiamento si è determinato principalmente per ominimia (Raco/Rocho) ed inoltre a seguito di un processo linguistico di aferesi, relativo alla sua funzione di “protettore”: “tempeste” è così diventato “peste”. Lo sdoppiamento è stato inoltre facilitato dalle concezioni medievali medico-eziologiche in materia di epidemie; derivate dalle teorie miasmatiche di Ippocrate e di Galeno, che stabilivano in modo molto netto un legame causale diretto tra le epidemie e le perturbazioni meteorologiche, specie le tempeste. Facendo ora un bilancio della questione, considerando le due principali cronologie dedicate al santo, emerge che la tesi tradizionale, quella di Francesco Diedo (che è la più conosciuta) presenta troppe incongruenze per poter essere accettata; la nuova, della “Scuola Italiana” è invece da ritenere più attendibile. Gli studiosi persuasi dell’esistenza di San Rocco sono pressoché tutti allineati alle posizioni della “nuova cronologia” che, di fatto, è la sola capace di risolvere, seppur in parte, i molti punti interrogativi che permangono sulla biografia del santo Si può anche affermare che, se in Francia, il culto è nato da una contaminazione con San Raco determinando una “confusione liturgica”, in Italia la devozione è nata in modo del tutto indipendente tra Voghera e Piacenza. Potrebbe quindi essere esistito un personaggio che ha vissuto episodi importanti della sua vita nella nostra zona, ed al quale sono state nel tempo attribuite leggende e cose non verificabili. Permane, in ogni caso, il simbolo sempre attuale della santità cristiana e dei valori umani più veri e profondi.
Per quanto riguarda i nostri territori è doveroso ricordare che Cremona è custode di un documento assolutamente prezioso legato al santo; infatti la Biblioteca Statale conserva, tra le altre cose, un Missale Romanum edito a Milano nel 1476 che costituisce una delle più antiche testimonianze della celebrazione dedicata al santo il 16 agosto. In Cattedrale spicca inoltre il già citato altare realizzato come ex voto dopo la peste del 1630 con la statua policroma di San Rocco, affiancato da San Francesco d’Assisi e San Bernardino da Siena (1630-45); ed impreziosito dalle Tele del Genovesino (1645). Sempre in città c'è una cappella e una cascina a lui dedicata sulla omonima via a destra di via Giordano prima di via Novati, un antico toponimo.
A Casalmaggiore proseguono i lavori di restauro della vecchia chiesa di san Rocco destinata a divenire centro culturale. Tra le località in cui il culto è particolarmente diffuso sono da citare Ostiano (dove sorge la bella chiesetta con gli antichi affreschi che lo raffigurano), Castelleone, Chieve, Montodine, Gera di Pizzighettone, Ripalta Nuova, Dovera (col santuario di san Rocco del 1524), Vergonzana, Spino d’Adda, Tornata, Pescarolo ed Uniti, Motta Baluffi e Recorfano di Voltido (dove l’epidemia di colera del 1855 fece quaranta morti tra fine luglio e fine agosto e dove si tiene la tradizionale processione serale).
Sulla sponda emiliana del Grande fiume, spicca poi un altro luogo la cui storia si intreccia a quella cremonese. Si tratta del santuario di San Rocco in Ardola di Polesine Zibello dove sabato, 16 agosto, alle 18, il vescovo di Fidenza monsignor Ovidio Vezzoli presiederà la messa solenne. Ad Ardola già nel 1542 esisteva una chiesa che, come ricordano le memorie scritte di allora, era modesta e la messa veniva celebrata di rado. Nel 1600, in occasione della visita pastorale di monsignor Cesare Speciano, vescovo di Cremona (diocesi alla quale apparteneva Ardola prima della nascita, l’anno successivo, della diocesi di Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza), l’oratorio veniva descritto di forma rettangolare, sufficientemente illuminato, dotato di diverse “pezze” di terra e “con suppellettili quasi tutte in cattivo stato, senza cimitero, tanto che i defunti vengono traslati alla parrocchiale di Zibello e con un campanile appena tollerabile in relazione alle condizioni del luogo e provvisto di una sola campana”. Dal 1631 vi era venerata una statua scolpita in legno policromo raffigurante San Rocco, donata da un nobiluomo locale, Matteo Boselli, che si era sentito miracolosamente risparmiato dalla tremenda pestilenza di quegli anni, quella che colpì il Nord Italia in tre ondate dal 1629 al 1631 e fu poi raccontata da Alessandro Manzoni nei “Promessi Sposi”. L’epidemia del XVII secolo fu probabilmente provocata dall’arrivo in Italia del Nord di truppe mercenarie al servizio del Sacro romano impero, i famigerati lanzichenecchi. La peste si diffuse in tutta l’Italia settentrionale e in parte di quella centrale, provocando la morte di centinaia di migliaia di persone. Anche a Cremona le vittime furono migliaia e, a riguardo, si consiglia la lettura di questo articolo (leggi qui). Ardola era diventato, nel tempo, meta di fedeli che giungevano da numerose località, anche dal cremonese, per invocare l’intercessione del santo contro le ricorrenti epidemie e contro le malattie del bestiame.
Oggi la chiesa di cui parla monsignor Cesare Speciano non esiste più. Al suo posto svetta il bel santuario, al centro negli ultimi anni di importanti lavori che lo hanno riportato al suo originario splendore (realizzati grazie alla generosità di enti, associazioni e privati cittadini e con l’impegno di instancabili volontari locali), rimasto a testimoniare gli eventi prodigiosi accaduti nell’anno 1746 in occasione di una ulteriore epidemia di peste. Il 15 luglio di quell’anno, mentre numerosi fedeli, giunti a frotte anche da Cremona e provincia, si trovavano davanti al vecchio oratorio di San Rocco (che sorgeva laddove oggi si trova il Santuario) per implorare il Santo ed impetrare benedizioni celesti affinché avesse finalmente termine la calamità, improvvisamente, davanti allo sguardo stupito dei presenti, in un piccolo fosso che correva, come corre ancora oggi, poco distante, in fregio alla strada comunale, scaturirono due sorgenti d’acqua, sul principio di colore “rossetto” per assumere poi una colorazione più naturale, come si legge nel prezioso diario lasciato dal parroco don Bartolomeo Zerbini.
L’evento in sé venne ritenuto subito come innaturale e straordinario, attesa l’aridità del suolo, la stagione estiva e la persistente siccità che si stava manifestando lì come altrove. La popolazione, conscia del fatto che si stava verificando un fenomeno soprannaturale, iniziò ad abbeverare gli animali colpiti da pestilenza, i quali immediatamente guarivano in maniera prodigiosa. Diffusasi ben presto la voce del fatto miracolosa, i fedeli d’ogni parte accorrevano numerosi per pregare, elargire elemosine e celebrare feste in onore del Santo protettore. Giungevano pellegrini anche dalla vicina Lombardia, e dalla provincia di Cremona in particolare, dimostrandosi particolarmente devoti alla popolarissima figura di San Rocco che si venerava in Ardola. In appena pochi giorni venne raccolto tanto denaro da consentire l’edificazione di un nuovo e più ampio oratorio del quale, il giorno 24 settembre di quello stesso anno, si posero le prime pietre della fondamenta. Nel settembre di tre anni più tardi, il sacro edificio era già terminato ed il giorno otto del susseguente mese di ottobre veniva solennemente benedetto da Monsignor Missini, vescovo di Borgo San Donnino (l’odierna Fidenza). Ancora nelle sue memorie don Zerbini scrive: L’Oratorio è quello che ora si ammira per la sua elegante costruzione d’ordine Corinto, lavoro senza dubbio di abilissimo architetto di cui non si conosce il nome.
Della comparsa delle sorgenti di acqua prodigiosa e degli effetti miracolosi per gli animali e per gli uomini, monsignor Adeodato Volpi, Arciprete e Canonico della vicina parrocchia di Pieveottoville, nella sua qualità di Vicario Foraneo, venne incaricato dal vescovo Monsignor Missini di redigere una relazione. Nella stessa, redatta a stampa e tuttora conservata nell’Archivio Parrocchiale di Zibello, come ricorda anche lo storico locale Gaetano Mistura, il sacerdote, non solo conferma gli eventi così come si sono manifestati, ma dà puntualmente conto delle guarigioni riportando nome e cognome, oltre l’infermità della quale erano colpite, delle persone delle quali riferisce. Monsignor Volpi conclude il suo resoconto riconoscendo la veridicità dei miracoli operati da Dio per intercessione di San Rocco. Va anche sottolineato che, in seguito agli eventi prodigiosi, la statua di San Rocco, che già si venerava nel vecchio oratorio, fu fatta oggetto di nuovi segni di gratitudine. I pronipoti di quel Matteo Boselli che la donò, la fecero impreziosire con ornamenti in argento e posero sulla sua base una targa, pure in argento, con una iscrizione che ne riassume la storia e le intenzioni.
La statua per diversi anni è stata conservata nella parrocchiale di Zibello, ma ora in seguito ai lavori di sistemazione della chiesa di Ardola, dallo scorso anno è tornata al suo posto (con la chiesa alarmata e video sorvegliata). Da evidenziare che la costruzione dell’attuale santuario (dove ogni mercoledì, da poche settimane, su disposizione del vescovo, viene celebrata la messa alle 17), realizzata grazie anche alla generosità di tanti cremonesi, non impedì di conservare le due fonti prodigiose ivi scoperte. Già all’indomani della comparsa delle due polle si era provveduto a trattenere l’acqua in due tini per evitare che si disperdesse nel terreno circostante. In seguito furono costruiti i due pozzi in muratura, tuttora esistenti. Per lungo tempo, almeno fino a metà Ottocento, la gente continuò ad attingervi acqua, specie in occasione di epidemie del bestiame ma anche di malattie sulle persone. Nel 1858, come ricorda ancora lo storico locale Gaetano Mistura (autore anche di una bella pubblicazione sulla chiesa di Ardola) don Bartolomeo Zerbini fece controllare i pozzi, sia nella loro parte interna che in quella esterna e destò meraviglia il fatto che le pareti interne risultavano ricoperte da un nerume, una sorta di fuliggine di cui non si sapeva spiegare l’origine. Don Zerbini aggiungeva anche che l’acqua prelevata sul fondo aveva un odore “come d’ova fracide, odore simile a quella di Tabiano”. Il sacerdote iniziò quindi a pensare che tale acqua potesse contenere qualche elemento minerale o salubre, da cui far derivare le guarigioni avvenute un secolo prima. Fece anche analizzare un campione d’acqua a persone esperte in chimica e, a riguardo, scriveva “mi hanno assicurato che non può dubitarsi che contenga del solfo. Ho fatto purgare i pozzi, e ciò non ostante l’acqua conserva il medesimo odore. Se tale era quest’acqua quando scaturì nel 1746, le guarigioni che le si attribuirono, senza cessare d’esser vere grazie concesse ai devoti per l’intercessione di San Rocco, non sarebbero però miracoli nel senso rigoroso di questa parola”.
Queste le conclusioni, obiettive e serene, cui giunse don Zerbini in ordine agli eventi del 1746. Come dire: se l’acqua possedeva principi curativi in grado di debellare la malattia non si può certo gridare al miracolo. Tuttavia, molte delle coincidenze che si verificarono in quel fatidico 15 luglio 1746, hanno ancora oggi dell’inspiegabile. La stagione estiva e siccitosa, la comparsa improvvisa in superficie di acqua nel luogo e nel momento in cui più fervente saliva la preghiera al Santo protettore per il perdurare di una epidemia che stava annientando il bestiame, l’affiorare di acqua che in seguito si sarebbe presentata di natura solforosa e quindi probabilmente munita di proprietà terapeutiche, del tutto anomale rispetto alle falde acquifere della zona, sono circostanze che risulta difficile attribuire soltanto al caso. Nel gennaio 2006, fra l’altro, uno dei due pozzi fu di nuovo oggetto di una ulteriore ispezione e, nuovamente, chi eseguì il lavoro fu sorpreso dall’odore acre, di uova marce, che improvvisamente si sprigionò. E le successive analisi dell’acqua della prima falda freatica, eseguite da un laboratorio chimico di Fidenza, non evidenziarono la presenza di alcun elemento chimico particolare, se non una certa ferruginosità: caratteristica che contraddistingue un po’ tutte le falde della zona. Da evidenziare infine che, dopo un lungo periodo di declino, il Santuario, che anche al suo interno presenta numerosi “richiami” alle pestilenze, è stato al centro, come già rimarcato, negli ultimi anni di importanti lavori di sistemazione e messa in sicurezza ed ancora oggi sono numerose le persone che si recano alle sue fonti per ottenere grazie. Dei fatti accaduti non ci si è mai dimenticati perchè, anche nei periodi di declino e abbandono, la gente ha sempre tramandato la memoria di quanto accaduto indicando sempre come i due pozzi davanti alla chiesa, celino qualcosa di straordinario e rimandino anche ad un pezzo di storia cremonese che è doveroso tenere vivo.
Sempre in tema di storia, davvero particolare è quella legata all’oratorio di San Rocco di Dovera, un vero e proprio gioiello in terra cremasca. Gli inizi della vicenda, in questo caso, si riconducono al racconto delle apparizioni di San Rocco ad Ambrogio de Bretis, avvenuta nel giugno del 1524, e all’esplodere di una pietà popolare, che fu intensissima anche verso i santi Sebastiano, Cristoforo ed Antonio Abate. La prima apparizione di San Rocco avvenne la notte del 22 giugno del 1524 mentre Ambrogio dormiva, si manifestò San Rocco, esprimendo il desiderio che venisse costruita una chiesetta in suo onore, promettendogli grazie speciali da Dio a favore di tutti coloro che sarebbero venuti a invocarlo sul posto. La notte del 23 giugno, San Rocco apparve nuovamente ad Ambrogio, esortandolo all’ora di rivolgersi al parroco di Dovera, il quale udendo il racconto, gli disse che, per poter credere alle apparizioni dei santi ed erigere una chiesa, sarebbe stato necessario che il Santo gli avesse a dire un sogno prodigioso, che potesse essere constatato da tutti. Infine nella notte del 24 giugno, Ambrogio, desideroso di rivedere il santo, veglió in preghiera sotto una pianta di corniolo, che si trovava nei pressi della sua casa, mentre era assorto nell’invocazione, gli apparve per la terza volta San Rocco e quando Ambrogio, secondo il consiglio del parroco, gli chiese un segno prodigioso, affinché la gente prestasse fede alle apparizioni, il santo stacco una corniola dalla pianta e la pose sul dorso della mano destra, all’improvviso il frutto si infilò sotto la pelle e vi rimase senza produrre né ferita ne disturbo alcuno. Il fatto è così straordinario e di così facile costatazione, che tutti coloro i quali osservarono, rimasero ammaliati.
La tradizione popolare antichissima da essere stata fissata appena 21 anni dopo dall’evento nel 1545, è visivamente ed eloquentemente rappresentata negli stupendi affreschi di Callisto Piazza, che riproducono nell’abside della cappella maggiore dell’oratorio il ciclo completo delle apparizioni.
Infine, per quanto riguarda gli appuntamenti in programma quest’anno, da evidenziare, soprattutto per il suo scopo solidale, la Gnoccata di San Rocco della Fondazione Sospiro in programma sabato sera, 16 agosto, dalle 19.30, organizzata dal Centro Sportivo Stradivari con buon cibo in compagnia per sostenere le attività della Cascina San Marco. La partecipazione è aperta anche ai non soci del centro e per informazioni è possibile contattare lo 037223461. A Recorfano di Voltido è invece in programma la tradizionale Sagra di San Rocco che porevede, la sera del 15 agosto, dalle 19.30, l’apericena in collaborazione con Antica Trattoria Gianna, con risotto e spalla cotta nella piazzetta della chiesa (obbligatoria la prenotazione al 3319939392 o al 3470092237) mentre sabato 16, alle 10.30, in chiesa sarà celebrata la messa e, alle 21, si terrà la tradizionale processione di San Rocco con la partecipazione della banda musicale di Canneto sull’Oglio. A Palazzo Pignano, invece, all’oratorio, sabato 16, messe alle 10 (con benedizione dei mezzi agricoli e da lavoro) e alle 19 e, in serata, cena di San Rocco e musica con Gegia e Alfredo.
Eremita del Po
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