15 agosto 2025

Vincenzo Montuori, il Napoletano che ha cantato la nostra città e la sua campagna, regala ai lettori di CremonaSera il racconto inedito “La festa del toro”, dedicato ad un’antica tradizione locale

È probabilmente il più cremonese dei Napoletani. Originario della terra del Vesuvio, ov’è nato nel 1953 e da cui si è allontanato negli anni Ottanta, plurilaureato (in Lettere moderne e in Filosofia), docente in pensione di Italiano e di Storia, materie insegnate a lungo presso l'istituto tecnico "E. Beltrami" (l'attuale "A. Ghisleri" di via Palestro), membro del direttivo del circolo culturale A.D.A.F.A. (“Amici dell’arte- Famiglia artistica”) guidato da Fulvio Stumpo, collaboratore dell’Unitre (Università della Terza Età), Vincenzo Athos Montuori è conosciuto soprattutto come prolifico autore di opere in prosa ed in poesia, che gli sono valse svariati premi e riconoscimenti. Del resto, il nome è di per sé tutto un programma: il primo doveva essere proprio l’esotico Athos, che, all’anagrafe, per via delle leggi allora vigenti, fu posposto, perché straniero. Athos evoca appunto un non so che di aulico, elevato, letterario: nomen omen, insomma, come ben dicevano gli antichi. Ormai, i saggi, le sillogi poetiche e le raccolte di novelle da lui scritte non si contano più. Tra i successi maggiori, ricordiamo “L’altra faccia della luna”, “Mutazioni”, “Canti e discanti”, “Passaggi di stato” ed il romanzo in versi “Autostrada del Sole”, dedicato al cinquantesimo anniversario della costruzione dell’infrastruttura, su cui è corsa buona parte della vita dell’ex insegnante. L’ultimo lavoro, “Nella gabbia dorata”, è un’ “autoantologia”, come la definisce lo scrittore stesso, che racchiude alcuni fra i testi più significativi della sua carriera, “perché, in futuro – ci spiega - la mia produzione non venga interpretata in modo scorretto o fantasioso, come purtroppo accaduto di recente”. Forse, però, non è noto che una quarantina dei circa centosettanta racconti dell’ex professore sono ambientati proprio nella città del Torrazzo e nella campagna circostante, che dunque rientrano a pieno titolo tra le sue muse ispiratrici: “Non sono un partenopeo nostalgico – precisa - abito qui da quando ero appena più che ventenne e sento di appartenere a Cremona, di cui amo molto la regolarità del paesaggio rurale e la naturalezza di quello fluviale”. In virtù del profondo legame con la sua patria d’elezione, Montuori ha deciso di donare ai lettori di CremonaSera l’inedito “La festa del toro”.

Di cosa si tratta?

La base è storica – afferma Montuori, che aggiunge -  fino alla metà del Cinquecento, in piazza del Duomo, si svolse una specie di corrida, che fu poi soppressa durante la Controriforma, in quanto ritenuta in odore di paganesimo. Non ne parla più nessuno: si tratta di una tradizione particolare, finita, ahimè, nel dimenticatoio. La trama pone inoltre in contrasto le classi sociali del periodo: il popolo e la nobiltà”.

Da dove trai la tua ispirazione?

Per le liriche, mi occorre un dettaglio evocativo, un’immagine suggestiva, mentre, per raccontare, devo trovare un aggancio con la realtà. Sono un grande osservatore e mi piace prendere spunto da elementi concreti, a cui sovrappongo l’immaginazione. Per esempio, ho sempre detestato i cosiddetti totem, che rappresentano un pugno nell’occhio e sono destinati ad arrugginirsi. Ce n’è uno in piazza Cadorna, ad un’estremità del viale Po. Rovina nettamente la visuale: si riesce ad ammirare il Torrazzo solo una volta giunti a ridosso del centro. Ne “La vendetta del vecchio”, ho messo in campo una tempesta che lo spazza via, senza avere la forza necessaria per abbattere la torre campanaria medievale più alta d’Europa. L’ironia di fondo veicola un messaggio preciso: un tempo, si costruiva meglio di adesso. Vi è poi anche una velata critica politica nei confronti delle scelte dell’amministrazione dell’epoca. Oggi come oggi, mi domando invece come sia possibile che una città ricca d’acqua qual è Cremona non abbia nemmeno una fontana funzionante. E pensare che ne ho viste di splendide in Andalusia ed in Marocco”.

Potrebbe essere l’avvio di una nuova storia… Adotti tecniche specifiche?

“Prediligo la brevità, per essere efficace ed evitare di stancare o di annoiare... Faceva così pure Giovanni Boccaccio”.

E scusate se è poco. Non rimane che inforcare gli occhiali ed immergersi nella lettura montuoriana di Ferragosto.

La festa del toro 

   Con gesti lenti e metodici si stava spalmando i muscoli massicci delle braccia per renderli più guizzanti e pronti al combattimento: pomeriggio languido e affocato di metà agosto in città, quando iniziavano i preparativi della Festa del Toro. Guidalberto era uno dei “tauroagonisti”, cioè dei combattenti a mani nude che dovevano affrontare il torello liberato nella piazza. Intanto, però, bisognava installare la tribuna, poi la piazza doveva esser pulita; quindi, interveniva   una lunga fila di renaioli impegnata a scaricare secchi e secchi di sabbia finissima ricavata dal letto del fiume, in modo che combattenti e bestie non dovessero rischiare di scivolare sul selciato. 

   Guidalberto dei Malinverni era, in quegli anni, il più bravo dei “tauroagonisti” e intorno a lui si era consolidato un gruppo di seguaci che lo accompagnavano in tutte le sue imprese, un gruppo spesso guidato dalla mamma, una ancora relativamente giovane donna, dal profilo austero e dai capelli neri: madama Violante (questo il nome della donna) era rimasta vedova abbastanza giovane, cosicché il figlio era diventato per lei occasione di orgoglio e anche mezzo di sostentamento perché il governo della città lo aveva già insignito di diversi premi (medaglie e denaro): per questo guidava il gruppetto della  sua cerchia di amici e le era stato concesso di sedere sui palchetti della  tribuna d’onore, sotto l’arengario insieme ai nobili mentre il popolo minuto assisteva in piedi agli altri lati della piazza, illuminata dallo splendido tramonto. Il pubblico rumoreggiava attendendo il campione; finalmente Guidalberto venne fuori dai portici del palazzo comunale, tutto nudo a parte una fascia che gli copriva i fianchi e i genitali, avanzando lentamente sotto i riflessi dell’ultimo sole che gli indorava i muscoli.

   La folla era in delirio e, sollevando lo sguardo verso la mamma, si accorse che in tribuna si erano accomodate anche le giovani dame dei Sommi, degli Ugolani, dei Pallavicino, che lo fissavano intensamente; Guidalberto non era vanitoso ma quegli sguardi femminili avidi non potevano che fargli piacere. Arrivato al centro dell’arena, si fermò volgendosi dalla parte da cui i mandriani avrebbero spinto l’animale, il passaggio stretto tra il Duomo e il Battistero. Ecco arrivare il toro, una bestia non del tutto adulta ma già abbastanza minacciosa: una furia nera che percorse la piazza scrollando e puntando ogni tanto verso il pubblico che si ritraeva dietro gli steccati. Alla fine si ritrovò in faccia a Guidalberto che ricambiò il suo sguardo. La bestia dapprima sbuffò indecisa, poi scrollò la testa e partì a piccolo trotto contro di lui che non si scompose; all’ultimo si scansò e poi l’afferrò per le piccole corna, ingaggiando con lui una prova di forza.

   La folla urlava e lo incitava e il giovane ci mise tutta la potenza di cui era capace: puntando le gambe e sempre tenendo la presa, riuscì a far inginocchiare il torello che muggiva e lo fulminava con i suoi occhi neri neri e lucidi. Una volta che l’ebbe immobilizzato e che lui springava con gli zoccoli posteriori nella sabbia, intervennero i mazzieri che lo colpirono più volte in testa con delle mazze ferrate finché, in un misto di sangue dal naso e dalla bocca e di urina, la vittima non sussultò per l’ultima volta.

   Il giovane si rialzò rosso in viso per lo sforzo con i muscoli ancora tesi mentre il pubblico ne scandiva il nome; poi, ancora sudato e in affanno, salì sulla tribuna d’onore dove la madre in persona lo premiò con la medaglia d’oro al collo. Guidalberto abbassò lo sguardo in segno di riconoscenza ma non tanto da non accorgersi che le dame della nobiltà lo seguivano con un mezzo sorriso.

Venti anni dopo

   Il nuovo governo del giovane imperatore di Spagna, Filippo II°, si era imposto in città spedendovi un governatore e costituendo un consiglio civico che era espressione delle classi nobiliari locali le quali, pur di conservare i propri privilegi, avevano delegato tutto il potere concreto allo straniero e ai suoi funzionari. Il nuovo re, meno tollerante del padre Carlo V° e più ossequiente allo spirito della Controriforma, aveva messo delle limitazioni a quegli spettacoli che lui considerava manifestazioni pseudopagane fino a proibirli del tutto; ma Guidalberto, ormai alle soglie della maturità e la sua compagnia di giro, non si erano arresi tanto facilmente e continuavano ad organizzare delle manifestazioni clandestine fuori dalle mura della città. Sera afosa di fine agosto sulla golena che bordeggiava la “strada del sale”, quella che i carri provenienti dal fiume percorrevano trasportando in città il sale che era stato raccolto nelle saline venete e caricato lungo il Po. 

   Una massa di sfaccendati si era riunita in uno spiazzo dove avevano portato delle capre e dei montoni alla cavezza: si sarebbe tenuto lì un incontro clandestino in cui il povero Guidalberto avrebbe dovuto stroncare quelle bestie a pugni. L’uomo, ormai sfatto e con la pancia flaccida, cominciò a menar le mani, beccandosi cornate e calci da quelle bestie: gli sciagurati spettatori, alla luce dei falò, urlavano lazzi e lanciavano bestemmie incitati da un gruppo di giovani popolane discinte.

   La cosa andava avanti da circa un’ora, quando si sentì uno scalpitare di zoccoli e un clangore di ferraglie: qualcuno aveva chiamato la Guardia Civica.

   - Ehi, furfanti, fermi! Non lo sapete che queste manifestazioni sono proibite? - sbraitò il capomanipolo.

   - Ma, signore… - tentò di obiettare Guidalberto.

   - Te, te, ti conosco, grandissimo farabutto, mi ricordo di te, adesso ti do una lezione! - e così apostrofandolo, lo colpì più volte con lo scudiscio che usava per il cavallo.

    Intanto, i suoi sottoposti aggredivano Guidalberto e lo legavano con le corde mettendogli chiavistelli di ferro alle mani e ai piedi.

   Così ridotto come un salame, venne trascinato tra gli ululati della folla che protestava ma che non ebbe l’ardire di affrontare le giardie. L’ultima cosa che il prigioniero vide, prima di essere rinchiuso nel carretto con l’armatura di ferro manco fosse un orso selvatico, fu il gruppo di giovani donne che, ridendogli sfacciatamente sul muso, si scoprivano le poppe al suo passaggio.

Vincenzo Montuori

 

Barbara Bozzi


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti