25 novembre 2022

Dalla cultura della violenza fra le mura domestiche alla violenza come violazione dei diritti umani

Ringrazio Cremona Sera per la gradita opportunità di offrire una riflessione sulla violenza maschile contro le donne in occasione di questo 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – Risoluzione delle Nazioni Unite del 1999. 

Proverò ad approcciarmi al tema sulla base della mia esperienza sia come avvocata sia come Presidente del Centro Antiviolenza di Cremona, Aida, cercando di fornire una lettura del fenomeno che dia la misura di quanto e perché la violenza sia ancora radicata, nonostante le modificazioni del quadro giuridico e i mutamenti sociali che stiamo vivendo. 

In Italia, dagli anni sessanta in avanti, in un mondo occidentale di impronta fortemente patriarcale, lentamente, con fatica, e grazie all’energia dell’impegno civile di molte donne, si sta diffondendo l’urgenza di cambiare rotta rispetto ad una società imperniata sulla cultura della violenza coniugale.

La storia della violenza coniugale è radicata e ha una fortissima specificità: anche in tempi più vicini a noi vi sono stati tentativi di affrontare e combattere gli abusi più eclatanti. Tuttavia, si è arrivati alla configurazione di un modello famigliare ambiguo, molto potente e consolidato, in cui sono state legittimate anche soluzioni violente all’interno delle mura domestiche. Di fatto, il confine fra crimine perseguito e diritto riconosciuto è sempre stato labile, fino ai giorni nostri.

A tutt’oggi, nonostante i passi in avanti fatti, resistono pregiudizi davvero duri a morire. Mi capita spesso di sentire le seguenti domande: “Ma perché la donna è rimasta a casa con il marito? Perché non se n’è andata prima?”. E’ ancora molto diffuso, purtroppo anche fra gli operatori istituzionali e professionali che si occupano del tema, un clima di sospetto nei confronti della donna, un’accusa neppure troppo velata di una accettazione della violenza che  rende la donna colpevole, che la giudica in qualche modo responsabile e complice nella relazione di abuso. E ancora c’è chi suppone che, in fin dei conti, se la sia cercata. 

Piglia il bastone e battila molto bene”. Veniamo da qui. Veniamo da un mondo che per secoli ha avallato lo ius corrigendi, ove la violenza nei confronti della donna assumeva finalità educative. L’uomo, il marito, è da sempre collocato in una condizione di superiorità fisica e intellettiva nei confronti della donna, creatura fragile e incapace. Questa concezione, che ha permeato e contagiato l’intera società, non solo i rapporti coniugali, affonda le proprie radici nella nostra tradizione culturale. Crimine perseguito e diritto riconosciuto: entro una certa soglia, la violenza è accettabile e auspicata come metodo educativo. A onore del vero, in molti persisteva anche l’dea di un approccio improntato alla moderazione, ma ciò non ha impedito il perpetuarsi di una situazione oserei dire patologica, ove la cultura della violenza domestica ha prosperato, attraversando i secoli per arrivare sino ai giorni nostri.

Basti pensare che nell’ordinamento italiano, il diritto riconosciuto dello ius corrigendi ha resistito sino a pochi decenni fa: fra il ‘56 e il ‘63 è stata abolita la facoltà per un marito esercitare un potere educativo e correttivo anche tramite mezzi di coazione fisica; tra il ‘68 e il ‘69 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 559 c.p., che puniva unicamente l’adulterio della moglie; fino al 1981 esistevano il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, (da ricordare la storia della coraggiosissima Franca Viola). 

Pertanto, lo smantellamento di un sistema giuridico improntato sullo status superiore del marito e sull’accettazione di determinate forme di violenza, è un’operazione relativamente recente. 

Parallelamente, insieme alla modificazione di un vetusto e funesto impianto normativo, la società ha iniziato a comprendere l’esigenza di cambiare radicalmente l’approccio culturale, per arrivare a considerare la violenza solo ed esclusivamente come un reato. 

In questo fermento, nascono i primi centri antiviolenza, con lo scopo di arrivare laddove le norme e il comune sentire non erano ancora giunti: dentro alle case delle donne, dentro al cuore delle donne, per stabilire un rapporto di mutua fiducia in grado di accompagnarle e sostenerle durante il percorso di abbandono della condizione domestica violenta. Il primo centro nasce nel 1989 a Milano, la Casa delle Donne, e in meno di un decennio ne sono sorti oltre 70. In quell’epoca non esistevano luoghi di accoglienza per le donne, il divorzio era una rarità e anche fortemente stigmatizzante, e di fatto le donne non avevano una via di fuga. Il centro antiviolenza era un luogo, per così dire, rivoluzionario. 

Il centro antiviolenza di Cremona, Aida (Associazione Incontro Donne Antiviolenza), è nato nel 2001 e da allora è cambiato sensibilmente, anche grazie all’impennata di modifiche normative degli ultimi vent’anni. 

Il provvedimento più innovativo è rappresentato dalla cosiddetta Convenzione di Istanbul, approvata il 7 aprile del 2011 e ratificata dall’Italia il 19 giugno 2013, che definisce la violenza  maschile contro le donne come “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne”. 

Non sfugge, pertanto, la portata rivoluzionaria della Convenzione: definire la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani, sottrae qualsiasi dignità ad ogni tentativo di giustificazione e legittimazione, e pone le basi per un nuovo paradigma giuridico e culturale, che abbiamo il dovere di difendere e diffondere.

La Convenzione, fra le varie indicazioni, assegna ai Centri Antiviolenza lo status di soggetti protagonisti nella lotta alla violenza. Questo approccio ha determinato un potenziamento delle nostre associazioni: la legislazione nazionale e regionale ha liberato risorse, anche economiche, che hanno consentito un rafforzamento delle attività dei centri. 

 Il cuore del centro antiviolenza rimane comunque la relazione di fiducia fra volontaria e donna vittima di violenza: ascolto non giudicante, rispetto della segretezza e dei tempi della donna nella costruzione di un percorso di uscita dalla violenza e delle peculiarità della sua persona e della sua storia. Soprattutto un principio cardine, che in passato non è mai stato scontato è: io ti credo

La relazione fra volontarie e donna è speciale, unica: la donna non ha a che fare con un professionista, uno psicologo, uno psichiatra o un medico, per cui non si sente considerata malata. Non ha a che fare con un assistente sociale: per cui non si sente solo in una condizione di bisogno o peggio di inferiorità. Si sente semplicemente una donna, accolta da altre donne, vede riconosciute le sue doti e le sue potenzialità e sente di poterle finalmente recuperare e liberare.

Il centro antiviolenza, forte di questa relazione, grazie al nuovo inquadramento giuridico e culturale, può contare su altre risorse, poiché può mettere a disposizione delle donne tutta una serie di attività finalizzate al raggiungimento dell’obiettivo della fuoriuscita dalla violenza (percorsi psicologici, sportelli di orientamento legale, attività di mediazione culturale e linguistica ecc…). Inoltre, grazie alla creazione delle Reti territoriali antiviolenza, ove i centri rivestono un ruolo di primo piano, le volontarie sono in grado di attivare relazioni con gli altri soggetti della rete (es. servizi sociali, forze dell’ordine…), funzionali ad attivare percorsi volti all’indipendenza.

Infatti, la violenza domestica, pone spesso le donne in una condizione di subordinazione e isolamento, per cui, quando decidono di abbandonare il maltrattante, devono fare i conti con l’esclusione sociale, spesso anche familiare, e a volte con l’indigenza. Il lavoro integrato con gli altri soggetti della Rete permette di mettere in campo sia le risorse della donna sia le risorse pubbliche e private necessarie per garantire l’autonomia in senso stretto, non solo come libertà dal maltrattante ma come condizione di indipendenza dal punto di vista economico, lavorativo, abitativo e sociale. 

Senza dubbio sono tante le cose ancora da fare, da perfezionare, da rendere più efficienti. Ma non sarò fra coloro che il 25 novembre si limitano a porre l’accento sui difetti del sistema e su quanto c’è ancora da fare. 

In questo 25 novembre, per me, per Aida, ciò che conta è infondere la fiducia, che è il sentire fondamentale su cui si basa tutta la nostra azione quotidiana. La fiducia che abbiamo in noi stesse e nella possibilità di essere davvero un sostegno e un aiuto per le donne; la fiducia delle donne, che possono trovare in Aida non solo ascolto, ma anche altre donne che si battono al loro fianco per la conquista della libertà.  

Presidente del Centro Antiviolenza AIDA ODV

Via Palestro 34. Tel: 0372 801427 . Cell: 338 960 4533 (attivo tutti i giorni dell’anno dalle 8 alle 20)

E.mail: info@aidacremona.it; www.aidacremona.it

 

 

Elena Guerreschi, avvocato


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