27 luglio 2025

Insisti e abbi fiducia, c’è un Padre che ti ascolta

“Insegnaci a pregare”, è questo l’interrogativo a cui Gesù risponde donando ai discepoli un modo con il quale rapportarsi con Dio, il modo proprio di coloro che seguono il Maestro di Nazareth.

L’evangelista Luca ci dice che sono due i motivi per i quali un discepolo a nome di tutti, presenta a Gesù la sua richiesta: perché anche Giovanni battista ha insegnato ai suoi seguaci a pregare; perché Gesù stesso prega, e i discepoli, vedendolo, vogliono imparare da Lui il suo stesso modo di dialogare con Dio. Gesù consegna così una formula fatta di domande, alla quale aggiunge due atteggiamenti con i quali viverla. Le domande riguardano la santificazione del Nome di Dio, la venuta del suo regno, il pane di cui abbiamo bisogno ogni giorno, il perdono dei peccati, la liberazione nell’ora della tentazione e della prova. Gli atteggiamenti a cui siamo invitati sono l’insistenza, come si farebbe con un amico a cui ci si affida nel momento della necessità, e la fiducia verso Colui che è buono e che pertanto non può deludere, non esaudendo, quanto gli viene chiesto. 

Un aspetto che particolarmente mi colpisce della preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli di allora e di oggi, è l’invocazione con cui a Dio ci si deve rivolgere: “Padre”. 

Si tratta di qualcosa di impressionante se lo consideriamo al di fuori dell’abitudine con cui usiamo oggi questo termine per il nostro dialogo con Dio. 

Che Gesù parli con Dio chiamandolo “Padre” ci può sembrare abbastanza normale, poiché Gesù è il “Figlio” ed ha con Dio un rapporto unico che nessun altro ha; ma che Gesù ci ammetta a pregare con la sua stessa familiarità, quasi che il nostro rapporto con Dio possa assomigliare al suo, è sconvolgente per chi sa di non essere altro che una creatura destinata a vivere l’esperienza del fiore del campo (cfr. Is 40,6), dell’erba che fiorisce  al mattino e poco dopo è falciata e dissecca (cfr. Sal 89,5-6).  

Nell’Antico Testamento non mancano descrizioni di Dio che si comporta verso il popolo e verso un uomo “come un padre”, poiché la metafora paterna e materna è certamente utile per aiutarci a pensare ciò che supera l’immaginazione umana; tuttavia sapere che Dio è “per me” Padre e che quindi io sono “per Lui” figlio, non è spontaneo e non è nemmeno necessario o obbligatorio. Non è un “mio diritto” essere figlio per Dio, si tratta piuttosto di un dono. Insegnandoci a pregare, Gesù ci dice qual è per grazia di Dio la nostra dignità davanti a Lui: quella di figli ad immagine e somiglianza del Figlio. Gesù avrebbe potuto dirci che siamo amici di Dio, collaboratori, servi (espressione che nel linguaggio biblico non ha certo un valore negativo); avrebbe potuto utilizzare anche altre parole non certamente sconosciute al mondo di allora: schiavitù, sottomissione, sudditanza. Davanti al Creatore di ogni cosa sarebbero tutte legittime e non sarebbe strano chiamare Dio “Padrone”, “Re”, “Dominatore”. Gesù ci dice invece che noi per Dio siamo “figli” e questo è qualcosa che il cristiano non può mai dimenticare. Nel momento in cui nella sua verità più profonda l’uomo si mette davanti a Dio, egli vive l’atteggiamento del figlio verso il padre e sente su di sé l’amore del padre, amore che Gesù descriverà anche attraverso altre parabole e immagini per aiutarci a capirlo meglio; amore di un padre che già il profeta Isaia aveva intuito attraverso l’immagine materna a tutti nota: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15).

Se Dio è per noi Padre, possiamo dire che quasi spontaneamente derivano i due atteggiamenti con i quali Gesù invita i suoi discepoli a vivere la preghiera.

Rivolgendosi al Padre non si deve temere di essere invadenti, quasi sfrontati nella nostra richiesta. Sappiamo bene che non è opportuno disturbare una persona di notte, mentre dorme; ancora meno lo era nella situazione delle case di allora, stanze uniche in cui si dormiva affiancati, forse ammassati, nel buio della notte, senza energia e con la difficoltà di accendere un lume e cercare quel che è richiesto per poi aprire la porta per consegnarlo. L’immagine rende bene quello che Gesù vuole dirci: insistere nel nostro rapporto con Dio, stancarlo con la nostra richiesta, fino a che essa non trovi esaudimento, quasi per sfinimento di Dio che ci ascolta. Tremendamente umana questa descrizione del rapporto con Dio, ma anche tremendamente bella.

Accanto all’insistenza, la fiducia. Per contrasto con i padri terreni che pur essendo uomini limitati, addirittura cattivi, danno ai loro figli il meglio che possono, necessariamente Dio darà il meglio a chi si rivolge a Lui, questo meglio è il suo Spirito. Nell’insistenza invadente e nella fiducia, la preghiera si purifica e si perfeziona, trova la sua pienezza, ottiene il dono dello Spirito che la trasforma, che ci trasforma.

Senza quasi che ce ne siamo accorti, Gesù ci ha detto anche qualcosa di ulteriormente straordinario insegnandoci a pregare: la preghiera ci immette nella vita trinitaria di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, poiché ci unisce al rapporto del Figlio con il Padre, ci fa toccare l’amore del Padre verso il Figlio e ci porta e vivere l’abbraccio d’amore dello Spirito, scambio di vita fra Padre e Figlio, respiro d’amore dell’Uno all’Altro.

E poiché Gesù ci invita ad insistere nelle nostre richieste, ascoltandolo, insistiamo oggi, domani, ogni giorno, innalzando nella preghiera il nostro grido di pace per questo mondo, sempre più minacciato da nuove violenze e venti di guerra. Sia questa richiesta, fra le molte che possiamo rivolgere a Dio, quella che con familiarità, insistenza e fiducia, quotidianamente gli presentiamo.  

Francesco Cortellini


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