3 agosto 2025

Ricchi agli occhi di Dio

“Stolto”. È questo il durissimo giudizio che nella parabola raccontata da Gesù, Dio in persona rivolge all’uomo che “accumula tesori per sé e non arricchisce presso Dio”. Quest’uomo si trova nella situazione di chi deve pianificare il suo avvenire. Il suo raccolto è stato abbondante, deve gestire molti beni, per questo si organizza in modo apparentemente intelligente: amplia i suoi magazzini e progetta un futuro in cui potrà vivere di rendita per sfruttare al meglio ciò che la sorte gli ha riservato. Tra le righe del racconto, appare tuttavia un grande limite in questo progetto: quest’uomo è solo, talmente solo che l’unico interlocutore che ha è se stesso. Tutto quello che ha è suo perché non c’è nessuno nella sua vita, incerta è persino l’identità di chi erediterà tutti i suoi beni. Quest’umo è avvolto da una solitudine soffocante. Quando la vita gli sarà tolta, nessuno lo piangerà, nessuno lo ricorderà e gli sarà grato, nonostante gli ingenti beni che da lui avrà ricevuto in eredità. 

La domanda che Dio rivolge all’uomo della parabola è una domanda di senso, una domanda sapienziale: cosa resta della nostra vita nel momento in cui finisce se non c’è in essa nessuna relazione? Cosa abbiamo costruito nella nostra esistenza? Quale ricchezza abbiamo accumulato? Il racconto dell’uomo ricco pone queste e altre possibili domande a quell’uomo della folla che ha chiesto a Gesù di fare da arbitro in una contesa tra fratelli per dividere l’eredità in modo equo. Queste medesime domande sono però anche per noi.

È certamente giusta la preoccupazione di dividere correttamente l’eredità secondo le leggi e le consuetudini in uso, certamente diverse dalle nostre, in quanto sappiamo che all’epoca c’erano porzioni differenti tra il primogenito e gli altri fratelli, e ancora meno (spesso nulla) spettava alle sorelle. La parabola di Gesù chiede a quest’uomo cosa sia più giusto: l’eredità divisa equamente o il rapporto tra fratelli? Cosa è più importante? Non sappiamo di quale ingiustizia fosse vittima colui che si rivolge a Gesù, è però importante chiederci, di fronte ad un tema che non ci lascia certo indifferenti, se per un po’ di soldi in più, valga la pena perdere relazioni e legami. Vale anche per noi il richiamo a guardarci da ogni cupidigia, perché la vita non vale in base a ciò che si possiede. 

Penso sia giusto dirci che Gesù non ci invita a disprezzare i beni, quasi che siano pericoli da cui fuggire. Gesù ci mette in guardia dall’accumulo, dal possesso che soffoca le relazioni, che è a servizio solo di se stessi. Anticipando quanto ascolteremo fra qualche mese leggendo la parabola dell’amministratore disonesto, possono qui valere le parole che Gesù dirà al termine di quel racconto: “fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). 

Con la ricchezza si compera sempre qualcosa: la propria perdizione o la propria salvezza; l’accesso alle dimore della vita in compagnia degli amici o la discesa nella solitudine del vuoto in cui non c’è altro che il proprio sé.

Questo mi sembra il messaggio centrale del testo di oggi, un testo che ci aiuta a ripensare il nostro rapporto con le ricchezze terrene per chiederci se le viviamo come strumenti di bene o se da esse ci lasciamo impossessare, come idoli ai quali sacrificare tutto, persino la nostra stessa vita.

Un secondo pensiero mi fa sorgere la lettura di questa pagina di Vangelo. Mi rendo conto che può essere un po’ pretestuoso, ma corro il rischio della condivisione. 

Prima di raccontare la parabola dell’uomo ricco, senza rispondere alla domanda dell’uomo della folla, Gesù gli chiede chi lo abbia costituito giudice o mediatore sopra gli uomini (Lc 12,14). Questa domanda di Gesù fa sorgere in me l’interrogativo sui motivi per i quali ci rivolgiamo al Signore e talvolta alla comunità cristiana, con le sue strutture e i suoi mezzi. Ci ricordiamo del Signore quando siamo in difficoltà, quando la vita ci sommerge o quando abbiamo piccole questioni umane da affrontare: un colloquio di lavoro, un esame o una verifica a scuola, il desiderio che ci sia il sole nella settimana in cui andiamo in vacanza, oppure che non ci sia troppo caldo se restiamo a casa, la divisione di una eredità o l’esito di una contesa con qualcuno. Sperando che tutto vada a nostro favore ci rivolgiamo a Dio. Anche la comunità cristiana viene talvolta chiamata in causa in base ad alcuni bisogni o ad una certa nostra visione del mondo: il bisogno di una sala per una festa di compleanno o per l’assemblea condominiale, l’utilizzo del campo proprio stasera perché ci siamo organizzati per il calcetto con gli amici, il cortile dell’oratorio per far giocare i bambini all’orario che ci serve perché non possiamo tenerli in casa, la celebrazione dei Sacramenti indipendentemente dalla partecipazione ai percorsi che ad essi preparano. La domanda di Gesù potrebbe valere anche per tutte queste esigenze: non tutte sono sbagliate, non sono “male”, ma non possono essere il motivo unico per cui ci rivolgiamo alla comunità cristiana o per cui ne sentiamo il bisogno, così come non possiamo chiamare in causa Dio solo perché tutto mi vada bene. C’è una forma di ricorso a Dio e di utilizzo delle “ricchezze” pericolosa anche per noi: pensare che il criterio di giudizio sia il mio “io”, pensare che il criterio siano esclusivamente le mie esigenze e i miei bisogni. Quando parliamo di strutture delle comunità non possiamo dimenticarci il loro scopo: anche quando si tratta di strutture ricreative, servono per aiutare tutti ad incontrare Dio che si è manifestato nel suo Figlio Gesù. Come cristiani non possiamo mai dimenticarci che ogni ricchezza che possediamo è a servizio di una ricchezza più grande, l’incontro con Dio e con i fratelli, affinché anch’essi possano dire a Dio “Padre”, come ci è stato insegnato la scorsa domenica. Se perdiamo questa prospettiva, anche se le nostre parrocchie avessero tutte le ricchezze e le risorse del mondo, avrebbero perso la ricchezza più vera: l’incontro con Dio. 

 

Francesco Cortellini


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