Open Arms: era il caso di insistere?
Non sono un simpatizzante di Matteo Salvini, anzi l’omonimia mi crea qualche imbarazzo. Né penso che i profughi debbano essere rimandati nell’inferno libico che tutti conosciamo. E certi commenti di Salvini dopo le accuse per il caso Open Arms, ad esempio “Ho difeso i confini” mi sono sembrati davvero fuori luogo anche sul piano del buon gusto visto che l’ex Ministro dell’Interno non stava affrontando un pericoloso esercito nemico.
La Procura di Palermo ha presentato ricorso per Cassazione contro la sentenza del Tribunale di Palermo che ha assolto Matteo Salvini dal reato di sequestro di persona aggravato. In verità la sentenza del Tribunale, 272 pagine, era molto motivata e non ha risparmiato censure all’ex ministro. Ma il problema di fondo è un altro. Mi sembra che tutto il processo Open Arms si basi su un presupposto errato. Stare su una nave non soddisfa quella restrizione della libertà di movimento che è l’elemento costitutivo del reato di sequestro di persona. Si sequestra qualcuno quanto lo si chiude in una stanza o in una cantina, non quando rimane, anche se per giorni, sulla nave dove già si trova e da cui comunque per ragioni di necessità, ad esempio di salute, sarebbe alla fine comunque sbarcato come accaduto ai profughi anche in casi simili. Il sequestro di persona, cioè secondo il Codice penale privare qualcuno della libertà personale, è il divieto di uscire da un luogo e difficilmente può configurarsi nel semplice divieto di sbarco, per quanto sbagliato. In più sia le autorità spagnole, paese di bandiera della nave, sia la stessa Open Arms, per ragioni diverse, avevano sostanzialmente eluso, come spiega la sentenza, anche se nessuno lo ricorda, l’obbligo della Spagna di essere coinvolta subito, quando la nave era in acque internazionali, e di accogliere i migranti. Al più si può parlare per l’ex Ministro di omissione di atti d’ufficio o di omissione di soccorso, reati ormai non lontani dalla prescrizione, non di sequestro di persona aggravato che è un reato gravissimo punito sino a 15 anni di reclusione.
È difficile comunque intravedere in questa storia qualcosa che vada di là di responsabilità politiche e morali e insistere, anche con il ricorso in Cassazione, per trascinarla a tutti i costi sul piano del processo penale non è una buona scelta. Il processo Stato-mafia, pur un caso molto diverso, in questo insegna.
La politica fa poco e spesso male, si veda la vicenda dei centri in Albania, ma le Procure dovrebbero riflettere sul fatto che esondare non serve e può fare più di un danno, anche ai principi che si intendono difendere.
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