Non temete e siate pronti
Mi è difficile non lasciar risuonare in me il testo evangelico di questa domenica, senza ripensare all’esperienza vissuta alcuni giorni fa in occasione del giubileo dei giovani, al quale ho partecipato dopo aver percorso un po’ di strada con gli Scout del Clan della mia parrocchia.
L’idea che la Chiesa sia un popolo di pellegrini, i quali camminano verso la meta del Regno, che sia un popolo di discepoli, i quali seguono Gesù loro maestro, mi accompagna spesso per accettare e accogliere la precarietà e l’instabilità che la vita umana presenta, materialmente e spiritualmente. Eppure, le immagini del pellegrinaggio, della fatica del cammino, dell’attesa, dell’incertezza, della libertà dalle cose, dell’abbandono dagli ingombri che ostacolano il passo, assumono un respiro maggiore quando le si ripensa dopo averle vissute e non semplicemente sentite raccontare.
È attraverso questa prospettiva che scelgo di entrare nella raccolta di detti di Gesù che si ascolta oggi, detti che completano il suo insegnamento sull’azione, sull’ascolto, sulla preghiera e sul rapporto con le ricchezze e gli affanni che esse portano con sé. I detti tra loro diversi, sono sapientemente uniti da Luca in un discorso organico e organizzato, senza che essi perdano la possibilità di lettura e di ascolto autonomo. Per questo motivo mi soffermo solo su alcune frasi condividendo i pensieri che mi suscitano con la consapevolezza di non esaurire la ricchezza di questa bella pagina del racconto di Luca.
Il testo si apre con l’invito a “non temere”. Non temere è libertà dall’ansia del controllo, libertà dalla sicurezza di sapere, senza che ci siano incertezze e dubbi. Non temere è invito ad avere uno sguardo diverso dalla preoccupazione per il fatto di essere un “piccolo gregge”. Non temere è parola consolante che nel Vangelo secondo Luca risuona altre quattro volte (lo dice Gabriele a Zaccaria e a Maria durante le annunciazioni di cui sono destinatari, lo dice Gesù a Pietro quando lo chiama a seguirlo e ancora al padre della dodicenne per la quale viene invocata la guarigione e che sembra essere ormai morta). Non temere è espressione che oggi risuona per noi di fronte alle incertezze del futuro, alle preoccupazioni di un mondo che ci sembra essere sull’orlo di una catastrofe senza ritorno, di fronte alla complessità di cambiamenti sempre più veloci e repentini. Consolante non significa consolatoria. “Non temere” non vuol dire adagiarci, restare seduti e inoperosi perché “andrà tutto bene”. Non temere, ci dice Gesù, perché al Padre è piaciuto donarci la ricchezza del Regno, la gioia del Vangelo, l’alternativa che proviene dalla Pasqua del Signore, rispetto alle logiche del mondo. Se il cristiano non teme non è perché resta passivo e inerme, bensì perché immette nel mondo, come il pizzico di lievito o come il granello di senape, la ricchezza del Vangelo. “Pochi ma buoni” recita un proverbio: ci doni il Signore la grazia di desiderare sempre la seconda parte di questo detto, senza temere e preoccuparci della prima. Quel milione di persone che ha riempito una spianata romana otto giorni fa, non è svanito, si è disperso, come gli Apostoli dopo la Pasqua. Affinché il Vangelo raggiunga ogni uomo non ci si può fermare alle folle che stupiscono lo sguardo, è necessaria l’operosità di chi si è trovato in quella folla e porta fino ai confini della terra la scintilla di fede che in essa ha attinto, per accendere il mondo con il fuoco che viene da Dio.
Nelle sue parole Gesù ci invita anche a dare in elemosina e ad essere pronti. Penso che si possa recuperare la parabola dell’uomo ricco letta la scorsa domenica, per ricordarci che le borse che non invecchiano sono quelle che accumulano relazioni, piuttosto che quelle che si riempiono di ciò che si consuma e che è a rischio di furto. È pronto, dice Gesù, chi veglia e ha le vesti cinte ai fianchi, perché per poter camminare, oltre che essere svegli e attenti, bisogna evitare di avere troppe cose in spalla, un vestito che limiti i movimenti, la solitudine di chi non può contare su un compagno che gli sia accanto. La Chiesa è pellegrina se assomiglia a molti giovani pellegrini che hanno raggiunto Roma nei giorni scorsi, portando il necessario e lasciando a casa gli orpelli; che hanno camminato organizzati e non improvvisati, con il loro equipaggiamento essenziale; che si sono messi insieme, perché la strada percorsa da soli è più pesante che in compagnia.
Nelle sue parole Gesù ci invita inoltre ad essere responsabili, come l’amministratore che è posto a sorvegliare la casa. Responsabilità e corresponsabilità sono parole importanti in questo tempo, perché ci ricordano che la casa di Dio che è la Chiesa (cfr. 1Tm 3,15) è affare di tutti, pur nella differenza dei servizi a cui in essa siamo chiamati. Vi sono responsabilità differenti, ma non c’è chi non ne abbia. Il duro richiamo di Gesù, la domanda di Pietro, il ragionamento che l’amministratore fra tra sé (“Il mio padrone tarda a venire”) ci spingono a riconoscere che la Chiesa è una casa da amare, di cui sentirci responsabili, di cui riconoscere il cuore e il centro nella fede in Gesù, piuttosto che nelle cose terrene che potrebbero portarci ad un appagamento umano rivestito di spiritualità, vuoto e pericoloso.
Nelle sue parole, infine, Gesù ci offre una delle immagini sicuramente più inaspettate che potrebbero esserci: quando il padrone di casa tornerà, trovando i suoi servi pronti ad accoglierlo, li servirà egli stesso, condividendo la loro condizione. Dopo averci sorpresi insegnandoci a chiamare Dio con il nome di Padre, Gesù ancora ci stupisce, dicendoci che la qualità di Dio non è la sua (onni)potenza, ma il suo farsi servo per noi. Un Dio così, forse ci destabilizza rispetto alle nostre idee. Vivere da discepoli di un Dio così, tuttavia, dà una nuova stabilità al mondo e di questa logica nuova ne abbiamo davvero bisogno.
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