Il colore nell'arte e il mondo digitale/2
Molti in questi giorni mi hanno fatto giungere il loro apprezzamento per l’editoriale di settimana scorsa sul colore nell’arte, e allora cercherò di proporne una sorta di continuazione.
Dato che i fenomeni di massa sono sempre contraddittori, oggi che viviamo nell’epoca del supercolore in full HD, la pittura è diventata superminimalista: nero su nero, bianco su bianco, grigio su grigio…Un fenomeno mai visto prima nella storia millenaria dell’arte.
Il bianco e il nero non si sono praticamente mai usati per secoli. Non a caso Caravaggio, che fu un vero rivoluzionario controcorrente della pittura, usava moltissimo ed in modo magistrale il bianco nelle vesti dei suoi quadri ed il buio nei suoi sfondi. Di fatto, si iniziò ad usare il bianco e il nero nei ritratti seicenteschi degli spagnoli e dei puritani: il bacchettone, cattolico o protestante, è vestito di nero con pochissimi pizzi bianchi. Il borghese, il mercante che non ha storia ed è indaffarato a far carriera, è nero…il nobile invece è coloratissimo: i ritratti del Grand Tour o dell’Inghilterra elisabettiana sono una esplosione incontenibile di ogni tipo di cromia immaginabile in un abito, sia maschile che femminile. Le società aristocratiche e scialacquatrici sono policrome, quelle democratiche di massa sono monocrome: basti pensare agli omini di Magritte, che sono tutti senza volto ma tutti rigorosamente in abito e bombetta neri con la camicia bianca…
Il grigio? Un colore che non esiste nell’arte… perché era un non-colore. Vi sfido a trovare dei quadri grigi prima del ‘900. E se li trovate, vi lasciano immediatamente confusi: basta vedere la Visitazione di Noël Bellemare, uno dei bravissimi Manieristi di Anversa, che è un quadro del ‘500 ma dove tutto è talmente in grigio che sembra un’opera iperrealista contemporanea.
I motivi della centralità del colore nell’arte pre contemporanea sono molteplici: teologici in gran parte, ma anche sociali, perché le vesti del popolo erano povere e senza colori, la case del popolo erano povere e buie…e quindi il popolo cercava il colore come in un miraggio, tanto è vero che tutte le chiese erano piene zeppe di affreschi coloratissimi. Oggi noi visitiamo le basiliche romaniche che il tempo e i restauri hanno trasformato in templi minimalisti dell’intonaco grigio. Ma erano tutte decorate di oro, verde, blu, rosso… tanto è vero che vediamo ad Assisi negli affreschi giotteschi che le facciate dei palazzi delle città sono tutte coloratissime… L’evoluzione della pittura è evoluzione del colore che è evoluzione (o involuzione a volte) della società: si esce dall’oro bizantino e si entra nei colori giotteschi e nei verdissimi paesaggi naturalistici del Rinascimento, mentre ad esempio le icone russe, che sono sacre come reliquie, sono rimaste completamente invariate nei secoli con regole tutt’oggi rigidissime.
Pensiamo per esempio al surreale parallelo che troviamo tra l’arte giapponese e l’espressionismo astratto americano degli anni ’50: Mark Rothko arriva alla propria essenza dopo anni di figurativismo anche piuttosto banale, e ci arriva grazie alla bidimensionalità delle sue tele a due colori. Sosteneva infatti che “le forme bidimensionali distruggono l’illusione e svelano la realtà”, realtà che in lui è un colore monocromo e sfumato come lo sfondo dei pannelli e dei paraventi giapponesi dell’epoca Edo. Franz Kline, un altro dei giganti dell’arte americana di quegli anni, arriva alla sua pienezza dipingendo le ombre che le luci del suo studio proiettano sulle tele, e che sono come gli ideogrammi giapponesi neri dipinti sulla carta di riso bianca. L’isolamento perfetto senza contaminazioni che per tre secoli ha caratterizzato il Giappone feudale, ha prodotto il minimalismo, che non è altro che portare all’estremo confine della levigatura un soggetto sempre uguale a sé stesso, raggiungendone l’essenza, la perfezione… E l’America del boom degli anni ’50 era di fatto un paese talmente potente e influente sulla cultura e la società mondiali da essere ermeticamente chiuso nella propria occidentalità, come lo era il Giappone Edo nella propria orientalità.
E il tema del colore, o del bianco nero, è centrale anche nella rappresentazione distorta che il mondo digitale sempre più ne offre.
Prendiamo per esempio l’Immacolata Concezione di Guido Reni del 1627, un capolavoro assoluto del grande maestro bolognese e che è l’apice di questo tipo di raffigurazione mariana seicentesca. Essa è al contempo il modello cromatico e di composizione mariana che è durata praticamente fino al ‘900. Fu venduta ad un’asta di Christies’ per sei ghinee d’oro alla fine degli anni ’40…poche centinaia di euro, una cifra ridicola. Ebbene, si trova oggi nientemeno che al Metropolitan di New York: provate a cercala in internet e ne vedrete decine di immagini, tutte di colori diversi, dal fucsia pop al rosa slavato… Qual’è la vera Immacolata? L’immagine esatta dovrebbe essere quella del sito dello stesso Metropolitan: ebbene perfino lì troverete due immagini dello stesso quadro con colori differenti. Quindi, se volete vedere il vero quadro, i suoi reali colori, dovete andare per forza a New York.
E’ un banale esempio che ci serve per affrontare un tema di assoluta attualità: l’originale e la sua riproduzione digitale. Fino all’avvento dell’era internettiana, per decenni gli esperti, assolutamente consci degli errori che le fotoriproduzioni potevano generare, hanno usato spesso foto in bianco e nero, e quasi solo prodotte delle case editrici fiorentine che fin dall’800 si erano specializzate in questo ambito: la Alinari, che ha uno straordinario archivio di oltre 5 milioni di fotografie ( https://www.alinari.it/it/patrimonio ) e la Brogi. In un saggio sul tema, Nicola Gronchi scrive che “per la riproduzione fotografica delle opere d’arte è richiesta una conoscenza approfondita della storia dell’arte”. Credete forse che oggi ci sia tutta questa attenzione nei milioni di fotografie sparse per la rete da chiunque? No, non c’è nessun criterio. Quindi, o per decenni gli esperti sono stati degli sciocchi, oppure noi siamo completamente fuori strada.
Si apre sempre più col digitale l’urgenza di riproporre la fedeltà della riproduzione, e soprattutto la centralità dell’originale. Esattamente come accade con le “fake news”…non c’è più nessun controllo sulla fedeltà all’originale, tanto nell’arte quanto nei fatti storici, e perfino nella medicina e nella scienza. Possediamo tecnologie incredibili che invece di essere al servizio del patrimonio ne diventano le peggiori nemiche proprio per la massificazione banale del loro utilizzo….la tecnologia senza coscienza, e soprattutto senza filtri.
Dovrebbero, i giganti del web, inserire dei filtri esattamente come accade per quando si compera qualcosa: immagini verificate in base all’origine del produttore e immagini non verificate etc...
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
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