Il rinnovamento che porta frutto nella nostra vita
Quanto oggi ascoltiamo dal brano di Vangelo si può ricondurre ad uno schema di insegnamento: a partire dal richiamo di due situazioni di vita specifiche, viene aggiunta una parabola il cui scopo è quello di illuminare il senso più profondo dei fatti stessi.
Per quanto riguarda i due eventi, uno comunicato a Gesù, l’altro da lui richiamato, non sappiamo se si tratti di fatti storici o leggendari. Mentre della strage dei galilei si ipotizza un riferimento a qualcosa di accaduto, del crollo della torre di Siloe non si hanno notizie, per cui potrebbe essere semplicemente un racconto, quella che oggi si direbbe una “bufala”. Resta, tuttavia, la drammaticità dei fatti raccontati, anche se non fossero accaduti. Di fronte alle stragi provocate dall’uomo o fatalistiche, quando qualcuno muore e qualcuno si salva, quando si sa che sarebbe bastata una manciata di secondi perché “al loro posto avrei potuto esserci io”, ci si interroga sul “perché”.
La domanda che ci si fa, tra le righe, ipotizza una condanna da parte di Dio, o più laicamente del “fato”, verso chi ha ricevuto il male e un’assoluzione indiretta verso gli altri che dal male sono risparmiati o solo sfiorati.
Si tratta di una tentazione pericolosa che Gesù condanna con una minaccia assai dura: “la stessa sorte di quelli che voi giudicate cattivi sarà anche per voi, se non vi convertirete”.
Consegnandoci queste parole di Gesù, Luca ci tiene a ricordare che tutti siamo peccatori. Forse qualcuno lo è di più, ma nessuno non lo è affatto. Il suo racconto evangelico è costellato di richiami affinché il suo lettore assuma questa consapevolezza.
A partire da questa prospettiva, le morti, reali o solo raccontate, di quei galilei o dei malcapitati finiti sotto la torre caduta, non dicono condanna, ma costituiscono un richiamo. Quella tragedia umana ricorda che davanti a Dio è possibile qualcosa di peggiore, quando con le proprie scelte si lascia che si accanisca contro di noi la spada del peccato o che ci precipiti addosso, con la sua pesantezza, la torre del male costruito con le nostre azioni.
Il fatto che suscita scalpore non deve portare alla condanna di chi è morto, perché “se gli è capitato ci sarà un motivo”, ma alla consapevolezza che ben di peggio accade alla creatura umana che da Dio si stacca e si allontana; ben di peggio accade a chi non si converte.
La parola profetica di Gesù che fin qui è stata di minaccia, si apre ad uno sguardo differente attraverso il racconto della parabola del fico. A quanti pensano che l’agire di Dio sia quello di abbattere senza pietà gli alberi che non portano frutto, come detto da Giovanni Battista nella sua predicazione (cfr. Lc 3,9), o di volerlo fare per quelli il cui frutto è cattivo come potrebbe apparire dalle parole di Gesù nel suo discorso iniziato con le beatitudini (cfr. Lc 6,43-44), Gesù propone una immagine di Dio alquanto differente.
Una interpretazione possibile della parabola è quella che fa del proprietario della vigna Dio Padre e del contadino che vi lavora il Figlio, così che uno rappresenta la giustizia e l’altro la misericordia. A me piace di più vedere nelle due figure la stessa persona sdoppiata che parla tra sé e si dice che ormai non ci sarebbe più niente da fare, poiché tre anni indicano che la misura della pazienza è colma, ma che, per un desiderio profondo che esprime la sua natura, ci prova ancora, non si stanca di dare un’altra possibilità. Stavolta, però, non semplicemente attendendo, ma mettendoci il proprio impegno: zappando intorno e concimando il fico ormai da tempo privo di frutti. Solo dopo averci provato ancora, si potrà e forse si dovrà decidere per un’azione definitiva.
In questa prospettiva la pagina di Vangelo nel suo insieme sa parlare a tante situazioni umane ordinarie, offrendoci un invito a fare del nostro meglio per imparare a non giudicare con superficialità la vita degli altri e per aiutare l’altro a cambiare, riconoscendo che la sua libertà, come la nostra, rimane sempre rispettata da Dio e da rispettare da ciascuno, anche se la si vede andare in una direzione giudicata errata.
Ancora una volta le parole di Gesù non ci offrono una ricetta da applicare, ma uno schema attraverso il quale rileggere noi stessi e dare una direzione al nostro agire: per chiederci se vogliamo convertirci e cambiare quanto in noi è sbagliato; per vedere se verso coloro che riteniamo infruttuosi abbiamo fatto tutto il necessario; anche per prendere atto, alla fine di tutto, che l’infruttuosità è restata al di là di ogni tentativo provato.
Per addolcirmi il cuore, di fronte alla possibilità che il fico resti infruttuoso, mi lascio andare ad un’ultima riflessione: fortunatamente a nessuno di noi spetta il compito di tagliarlo. Per questo, nei rapporti con le persone, anche quando le si è provate tutte senza successo, si può comunque ancora aspettare e pregare, pellegrinando nella speranza che là dove non arriva l’agire dell’uomo, a toccare il cuore, possa giungere l’azione di Dio, alla quale consegnare colui o colei che ai miei occhi continua a restare infruttuoso.
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