Prendere le distanze dal "fare" fine a sé stesso
“Conosci te stesso” era scritto a caratteri cubitali sul frontone del tempio di Delfi (insieme con l’invito alla moderazione, espresso nel motto “nulla di eccessivo”): in questo modo l’oracolo di Apollo rivolgeva all’uomo di allora – e certamente di ogni tempo - l’invito a indagare dentro di sé, per scoprire che l’essenza della vita è dentro, non al di fuori della propria coscienza.
Conoscere sé stessi consente di tenere sempre il timone a dritta e di frenare - non certo di reprimere - le tempeste del cuore, le sofferenze dell’anima, i tumulti dei sentimenti e delle passioni, le intemperanze della ragione. Un uomo che non ha cura della propria interiorità, che non a ben chiaro quali sono i suoi limiti e le sue potenzialità, che non sa gestire i moti interiori è continuamente in balia degli eventi, trascinato da chi urla o seduce di più, ammaliato dalle tante voci suadenti di un mondo cinico e menzognero, abbagliato unicamente da un fare che inaridisce, che illude di poter dominare la realtà e che spesso rende superficiali, arroganti, presuntuosi.
Uno dei mali che affligge il nostro vivere è la superficialità con la quale si affronta il presente e le relazioni umani. Essa, sostanzialmente, è frutto di una “non interiorizzazione” del reale: si vive a pelo d’acqua, senza domandarsi per cosa si sta lottando, quali mete desiderare seriamente, quale felicità rincorrere, quale spessore e qualità hanno i rapporti instaurati con le persone. Forse, oggi, ci si accontenta troppo: di un amore che può finire da un momento all’altro, di amicizie che valgono il tempo di una pizza o di una gita fuori porta, di una preparazione finalizzata unicamente a svolgere un lavoro retribuito, di una esistenza vissuta solo in alcuni momenti e che per il resto del tempo è trascinata in maniera svogliata se non arrabbiata.
Ci si accontenta, ma poi, quando il cuore reclama altro – l’uomo è fatto di Cielo e tende a inebriarsi solo di ciò che profuma di infinito – ci si rifugia in surrogati artificiali: una sessualità sfrenata, un narcisismo esasperato, un consumismo vorace, una patologica dipendenza da alcool e droghe, il lavoro come valore assoluto e totalizzante. Surrogati che, inevitabilmente, conducono l’uomo ancora più lontano da sé stesso tanto da non essere più in grado di controllare le proprie pulsioni e i propri istinti e di non essere più capace di vedere nell’altro il volto del proprio prossimo, bensì una preda da conquistare, un utensile da utilizzare, un intralcio da evitare.
La superficialità si esprime soprattutto nel primato del fare sull’essere, dell’operare sul considerare, delle mani sulla mente. Tale primato conduce a due atteggiamenti pericolosi: una continua agitazione che imbriglia il pensiero dell’uomo unicamente sui suoi obiettivi senza domandarsi se ciò che fa è realmente salutare, senza chiedersi se quanto produce migliora il suo rapporto con sé stesso, con il prossimo, con il mondo; il rischio è non cercare quelle motivazioni profonde che appagano davvero il cuore e, quindi, di rimanere fragili e deboli continuamente in balia dei risultati del proprio lavoro: e se le cose vanno male? Il secondo atteggiamento è la tracotanza: uno che fa e che magari ottiene risultati importanti cova nel cuore l’idea di essere il fautore assoluto del proprio destino; il rischio è quello di non aver bisogno di Dio e degli altri e di presumere di potersi salvare da solo: e quando tutto sembra crollare?
Per questi motivi Gesù, dopo che i suoi discepoli sono stati impegnati a predicare il Vangelo, a scacciare i demoni e a guarire i malati, comanda loro di andare in disparte in un luogo deserto, a riposare un poco. Egli desidera che, in un certo qual modo, i dodici prendano le distanze da tutto ciò che hanno compiuto proprio per non venir risucchiati dalla frenesia delle cose da fare che prosciuga il cuore, che rende nervosi e arroganti e che lusinga così tanto da illudere di essere gli unici protagonisti della scena. Prendere le distanze dal fare significa darsi tempo per interrogare il proprio cuore e capire ciò che davvero rende felici, appagati, realizzati. Prendere le distanze dal fare significa riconoscere che si vale non tanto per i risultati che si conseguono, ma per l’amore che si riesce a donare e a ricevere, significa trovare il tempo di guardare chi ci sta davanti negli occhi per comprendere i suoi bisogni, le sue gioie e le sue sofferenze, i suoi desideri più intimi. Prendere le distanze dal fare vuol dire coltivare quelle passioni che non hanno una utilità immediata ma che arricchiscono così tanto l’animo da permettere di considerare la vita con più profondità e sapienza. In ultima analisi significa riconoscere che ciò che conta è solo ciò che resta per l’eternità e che l’unico indispensabile per dare senso e colore alla vita è Dio. Solo Lui!
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti