Da Pierino a Pierino, Da Favalli a Baffi, anzi ai Baffi perché? quella dei Baffi è un’intera dinastia di corridori da Vailate: tutti in bici, a partire dal capostipite Pierino, sino agli ultimi, i nipoti Piero e Stefano passando, naturalmente, per Adriano, figlio di Pierino e papà di Piero, oltre che zio di Stefano.
Pierino, purtroppo, è venuto a mancare ancor giovane: non ha potuto assistere alle vittorie di Adriano, di Piero e Stefano, com’è capitato a Nonna Giusta, ed essere prodigo di consigli per loro mettendo a frutto la grande esperienza accumulata in una carriera lunghissima al fianco di tutti i grandi campioni del suo tempo.
Pierino è venuto a mancare il 27 marzo del 1986, all’ospedale di Bergamo. Aveva solo 54 anni. Un collasso circolatorio, avvenuto in seguito ad un intervento chirurgico, lo ha strappato a tutto ciò che aveva amato nella vita, la famiglia ed il ciclismo.
Nato a Vailate il 15 settembre del 1930 (curiosamente lo stesso giorno di Fausto Coppi), Pierino ha iniziato a gareggiare coi colori della Unione Ciclistica Cremasca: già da dilettante s’era accaparrato, grazie al suo spunto veloce, una belle serie di vittorie, ma purtroppo nessuna classica che lo potesse segnalare all’attenzione dei tecnici delle squadre nazionali: possedeva, oltre alle evidenti doti di velocista, anche una netta propensione ad attaccare sempre, sostenuto da una prestanza fisica che gli consentiva di reggere a lungo ritmi elevati.
Credeva fortemente in stesso e volle tentare la carta del professionismo, da indipendente come si poteva fare allora, senza una squadra che lo sostenesse: una condizione, però, che durò pochissimo, sino al giorno in cui Fiorenzo Magni lo notò in corsa e lo volle immediatamente con se. Era il 1953 e, alla corte del campione toscano rimase per tre annate, prima di passare con Gastone Nencini.
Gregario, ma gregario di lusso, spesso con licenza di vincere. Capace di ottenere successi di prestigio e di costituire, in ogni istante, il fulcro della formazione, l’uomo di riferimento dell’intera squadra e spesso, non solo in corsa.
Era dotato di uno scatto possente capace di render dura la vita anche ai maggiori velocisti dell’epoca: gente come Poblet, Darrigade, Van Steenbergen, ma anche di imprese solitarie che esaltarono soprattutto il pubblico francese.
Proprio il Tour, infatti, era la sua corsa preferita, quella in cui ottenne i maggiori successi. Gli piaceva la fatica: facevano per lui le corse più lunghe,più dure, sia che imperversassero il freddo e la pioggia, sia quando il sole sembrava poter sciogliere l’asfalto.
Allora si esaltava ed era capace di compiere imprese passate alla storia, come quella di Bordeaux nel 1957, quando se ne andò in fuga poco dopo la partenza e giunse al traguardo con 21’48” di vantaggio sul gruppo regolato dal velocista francese Andre Darrigade (Campione del mondo nel 1959). Darrigade, che era nato nei pressi di Bordeaux, aveva sognato quel traguardo fin da ragazzo, ma che sembrava stregato per la sua ruota. Fece il possibile per spronare il gruppo all’inseguimento, ma alla fine fu costretto ad inchinarsi.
«E’ la prima volta che faccio un elogio al vincitore - disse dopo l’arrivo - perché vi assicuro che non siamo andati a spasso».
In effetti, Pierino aveva percorso, in fuga, oltre 130 chilometri alla media dei 39 orari, una delle imprese che ancora sono nella storia del Tour. Da quel giorno trascorsero sette anni perché Darrigade riuscisse ad imporsi a Bordeaux. Era la 22ª tappa del Tour e fu la sua ultima vittoria in carriera.
Andando indietro nel tempo, ai primordi del Tour, esattamente il 18 luglio 1896 il francese René Pottier (che quella corsa avrebbe vinto) s’era imposto nella terza tappa, Nancy-Digione con 47’52”di vantaggio sul connazionale George Passerier e oggi rimane ancora imbattuto quel primato, ma erano tempi da pionieri, quando le tappe misuravano anche 4oo chilometri e si stava in sella per intere giornate.
Se si guarda, invece, ai tempi moderni, il record appartiene allo spagnolo Josè Louis Viejo che il 7 luglio 1986 vinse la Monginevro-Manosque staccando l’olandese Gerben Karstens di ben 22’50”.
Baffi in quel 17 luglio del 1957 gli andò molto vicino screpolandosi ben 130 dei 194 chilometri che prevedeva la frazione in tutta solitudine
Il Tour, dunque, fu il grande teatro di Pierino. Allora lo si correva con squadre nazionali e vi approdò per la prima volta nel 1957, ma subito con grande impatto. Alfredo Binda, Commissario Tecnico della nazionale, lo aveva notato in un paio di tappe al Giro d’Italia e gli spalancò le porte della squadra azzurra.
Pierino lo ricompensò con una condotta di gara generosissima. Era deputato al servizio di Gastone Nencini, ma appena ebbe un attimo di libertà dai suoi compiti di gregariato, andò a vincere in volata l’8ª tappa, la Colmar-Besancon.
Dieci giorni dopo, compì quel capolavoro che tutti in Francia ancora ricordano andando solo da Pau a Bordeaux.
Il 1958 fu la sua migliore annata stabilendo un vero record che solo due ruote veloci come Miguel Poblet e Alessandro Petacchi trent’anni dopo, hanno saputo eguagliare, quello di vincere almeno una tappa in ognuna delle tre grandi corse europee: Vuelta, Tour e Giro, in una sola stagione.
La stagione era iniziata trionfalmente già a San Daniele Po, in un Circuito degli Assi che si disputava il 1 Aprile: lo aveva vinto, applauditissimo dai tifosi cremonesi, davanti a Nencini, Messina, Fabbri, Coppi e Maule. Allora i circuiti nei paesi erano frequenti e in uno di questi nel ’54 a Cremona (Gp Paganini) aveva vinto per la prima volta tra i professionisti, quindi s’era imposto l’anno seguente ancora a Rivarolo, a Livraga, a Bergamo e a Busto.
Al Giro fu sua la tappa di San Benedetto del Tronto; in Spagna primo nella Pamplona - Saragozza e nella Santander - Gijon, ma esplose letteralmente al Tour con tre successi di tappa tutti da ricordare nella storia della Grand Boucle.
A Beziers, ove l’arrivo si disputava su una pista in terra battuta difficilissima da interpretare, si presentò al traguardo insieme al francese Dacquay. Appena iniziato lo sprint a due, il francese cadde malamente e il pubblico fischiò il successo di Pierino, fino a quando il francese ripresosi, dichiarò al pubblico di esser caduto da solo.
Una settimana più tardi, a Royan affrontò il viale d’arrivo in compagnia di altri 18 corridori e non ebbe difficoltà a regolare tutti in volata, ma il suo capolavoro fu nell’ultima tappa, quella che si concludeva al Parco dei Principi. Era la più lunga del Tour, 330 chilometri e Pierino, che aveva fino a quel momento scortato Favero, secondo in classifica alle spalle di Charly Gaul, colse il suo terzo trionfo in quel Tour. E tutti sanno quanto valga per i francesi vincere l’ultima tappa del Giro di Francia.
L’ultima frazione che si aggiudicò in un grande Giro, fu quella di Bari nel 1963, ma in mezzo c’erano state altre vittorie importanti come la Milano-Mantova, il Giro dell’Emilia, il Trofeo Fenaroli, il Matteotti (due volte), la Coppa Bernocchi, il Criterium di Lussemburgo.
Chiuse la carriera agonistica dopo il Giro d’Italia del 1965, il suo undicesimo consecutivo. La prima tappa al Giro l’aveva vinta nel 1956, la Milano-Alessandria arrivando al traguardo insieme a Gianni Ferlenghi, amico ed avversario da sempre, indossando anche per un paio di giorni la maglia rosa.
Al Tour de France si presentò per sei volte senza un solo ritiro e la maglia azzurra, la indossò, oltre che al Tour, in tre campionati del mondo: nel ’56 a Copenaghen, nel 57 a Waregem, nel ’62 a Salò.
Un giudizio su di lui lo diede il suo ultimo direttore sportivo, Luciano Pezzi: «Era una persona pratica, ma di grande generosità. Proprio per questo, ha vinto meno di quello che poteva vincere. Lo ricordo per il suo largo sorriso, non molto frequente e per quei segni di sofferenza provenienti dalla fatica di questo sport, ma anche dalla consapevolezza che la vita non ti regala niente se non meriti».
Giudizio azzeccato perché Pierino ha lasciato un vuoto incolmabile nel ciclismo italiano.
La sua figura di lottatore indomito, la immensa generosità in gara e nella vita, quella capacità di interpretare il ciclismo nel modo più corretto, la passione per addestrare i giovani sopravvenuta dopo il ritiro dalle corse, lo avevano reso una delle persone più amate nel mondo delle due ruote e il suo esempio, seguito dal figlio Adriano e poi anche dai nipoti Stefano e Piero resta un momento fondamentale nella storia del ciclismo cremonese.
Quando chiuse la carriera, agonistica, nel 1955, a 35 anni, poteva vantare un curriculum ricco di ben 64 vittorie, 23 delle quali in tappe delle grandi corse: niente male, a dire il vero, per un corridore che, soprattutto nelle corse a tappe e in Nazionale, aveva sempre avuto compiti di gregariato, anche se, ogni tanto, con licenza di provare a vincere.
Un uomo della sua esperienza, con all’attivo undici partecipazioni al Giro d’Italia, sei al Tour, quattro alla Vuelta e tre Campionati del Mondo, tutti portati a termine, e con la sua passione per lo sport, non poteva mettersi in pantofole, ma pose tutta la sua esperienza a disposizione di alcune formazioni dilettantistiche, ma il destino, purtroppo non gli concesse molto tempo.
A Pierino è dedicato il Velodromo di Crema, quello in cui il figlio Adriano e i nipoti sono cresciuti ed hanno colto importanti vittorie.
Adriano, appunto, il ragazzo che Pierino più di ogni altro avrebbe sicuramente voluto allenare e che aveva e impostato e seguito in bicicletta sin da quando, insieme al fratello Rosario, aveva dato le prime pedalate nel cortile di casa. Rosario, però, s’era fermato abbastanza presto mentre Adriano qualche vittoria, anche di una certa importanza, già l’aveva colta quando, in quello stesso anno in cui Pierino se n’era andato, aveva deciso di tentare la carta del professionismo.
Giorgio Vannucci, che guidava l’Ariostea lo accolse nelle sue file guardando forse più al nome e alle raccomandazioni degli amici che all’effettivo valore del giovanotto che, comunque non lo avrebbe deluso anche se gli inizi furono naturalmente abbastanza difficili. Adriano non sembrava possedere doti particolare, ma lo animavano una ferrea volonta ed uno spirito di sacrificio fuori dell’ordinario, oltre ad una serietà di comportamento, in ogni momento della vita, sicuramente pari a quella del padre.
Ci vollero, infatti, un paio di stagioni perché arrivasse il primo successo, al Giro dell’Etna, nella primavera del 1987, ma nel frattempo era passato, e vi sarebbe rimasto per tre stagioni, alla Gis Gelati capitanata da Francesco Moser e guidata in ammiraglia da suo fratello Enzo.
Ai Moser successe Valdemaro Bartolozzi alla guida della squadra: Vandervelde ne era il capitano.
La maturazione del giovane Baffi era lenta, ma costante dovuta alla contribua applicazione e alla voglia si emergere ad ogni costo. Finalmente, nel 1988, arrivarono i primi risultati veramente positivi: una tappa al Giro di Puglia, la Milano-Vignola, due frazioni alla Tirreno-Adriatico, il Giro di Campania.
Adriano nel frattempo s’era pure dedicato alla pista e anche qui il suo rendimento andava sensibilmente migliorando tanto da riuscire ad imporsi, in coppia con Bincoletto, nella Sei Giorni di Zurigo, una vittoria che i due avrebbero ripetuto anche l’anno successivo dopo che, su strada, aveva fatto il bis alla Milano-Vignola, vinto due tappe alla Tre giorni di La Panne e il Giro della Provincia di Reggio Calabria.
Nel frattempo, sempre in pista, aveva indossato per tre anni consecutivi la maglia tricolore nella corsa a punti ed ai mondiali di Gand del 1988 aveva sfiorato il titolo mondiale guadagnando comunque la medaglia d’argento alle spalle della meteora svizzera Daniel Waider e interrompendo, per un anno, la supremazia del fenomenale Urs Freuler che durava da ben sette edizioni dei mondiali.
In sella per ben 17 stagioni da professionista, Adriano ha chiuso la carriera agonistica nel 2002 correndo le ultime stagioni quasi esclusivamente in pista e facendo comunque da chioccia ai giovani compagni di squadra. Momenti belli e brutti ne ha vissuto tanti in carriera, ma la sua determinazione e forza d’animo, la certosina cura della preparazione e dell’allenamento ne hanno fatto sempre un modello da seguire, capace, proprio per questo, di arrivare ai quarant’anni in piena efficienza.
Il suo palmares è lunghissimo con una quarantina di vittorie su strada, naturalmente quasi tutte in volata, ma già tra i dilettanti s’era messo in mostra vincendo i suoi primi titoli tricolori in pista. Tante le squadre di cui ha vestito le maglie: Ariostea, Gisa Gelati. Mercatone Uno, Mapei, Postal Service.
Nei caroselli delle Sei Giorni corse e vinse sui tondini di tutto il mondo (una quindicina quelle vinte), da Gand a Noumea, da Berlino a Grenoble, ha avuto come compagni quasi tutti i più forti specialisti del suo tempo, da Danny Clark a Pierangelo Bincoletto, da Giovanni Lombardi ad Andrea Kappes, da Marco Villa ad Andrea Collinelli. Nelle tante volate disputate nelle gare su strada, ha avuto avversari come Mario Bontempi e Mario Cipollini e proprio al nome del grande velocista toscano è legato uno dei momenti meno felici della sua carriera.
Seconda tappa della Vuelta: arrivo a Salamanca: Adriano nella stessa squadra, la Mercature Uno, di Mario Cipollini, I patti, alla partenza, erano chiari: Adriano era in corsa per la maglia di leader, Cipollini avrebbe dovuto lavorare per lui. ma si sa, quando un velocista vede il traguardo, è difficile trattenerlo e così una volata che doveva essere tranquilla, con Baffi che a cinquanta metri dal traguardo era nettamente in testa, si trasformò in una volata sporca, una sfida fratricida. Baffi, in testa. pregustava la tredicesima vittoria stagionale quando Cipollini riuscì ad affiancarlo.
Baffi sente la presenza di un avversario, probabilmente non s’accorge che si tratta del compagno di squadra, stringe leggermente sulla sinistra per difendere la posizione, ma i due si incrociano coi gomiti Cipollini (senza casco) ha la peggio e quando trova un bidone pubblicitario che gli sbarra la strada,finisce paurosamente a terra battendo la testa sull’asfalto. Rimbalza due tre volte sull’a strada, poi rimane esanime a terra e riportando un trauma cranico che lo costringerà al ritiro. Fortunatamente gli esami radiografici non rileveranno danni importanti, ma il velocista toscano è costretto al ritiro
Per Adriano, invece, la squalifica da parte della giuria e il declassamento in ultima posizione proprio quando avrebbe potuto indossare la maglia di leader della classifica, ma vale la considerazione che Cipollini, probabilmente, avrebbe dovuto evitare di mettere in pericolo se stesso e Adriano, suo compagno di squadra, che stava vincendo la corsa.
Una piccola macchia in una lunghissima carriera improntata alla correttezza e alla sportività che comunque fu piena di soddisfazioni e di vittorie. Di queste sicuramente quella colta nella decima tappa del Giro la Cuneo-Lodi che si concludeva proprio a due passi da casa, ma valgono tanto anche i due terzi posti conquistati alla Milano-Sanremo, nel 1989 alle spalle di Fignon e Maasen vincendo la volata del gruppo e cinque anni più tardi dietro Furlan, che aveva sorpreso il plotone andandosene sul Poggio proprio davanti alla moglie che per l’emozione sveniva e veniva trasportata in ospedale, e di Cipollini, ma anche la pista non gli è stata avara di soddisfazioni e il mondo delle Sei Giorni lo ha visto tra i più vincenti e più apprezzati nell’ultimo decennio del secolo scorso con una quindicina di vittorie e tantissimi piazzamenti, oltre, naturalmente, ai cinque titoli italiani, tre nella corsa a punti e due nell’americana e l’argento mondiale nella corsa a punti nel 1988. Ai titoli vanno aggiunte le cinque vittorie di tappa al Giro e la classifica a punti nell’edizione del 1993
Chiusa la carriera agonistica, non ha lasciato il mondo delle due ruote: la sua vastissima esperienza gli ha permesso di mettersi immediatamente al servizio dei più giovani, prima con la Federazione Italiana che gli ha affidato il settore della pista, poi con alcune delle formazioni più importanti come Phonak, Astana, Leopard Trek.
La saga dei Baffi non si chiude con Adriano. Già quando la sua carriera agonistica era agli sgoccioli, s’allenava, pur non gareggiando il figlio Piero, orgoglioso di raccontare agli amici che spesso Piero riusciva a batterlo in volata. Scese nell’arengo appena compiuti i diciotto anni. Non possedeva, probabilmente, le grandi qualità del papà e del nonno, ma qualche buon risultato l’ha pure ottenuto soprattutto in pista e, fin dalla categoria juniores, ha avuto la soddisfazione di vestire la maglia azzurra ai Campionati Europei di San Pietroburgo e di Anadia, poi nel 2012 il passaggio al professionismo con la squadra di papà e la partecipazione al Giro di Cina che lo ha visto chiudere in decima posizione e al Giro del Portogallo, ma poi è arrivata la decisione di riprendere gli studi ed eccolo oggi, sempre nel mondo del ciclismo come fisioterapista alla Sky, la squadra per la quale ha corso per tre anni da professionista. Ma la saga della famiglia Baffi non finisce con Piero: è arrivato anche Stefano, figlio di Rosario, fratello di Adriano e subito s’è guadagnato un titolo italiano in pista correndo coi colori del Club Ciclistico Cremonese 1891. Da Under 23 veste la maglia prestigiosa della Colpack ed è guidato da Ivan Quaranta che lo segue sin da quando ha mosso i primi passi sulla pista cremasca intitolata a Nonno Pierino.
commenti