25 luglio 2021

Dickens a Cremona: nebbia, fango e miseria

E' una mattina fredda e umida di novembre quando un giovane scrittore inglese nel pieno del successo, accompagnato dalla giovane moglie, da uno stuolo di marmocchi, due governanti e un servitore di fiducia un po' factotum, percorre con la sua carrozza un traballante ponte di chiatte sul Po. Guarda con sguardo curioso ed accigliato l'acqua limacciosa e Cremona che emerge dalla nebbia autunnale. Si è riempito gli occhi nella bellezza di Venezia, ma quel viaggio tra acquitrini e strade fangose, locande sperdute nella campagna, e bambini cenciosi che ti circondano supplicanti per qualche moneta ad ogni sosta, grassi osti con logori grembiuli e donne precocemente invecchiate dalla fatica, gli sta mostrando quella faccia di un'Italia che nessuno gli ha mai raccontato. Osserva, sballottato dalla carrozza, e scrive qualche nota su un taccuino. Racconterà poi tutto, con dovizia di particolari, nelle lettere che trascriverà in bella copia la sera all'amico scrittore Douglas William Jerrold ed al critico letterario John Forster, che sarebbe diventato poi il suo biografo. Le lettere verranno poi pubblicate nel 1846 col titolo Pictures from Italy.

Charles Dickens ha trentadue anni ed è uno scrittore già molto popolare: al suo attivo può contare Oliver Twist, Il Circolo Pickwick, Nicholas Nickleby, La bottega dell’antiquario,  Barnaby Roudge. Sta scrivendo e pubblicando a puntate il Martin Chuzzlewit che però non sta ottenendo il successo di pubblico che si aspettava e che risulta notevolmente inferiore a quello ottenuto dalle sue precedenti opere. Giovane e famoso, Dickens ha anche raggiunto una condizione economica più che agiata ma è continuamente assillato da richieste di denaro da parte del padre, si trova in periodo di impasse creativo, è stressato. Spera, con questo viaggio, di recuperare tranquillità ed ispirazione. Dickens viaggia con la moglie Catherine Hogard ed i loro cinque figli: Charles, di 7 anni, Mary, di 6, Kate, di 5, Walter di 3 anni ed il piccolo Francis Jeffery che non ha ancora compiuto un anno. Lo accompagnano anche due babysitter e il suo servitore tuttofare Louis Roche.

Il 16 luglio 1844 la carovana Dickens sbarca a Genova. Il soggiorno di un anno è punteggiato dalle 130 lettere conservate nella Pilgrim Collection che Charles scrive all'amico e agente John Forster, al contabile Thomas Mitton, al Conte d'Orsay, all'artista Clarkson Stanfield, al banchiere Emile De La Rue. Proprio al conte d'Orsay aveva sommariamente descritto le sue intenzioni: “Ho riflettuto a lungo sul da farsi e penso che starò tranquillo fino a quando non avrò terminato il mio libro di Natale, cioè, all’incirca, fino a metà ottobre. In novembre credo che mi muoverò con il mio servitore per Verona, Mantova, Milano, Torino, Venezia, Firenze, Pisa, Livorno, ecc. Tornerò per Natale, e resterò qui fino a tutto gennaio. A febbraio penso che mi rimetterò in moto e prendendo il vapore per Civitavecchia andrò a Roma, da Roma a Napoli e da Napoli all’Etna, che desidero moltissimo vedere. Quindi mi propongo di fare ritorno a Napoli per poi rientrare a Genova direttamente con il vapore. Per la settimana di Pasqua ho in mente di tornare a Roma di nuovo, portando con me mia moglie e sua sorella, questa volta”. Genova colpisce Dickens per “l’inesplicabile sudiciume”, “lo sporco scoraggiante”, i vicoli strettissimi, il disordine dappertutto, le puzze, anche se in quel periodo è una delle città più pulite d'Italia. Affitta poi una casa ad Abaro in cui soggiorna parecchi mesi ed anche qui le note parlano di rovina e trascuratezza. In viaggio per Bologna passa per la “scura, decadente, vecchia Piacenza”, piena di erbacce sporcizia e pigrizia e da Parma.

E' in questo tratto del viaggio che si inserisce la tappa a Cremona. Dickens attraversa la pianura compresa tra Mantova e Cremona, per poi andare a Lodi ed in seguito a Milano. Il viaggio è duro e faticoso e così lo descrive in un reportage sul quotidiano londinese Daily News. Dopo aver lasciato Mantova, “alle sei di mattina eravamo già in cammino. I campanelli attaccati ai finimenti dei cavalli tintinnavano al buio entro la fredda umida nebbia che copriva la città..." La strada per Milano passa per Bozzolo “minuscolo stato indipendente un tempo e ora tra le città più squallide e afflitte dalla miseria. Qui il padrone della locanda stava distribuendo monetine di rame a un clamoroso stuolo di donne e di bambini dagli abiti cenciosi che svolazzavano al vento e alla pioggia fuori la porta, dov'erano raccolti per ricevere la carità”. Poi “La strada continuò ad allungarsi tutto quel giorno e il successivo in mezzo alla nebbia, al fango, alla pioggia tra vigne basse. Il primo luogo in cui si poté dormire fu Cremona, memorabile per le cupe chiese di mattoni e l’altissima torre, il Torrazzo, a non dir nulla dei violini che certo non produce più in questi tempi degeneri. Il secondo fu Lodi. Proseguimmo attraverso altro fango, nebbia, pioggia, acquitrini; passammo in mezzo a un nebbione quale gli Inglesi, irriducibilmente convinti di avere l'esclusiva di malanni particolari, non riescono a credere si possa trovare fuori Inghilterra, finchè non imboccammo la strada a lastrico per Milano. La nebbia qui era così fitta che il pinnacolo del famosissimo Duomo, per quel che si riusciva a scorgerne, poteva anche trovarsi a Bombay. Ma siccome allora ci fermammo solo qualche giorno e tornammo poi a Milano l'estate successiva, io ebbi più d'una volta comoda occasione di vedere la splendida fabbrica in tutta la sua maestà e bellezza”. A Milano Charles Dickens arriva il 18 novembre. Nel mezzo vi è la tappa cremonese, non sappiamo lunga quanto, ma certamente non più di due giorni.

La sera di sabato 16 novembre 1844 scrive da Cremona all'amico William Jerrold: “Mio caro Jerrold, se mezza pagnotta è meglio di niente, spero che anche questo mezzo foglio di carta che ti arriva da chi è sinceramente desideroso di restare nella tua memoria e amicizia sia meglio che non scriverti affatto. Avrei dovuto adempiere l'impegno che mi ero assunto a questo proposito già da un bel po', ma ne sono stato impedito ora dagli impegni, ora dal non avere a portata di mano penna e inchiostro. Forster ti avrà detto, o ti dirà, che tengo moltissimo a che tu venga alla mia lettura del breve Libro di Natale, così spero di incontrarti a Lincolns Inn Fields, se risponderai alla sua chiamata. Ho cercato di sferrare un colpo a quella parte della faccia di bronzo della Malvagia Ipocrisia che mi sembra più dolorosamente bisognosa di un complimento del genere in questo momento. E confido che il risultato del mio sforzo sia quanto meno la dimostrazione di un Vivo desiderio di farla vacillare. Se tu dovessi pensare, dopo aver letto le quattro parti (non ve ne sono altre) che la suddetta Ipocrisia, come si dice nella lingua delle Campane, «ne esce col fiato corto», la cosa mi farà sentire molto meglio. Sono adesso diretto a Milano da dove (dopo una sosta di un giorno o due) intendo venire in Inghilterra per il più maestoso Passo Alpino che la neve possa lasciare aperto.

Il posto da cui ti scrivo dovresti conoscerlo: è famoso per i violini, o almeno lo era. Attualmente, qui intorno, non ne vedo nessuno. In compenso c'è un'intera strada di calderai poco distante dalla Locanda, che battono in modo così dannatamente irregolare che poco fa, dopo mangiato, ho temuto per un attimo di avere le palpitazioni al cuore. Raramente mi sono sentito più sollevato che dopo essermi reso conto che il battito non proveniva dal mio interno”. Il giudizio di Dickens non ammette repliche: l'ultimo liutaio, Gaetano Antoniazzi, l’unico continuatore di Enrico Ceruti, si è trasferito a Milano con i figli portandosi dietro le antiche tradizioni cremonesi e a Cremona per la liuteria è iniziato quel declino che si arresterà solo verso la fine del secolo con Pietro Grulli, Aristide Cavalli e Giuseppe Beltrami ben lontani dalla dalle caratteristiche della grande scuola classica. La strada dei calderai a cui Dickens fa riferimento potrebbe essere molto probabilmente la Contrada del Corso dove, effettivamente, vi era una fabbrica con ben nove dipendenti. Un'altra bottega aveva sede in Contrada dell'Aquila, a poca distanza dall'albergo del Sole d'Oro, in pieno centro città nei pressi della chiesa di San Domenico. E, visto il riferimento alla scomparsa della tradizione liutaria, le cui botteghe avevano sede nella piazzetta antistante, l'alloggio dei Dickens potrebbe proprio essere quest’ultimo.

John Camden Hotten in “Charles Dickens: The Story of his life” (New York, 1870) riporta altre due brevi lettere di argomento personale scritte a William Jerrold sempre da Cremona, ma probabilmente il giorno dopo, in cui accenna alla decisione di ritornare a Genova alla volta del 9 dicembre, per fermarsi un'altra settimana prima di rientrare in Inghilterra.

Dickens era stato a Venezia il 12 novembre e ne era rimasto affascinato, poi, come racconta nella stessa lettera scritta da Cremona, si era trasferito a Verona e da qui a Mantova. “Sono rimasto alquanto scosso ieri (non sono molto forte in minuzie geografiche) nello scoprire che Romeo venne bandito a sole venticinque miglia. Tale è la distanza fra Mantova e Verona. Quest'ultimo è uno strano vecchio posto, con grandi case ormai solitarie e chiuse, esattamente come ci si aspetta che sia. La prima ha una gran quantità di farmacisti, tutt'oggi, che potrebbero interpretare la parte shakespeariana al naturale. Di tutti i piccoli stagni immobili visti finora, è il più verde e il più coperto d'erbacce. Sono andato a vedere il vecchio Palazzo dei Capuleti ancora contrassegnato da loro stemma (un cappello) scolpito in pietra nel muro del cortile. Adesso è una locanda miserabile. Il cortile era talmente pieno di carrozze, carri, oche e maiali da far girare la testa:e si affondava nel fango e nel letame fino alla caviglia. Il Giardino è murato e scorporato dal resto. Non c'è nulla che facesse pensare ai suoi abitatori di un tempo, se non una signora tutt'altro che romantica sulla porta della cucina, che somigliava a una vecchia Capuleti per il solo particolare di essere davvero imponente, come lo era stata la Famiglia. I Montecchi, invece, solevano risiedere in campagna, a circa due o tre miglia da lì. Non è molto chiaro se abbiano mai abitato nella stessa Verona, ma c'è un Villaggio che porta ancora oggi il loro nome, e le tradizioni dei litigi fra le due famiglie sono ancora vive come poche altre, in questi sonnolenti dintorni”.

Che la tanto sognata Italia avesse in parte deluso lo scrittore inglese, già poco incline allo stupore romantico in seguito all'insuccesso del nuovo romanzo “Martin Chuzzlewit”, pubblicato a dispense in quei mesi, lo si intuisce dalla ricerca di particolari realistici dai tratti “noir”, in un'atmosfera decisamente gotica costellata da mendicanti cenciosi, dai detriti delle strade, dalla decadenza dei monumenti, dal grigiore del clima, dai contrasti tra i grandi edifici e la desolazione delle città. Tuttavia, nonostante l'ironia ed il sarcasmo che caratterizza la sua distaccata osservazione al punto da segnalare quasi esclusivamente gli aspetti più negativi e ripugnanti, in una delle ultime lettere quando, sulla strada del ritorno, percorre le Alpi svizzere, torna a mostrare simpatia, ammirazione e umana comprensione per l'Italia: “Separiamoci dall’Italia, con tutte le sue miserie e i suoi errori, affettuosamente: nella nostra ammirazione delle bellezze naturali e artificiali di cui è piena fino a traboccarne e nella nostra tenerezza verso un popolo per la sua indole ben disposto, e paziente e mite. Anni d’incuria, d’oppressione e di malgoverno hanno esercitato la loro opera per cambiare la natura e piegarne lo spirito; meschine gelosie – fomentate da principi insignificanti per i quali l’unione significava la scomparsa – e la divisione delle forze, sono state il cancro alla radice della loro nazionalità e hanno imbarbarito il loro linguaggio; ma il buono che è sempre stato in loro è ancora in loro, e un grande popolo può, un giorno, sorgere da queste ceneri”.

Fabrizio Loffi


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