2 novembre 2025

La straordinaria testimonianza di Fernando Galli, compagno di classe di Pasolini (a 50 anni dalla morte) al Manin. "Lo chiamavamo Cichita per i suoi anellini". "L'ho rivisto nel 1940 in montagna"

Sugli anni cremonesi di Pier Paolo Pasolini è arrivata in redazione una splendida testimonianza di un suo compagno di scuola e di banco al Manin, Fernando Galli, che la pubblicò nel suo libro "Tempo di guerra, 1942-43. La mia Russia" sulla sua esperienza di militare in Russia. E' il figlio Paolo Galli, da anni a Roma (Al Dipartimento della Protezione Civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri) a segnalarlo a Cremonasera dopo aver letto quanto abbiamo pubblicato (leggi qui) in ricordo dei cinquant'anni dalla tragica morte di Pasolini (leggi qui). 

.....Poi al mattino, silenziosi, immersi nelle nostre fantasticherie, sempre più stanchi e indeboliti ci si contava rapidamente e di nuovo in marcia; e la colonna si faceva sempre più lunga di giorno in giorno e sempre più mi affannavo a rincuorare od abbaiare ai più stanchi e sfiduciati.
Ogni tanto bianchi, esili pupazzi rattrappiti, coperti di ghiaccio e spolverati di neve ci facevano rabbrividire di pietà ed angoscia, ma fermarsi era impossibile e vano ogni sforzo per dar loro una pur minima sepoltura.
Una volta, tra quelle tristi, minuscole figure, ebbi la netta, sicura impressione  di avere individuato un mio vecchio compagno di scuola: Pier Paolo Pasolini. Eravamo stati insieme nei primi tre anni del ginnasio, anche compagni di banco, lui così strano, silenzioso, rapido nel fare i compiti, sia in classe che a casa, dai colpi di riso improvvisi, quasi brevi strane smorfie e dai piccoli graffi felini, buffo, con tutti quegli anellini alle dita (lo chiamavamo "cichita", un pappagallino allora di moda sul Corriere dei Piccoli).
L'avevo poi casualmente ritrovato a San Vito di Cadore nell'estate del '40, a guerra iniziata, ed insieme avevamo fatto escursioni velocissime, quasi insensate. Ricordo, ad esempio in due giorni, su alla base del Pelmo e poi Giau, Averau, Nuvolau, Falzarego, rifugio Cantore e di notte, con una fantastica luna ed una torcia, una delle Tofane e la seconda al mattino dopo e poi giù a Misurina e  verso Auronzo, su per il Sorapis, il bosco di San Marco e di nuovo S.
Vito. E un'altra volta l'Antelao, con un tempo pessimo e nientemeno che Comici, incontrato sul percorso, che ci sconsiglia di insistere; ma lui rideva e proseguimmo sino in vetta e con noi suo fratello, più giovane, assai simpatico, ridanciano, purtroppo dal tragico destino, e ancora uno squisito coetaneo nostro di Venezia, anche lui poi Alpino in Russia.
Pasolini parlava pochissimo e mi appariva quasi avvolto in un suo mondo, spesso occupato in discettazioni filologiche (aveva saltato un anno di liceo a Bologna e già terminato il 1° anno di lettere all'Università). Ci stupì, un giorno quando a me ed al compagno veneziano disse profetico "voi andrete in guerra, ma io la scamperò". Da che deriva questa sicurezza di non essere chiamato alle armi, mi chiesi; non sapevo allora e non avevo capito.
Il rivederlo sul bordo della pista mi angosciò; ma era proprio lui? Quell'interrogativo mi assillò per molto tempo e si sciolse dopo anni.
Colpevole a dirsi, forse per reazione a quegli "sprecati" sentimenti di pietà, il contenuto delle sue prime opere letterarie mi urtò, mi urtò il mio aver capito poco di lui; stranezze dell'animo umano e delle sue "economie" nel campo della carità..."

Fernando Galli

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Ed ancora un'altra testimonanza che era stata raccolta dal professor Gianfranco Taglietti che sui ricordi del Pasolini cremonese aveva intervistato l'ingegner Orsetto De Carolis. «Ho un ricordo ancora vivo di Pier Paolo Pasolini Erano i primi anni Trenta, la scuola era il ginnasio inferiore ‘Daniele Manin’. Il professore, Alfredo Mori, toscano d’origine e di lingua, dall’alto della cattedra ci insegnava soprattutto il latino. L’aula era ad anfiteatro, a tre quartieri, con vecchi banchi di legno, con il calamaio in un foro apposito e la ribaltina. Nel quartiere dimezzo, nel primo banco, proprio sotto la cattedra, Pasolini, a sinistra, io a destra seguivamo attenti le lezioni. Eravamo nel primo banco, perché Pasolini era il più piccolo della classe (era avanti un anno); io perché ero piuttosto vivace.

«Pasolini era, di temperamento e umore, melanconico -direi addirittura triste-; silenzioso, di condotta irre-prensibile faceva contrasto con me, eppure andavamo
continua competizione per il voto. Al termine di ogni trimestre, veniva ‘Bigio’ (il preside Luigi Cisorio) a leggere i voti delle pagelle e tutti i compagni, in silenziosa ed ansiosa attenzione, attendevano i nostri voti per un confronto.

«Di Pasolini ricordo anche una caratteristica particolare. Direi un... privilegio: poteva uscire dall’aula in qualsiasi momento durante le le- zioni senza chiedere il permesso. Si alzava di colpo e la cosa accadeva almeno quattro volte in una mattina. A distanza di anni ho ripensato più volte a questo fatto, soprattutto in relazione alle notizie... giornalistiche. Non l’ho più rivisto».

E ancora Pierpaolo Pasolini racconta di Cremona nell'Operetta Marina da Romans

"La forza con cui Cremona mi aveva colpito, accogliendomi come uno straniero, quasi come un orfano esponendo davanti ai miei occhi incapaci di giudizio, le sue superfici di pietra, l'antico affaccendarsi umano del centro, le zone erbose della periferia fluviale - si era attutita contro quella mia remissività, cresciuta all'interno, con la nuova forma che in me aveva preso mia madre: leggerezza, dedizione, miste a una serietà che era addirittura intransigenza.

Si usciva di casa, all'angolo di via Il Febbraio, e, lasciate a destra le strade, così crudamente cremonesi, che percorrevamo ogni giorno per andare al Ginnasio, ci si spingeva lungo i biancastri, sonori selciati in direzione del Teatro Ponchielli, dove la città si faceva più vuota, e quasi sconosciuta. Così giungevamo alla impolverata piazza, dimessa come quelle delle fiere paesane, dove cominciava il viale del Po; le ultime chiazze di neve tra le rotaie del tram che solitario si dirigeva sotto le file nude dei castagni verso il capolinea del fiume, sopravvivevano rigide allo splendore che le distruggeva, ai biancori che laccavano il sereno.

Quasi con sgomento, il viale terminava contro la breve salita che portava al ponte; le file dei castagni si interrompevano, sul capolinea abbandonato, e da una parte e dall'altra si distendevano, le cespugliose, disordinate campagne, limitate contro il cielo dagli argini invernali.

A sinistra scendevano su un piatto, sporco prato, contro scarpate, ripari e terrapieni che empivano lo stesso orizzonte, le strade per cui si scendeva al livello del fiume, e la stradina interdetta della Baldesio. Ma noi lasciavamo da una parte quei siti invasi dalla civiltà, quegli avamposti appena costruiti e già in rovina, malgrado le fresche vernici turchine dello chalet e delle barchette allineate sul sabbione, malgrado la ferrea ossatura del ponte tra i cui piloni il fiume si faceva spaventoso; e giungevamo alle boschine, assetati dallo spazio che ingoiava gli sguardi sul pelo torbido dell' acqua, immenso specchio fangoso che trascinava con se il cielo contro le rive ancora friggenti del biancore della neve.

Davanti alla corrente del Po, niente avrebbe potuto spostarmi fuori dal campo della mia uniforme fantasia. Il solo vederlo; riaccendeva, come in un vastissimo solco, già da tempo profondamente scavato in me, l'immagine di un mare; ma, poiché il mare non lo avevo mai visto se non nei versi e le figure dell 'Odissea, o nelle brucianti inquadrature della Tragedia del Bounty e dei Capitani coraggiosi, dal Po prendeva la vertigine, la torbidità, moltiplicandole migliaia di volte ma fissandole in uno splendore salato, abbacinante, fossile; si presentava, quell' immagine, non appena ci fossimo avvicinati al pelo dell' acqua, a sporgerci nel vuoto, mescolando l'odore che la corrente sommuoveva dalla superficie dell'acqua, odore freddo, vegetale, con quello, tutto mentale, dei grandi golfi, delle spiagge dei tropici.

Nei cavi meriggi dei giorni di scuola, e, in quelli di vacanza, anche nel chiarore del mezzogiorno, echeggiava tra le nitide rampe delle scale di casa mia, il richiamo alla moglie lanciato dal vecchio padrone di casa alla più radicalmente cremonese di tutte le persone di quella Cremona divenuta mia patria pareva scandire, con distacco nel mio umorismo di impube, già cosciente, una vita insostituibile, unica; tutto il passato aveva la prospettiva della çasa di via 11 febbraio, con la vita dei vicini che ne aveva preso la famigliare durezza, delle poderose superfici del Duomo piantate contro il cielo a elevarvi, in abbandono, la città appiattita ai loro piedi, o delle strade verso il Po e dello stesso, barbarico corso del fiume".

Nella foto la casa dove abitava Pasolini in via 11 febbraio e la targa messa nel 2006 e il regista con la macchina da presa, nell'altra foto i compagni di classe del Manin e la copertina del libro di Fernando Galli


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