12 novembre 2023

Dall'antico cuppedo dei Sanniti al chaloe greco e al turùn andaluso, il lungo viaggio del torrone attraverso i secoli da medicina a dolce acclamato della tradizione cremonese

Quando, secondo la leggenda, quel lontano 25 ottobre del 1441 il torrone comparve sulla tavola degli invitati al matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, non era certo la prima volta. Il dolce era sicuramente ormai noto da secoli ai cremonesi. Addirittura da millenni, se dobbiamo credere a Tito Livio, che racconta come una barretta dolce a base di semi oleosi, miele e albume, chiamata “cuppedo” fosse l'alimento abituale dei soldati durante le lunghe marce. Marco Terenzio Varrone nelle Satyre Menippeae, composte tra l'80 ed il 46 a.C., racconta che la “cuppedo” sarebbe stata inventata dai Sanniti. Ma è il solito Apicio, il gastronomo per eccellenza, che nel De Re Culinaria descrive la ricetta di un dolce preparato con noci, miele e albume d’uovo, chiamato nucatum che i Romani potrebbero aver mutuato dal medio oriente ellenistico, dove, già prima dell’Islam esistevano dolci secchi fatti con mandorle o granella di noci e nocciole, farina e miele. E' proprio con l'espansione islamica irradiatasi nel Mediterraneo dalla penisola arabica, che la medicina islamica, erede della medicina greca e persiana integrata con nuove scoperte, diffuse nel mondo occidentale l'interesse verso il cibo in riferimento alla cura del corpo. Tra il IX e il XII secolo, dall’Andalusia a Baghdad fiorirono i manuali della buona salute e i compendi di medicinali composti o di alimenti usati come medicinali semplici inaugurati dal Canone di Avicenna. Nel corso dell’XI secolo due medici arabi, ibn Butlan e ibn Jazla compongono due manuali di interesse medico in cui inseriscono una serie di vere e proprie ricette. Re Manfredi cura in Italia meridionale la versione del Taqwim as sihha di Butlan, che prende il nome di Tacuinum sanitatis. Mentre Carlo I d’Angiò si dedica al Tacuinum aegritudinis di Jazla. Il minhaj al-bayan di Jazla viene poi compendiato da Giambonino da Cremona in lingua latina a Venezia verso la fine del XIII secolo. Agli inizi del Trecento la compilazione di Giambonino viene inserita in una raccolta miscellanea per Carlo II d’Angiò in cui compaiono anche gli altri due libri di cucina che viene poi trasferita verso la fine del secolo in Francia presso il duca di Berry che a sua volta nel 1404 la dona ad una fondazione religiosa. Contemporaneamente in Italia settentrionale sulla base del Tacuinum di Butlan si compilano il Tacuinum Sanitatis illustrato con le miniature di Giovannino de’ Grassi e nel Quattrocento si traduce in tedesco il Liber de ferculis di Giambonino in una università dell’Italia settentrionale, probabilmente Padova. Nel XVI secolo, infine, a Damasco Andrea Alpago utilizza il testo arabo di Jazla per compilare un glossario arabo-latino al Canone di Avicenna, la “Interpretatio arabicorum nominum”  stampata a Venezia nel 1527, mentre nel 1532 Schott pubblica a Strasburgo i Tacuini di Butlan nella versione integrale in latino a cui fa seguire l’anno seguente quella in tedesco. Capiamo così come, quando non è sufficientemente spiegata una preparazione in uno di questi testi, possa venire in aiuto il confronto con opere analoghe dello stesso contenuto. E' proprio nei trattati di Ibn Buṭlān e Ibn Jazla, a cui si aggiunge in Andalusia  il Libro dei medicinali semplici di Abenguefith Abdul che si trovano le ricette di un tipo di dolce secco che è il diretto precursore del moderno torrone. Nelle Tavole della Salute di Butlan e nel Cammino dell'esposizione di Jazla (cristiano convertito all’Islam), composte nel califfato abbaside di Baghdad nell’XI secolo, nella parte riservata ai dolci secchi compare il Chaloe (in arabo halawa), di origine greca, indicato per febbri, tosse o dolori reumatici: dalla ricetta risulta preparato con noci, mandorle o pistacchi e aromatizzato con spezie. Manca l’albume, ma la variante bianca è ottenuta tramite la lavorazione dello zucchero, come si legge nel Compendio delle vivande (Kitab al-Tabikh) del medico Al-Baghdadi, vissuto nel XIII secolo: «Sciogli lo zucchero in acqua e fallo addensare bollendo, poi versalo su un piano, battilo e tiralo finchè diventa bianco, impastaci pistacchi o mandorle, taglialo in stecche o rombi e dallo a chi vuoi».

In Andalusia Abenguefith Abdul Mutarrif, medico e farmacista nel Libro dei medicinali semplici, tratto da Dioscoride e Galeno, nel descrivere le virtù terapeutiche del miele, cita un dolce che chiama “turùn”, composto di mandorle tostate, miele, zucchero e acqua di rose, ricoperto da una sottilissima cialda, indicato per febbri, patologie polmonari e dolori reumatici. Il Libro dei medicinali semplici viene tradotto dall'arabo in latino a Toledo da Gherardo da Cremona tra il 1135 e il 1170. Quando Gerardo morì, la sua ricchissima biblioteca di testi arabi fu trasportata a Cremona, nel convento di Santa Lucia. Il compendio arabo contenente la ricetta del Turùn nella versione latina di Gerardo divenne “Liber Abenguefiti de virtutibus medicinarum simplicium et ciborum”. Il manoscritto originario è conservato alla Bibliotheque Nàtionale di Parigi ma una copia è conservata alla Biblioteca Statale di Cremona, inclusa nella versione a stampa di Johann Schott (impressa a Strasburgo nel 1532) che contiene, come abbiamo visto, anche le Tavole di Ibn Butlan e i Taccuini della Salute di Ibn Jazla.

Il torrone dunque era certamente conosciuto a Cremona ben prima del matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, attraverso la mediazione dei traduttori dall'arabo, i commerci con la Spagna e l'Oriente arabo, senza dimenticare l'antico cibo energetico latino e, dunque, come altre preparazioni gastronomiche, frutto di un'originalissima contaminazione. Vi è poi chi ha creduto che lo stesso termine “torrone”, anziché da un'improbabile torre, possa derivare dal termine spagnolo turròn, deverbativo di turrar (“tostare”) a sua volta derivante dal verbo latino torreo che significa «seccare, tostare, abbrustolire». E' possibile che il termine spagnolo turùn, dal latino torreo, sia stato utilizzato dagli arabi del califfato di Cordova per quel dolce conosciuto variamente come qubbayt (o qabit o qabut, “mandorlato”), oppure in Sicilia come giuggiolena (con riferimento al sesamo), o halawa attingengolo dal volgare spagnolo, derivante a sua volta dal latino.

Nulla di strano: le contaminazioni con il mondo arabo a Cremona sono piuttosto frequenti ed investono diversi settori. Ad iniziare proprio dalla gastronomia.

Fabrizio Loffi


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