Il generale cremasco Livio Galimberti
La famiglia
Carlo Livio Saverio Galimberti nasce a Crema, nella parrocchia di San Benedetto, il 4 dicembre 1768. Non sappiamo per quale motivo venga sempre chiamato Livio invece che con il suo primo nome, Carlo. Il padre è Giovanni Galimberti, un affermato orefice cremasco, e la madre è Bianca Maria Capredoni. Si sono sposati nella parrocchia di San Benedetto e poi, tra il 1774 e il 1778, si sono trasferiti nella parrocchia della Cattedrale. Hanno avuto altri figli. Il 4 giugno 1774 sono nate due gemelle, Paola e Marianna. Di Paola non si hanno notizie da quasi subito e potrebbe essere morta “infante”. Le morti infantili erano frequenti e riempiono i registri parrocchiali del tempo. Di Marianna abbiamo invece varie notizie. Di lei si dirà più avanti. Un’altra figlia, Isabella, muore “infante” il 5 febbraio 1778. Sappiamo del trasferimento di parrocchia di Giovanni e Bianca perché Paola e Marianna nascono in parrocchia di San Benedetto, mentre Isabella muore in parrocchia della Cattedrale. Giovanni ha un fratello, che probabilmente è quel Livio che nei registri parrocchiali risulta deceduto l’11 febbraio 1788 (quondam Alessandro e quondam Marta Chiappa), il quale ha due figli di nome Antonio e Carlo, di cui si dirà poco oltre.
Su Giovanni Galimberti e sulla sua attività di orefice possiamo rilevare alcune informazioni dagli studi specialistici che si sono occupati degli orafi e degli argentieri cremaschi. Per una sintetica panoramica su questa materia, si veda l’articolo di Walter Venchiarutti su Insula Fulcheria XLVI del 2016, pp. 89-107. Nel 1776 risultano aperte in Crema 6 botteghe di questa fraglia professionale. Tra di loro c’è quella di Giovanni Galimberti (patròn) con Carlo Pietro Pigola (garzòn), all’insegna del Gallo. Ogni bottega ha infatti una sua insegna e, ovviamente, i propri punzoni originali, che incidono le iniziali del titolare (il punzone di Giovanni è “G G”). La clientela di Giovanni annovera soggetti molto qualificati, con committenti tra gli enti religiosi e le famiglie nobili cittadine. La fraglia degli orefici cremaschi, tra il 1776 e il 1800, comprende diversi “toccatori d’argento” ma Giovanni è anche “toccatore d’oro”, il che lo mette in una posizione di sicuro rilievo. Sappiamo, tra l’altro, che tra il 1780 e il 1782 realizza dei candelieri d’argento e un ostensorio per la cappella del Santissimo Crocifisso nella Cattedrale. Un’altra bottega di oreficeria è quella di Antonio Cotti (patròn) con Paolo Pigolo e Bartolomeo Erba (garzòn), all’insegna del Leone. Suo figlio è Vincenzo Cotti, sul quale si veda l’articolo “Le battaglie del colonnello Cotti (1772-1810)” pubblicato il 20 luglio 2022. Alcuni orafi hanno il proprio esercizio nella zona della “stretta del Ghetto”, un tempo abitata dalla comunità ebraica di Crema. Si tratta di un interessante elemento di continuità professionale, visto che le attività di oreficeria e di credito feneratizio erano le principali di quella comunità. Si veda l’articolo “Gli ebrei a Crema” pubblicato il 15 novembre 2021.
Il periodo in cui Giovanni Galimberti risulta attivo inizia molto probabilmente prima del 1776. Termina nel 1789, con la sua morte. Negli ultimi anni aveva preso a bottega, come garzòn, anche il figlio Livio. Giovanni viene a mancare il 2 agosto 1789 nella parrocchia della Cattedrale. Lascia la moglie Bianca Maria e i due figli Livio, da poco ventenne, e Marianna, quindicenne. Non sappiamo se altri figli siano sopravvissuti ad eventuali morti premature. L’assenza di notizie in proposito, almeno finora, sembrerebbe non favorire l’ipotesi di ulteriore prole. Livio subentra (come patròn) al padre nello stesso anno della sua scomparsa, il 1789. Deve aver ben appreso il mestiere paterno, perché anche a lui, come a Giovanni, la fraglia riconosce il rango professionale, oltre che di argentiere, anche di “toccatore d’oro” (con un proprio punzone “L G”). Negli anni precedenti Livio non si è limitato ad apprendere la professione del padre. Ha seguito un percorso di studi regolare e ha frequentato a Crema una scuola importante, il ginnasio nel quale allora insegnavano i padri barnabiti. In questi studi Livio “sempre si distinse e lasciò grata ricordanza, essendo stato Principe dell’Accademia, e terminato in tal modo il suo corso di studi, attese col padre all’oreficeria” (Faustino Vimercati Sanseverino, 1832).
Livio ha due cugini, probabilmente figli di quell’altro Livio che risulta deceduto l’11 febbraio 1788 negli stati d’anime parrocchiali. Benvenuti afferma infatti che uno dei due è “contemporaneo e cugino di Livio”. Essendo fratelli, anche l’altro dunque lo è. Si chiamano Antonio e Carlo. Il secondogenito, Carlo, è nato a Crema il 4 novembre 1767, viene ordinato sacerdote il 17 dicembre 1791 e muore il 19 aprile 1837. Opera come presbitero soprattutto nella parrocchia di San Benedetto e, per un certo periodo, viene “discesso” nella diocesi di Cremona, tornando poi a Crema. Dice di lui Benvenuti (Dizionario Biografico Cremasco): “Fu prete, amante e raccoglitore di libri, ed era fornito di una certa qual erudizione”. Di Carlo Galimberti abbiamo numerose opere, molte pregevoli, altre meno. Sono versi poetici, prose letterarie e di saggistica, testi di discorsi, scritti di teologia. La nostra biblioteca civica conserva alcune di queste opere. Per maggiori notizie, si veda anche il predetto Dizionario.
Di diverso carattere il primogenito, Antonio. Sempre il Benvenuti, nel Dizionario, dice: “Il magnifico altare del Crocifisso, posseduto dal nostro Duomo, è opera di Antonio Galimberti, fratello di Carlo. Costui, distinto artista, ma pessimo soggetto, fu impiccato a Venezia, per aver nella sera del 19 aprile 1788 assassinato sul ponte del Serio, presso Crema, il Conte Nicolò Vimercati Sanseverino, che gli aveva negato il pieggio per l’affitto della bottega”. Innanzitutto, va detto che l’attribuzione del “magnifico altare” andrebbe correlata con l’opinione, ritenuta suffragata da talune fonti documentali, secondo la quale il paliotto dell’altare e i gradini d’argento di tale cappella sarebbero invece opera del bresciano Giuseppe Arici. Non si entra in questa sede nel merito della questione. L’attribuzione all’Arici proviene da lavori specialistici di autori di chiara fama locale. Invece, riguardo all’omicidio volontario premeditato del conte cremasco, si può consultare la “Distinta Relazione della Giustizia seguita in Venezia, lì 21 Agosto 1788. Nella persona di Antonio Galimberti d’anni 30 nativo di Crema, solito far l’Orefice. In Venezia, con licenza de’ Superiori” (presso la biblioteca civica).
Nicolò Vimercati Sanseverino, marito di Aurelia Zurla, nei registri parrocchiali risulta deceduto il 22 (non il 19) aprile 1788. È uno dei rentier più facoltosi di Crema. È proprietario anche di buona parte della “stretta del Ghetto”. Antonio, marito di Margherita Pavia, definito nella predetta Relazione come dedito “al gioco e al vino”, ha perso il padre pochi mesi prima. Gli sono morti due figli infanti, Pietro (il 15 novembre 1781) e Anna (il 20 maggio 1783). Queste e altre cose la Relazione non le dice. Anche del colloquio avvenuto tra Antonio e il conte conosciamo solo una delle due versioni. Il fatto della fuga di Antonio, dopo la ben mirata archibugiata, si può spiegare in diversi modi. Antonio è un uomo di trent’anni molto capace professionalmente ma in difficoltà economica. Forse non è in una condizione psicologica molto favorevole a certe insistenti richieste pecuniarie. Insomma, il caso giudiziario è interessante. Però non si può andare oltre in questo articolo. La fattispecie meriterebbe forse un articolo a parte. Occorre ora tornare al cugino di Antonio, Livio Galimberti.
Da orefice a Ussaro
Sono note le vicende della prima campagna d’Italia di Napoleone nel 1796, con il suo passaggio per Crema in quell’anno, con la proclamazione della Repubblica Cremasca l’anno successivo e con l’ingresso di Crema e del suo territorio, pochi mesi dopo, nella Repubblica Cisalpina. Si veda l’articolo “La repubblica del cittadino Gambazzocca”, pubblicato il 10 aprile 2025. Livio ha poco più di ventotto anni. È ormai un uomo fatto ed economicamente benestante quando, nel 1797, “fu dall’Amministrazione municipale di Crema nominato Capitano ed incaricato di ordinare una Compagnia d’Ussari” (Faustino Vimercati Sanseverino). In realtà, più che dall’amministrazione comunale, l’incarico gli viene dalla nuova realtà istituzionale repubblicana creata a Crema. Se Livio riceve un simile mandato, significa che sa andare bene a cavallo, se ne intende di cavalli e ha doti organizzative sufficienti per allestire una compagnia militare.
Vediamo in che contesto si colloca questo incarico di organizzare a Crema una compagnia di Ussari. La decisione di armare gli italiani è antecedente di diversi mesi rispetto alla nascita della forza militare italiana della Repubblica Cisalpina, istituita il 29 giugno 1797. Nel settembre 1796 Napoleone fa organizzare 3 battaglioni di guastatori e zappatori a Milano, Bologna e Ferrara, per i lavori dell’assedio di Mantova e per il presidio delle piazzeforti. In ottobre autorizza la formazione di una Legione italiana (territori cispadani) e di una Legione lombarda (territori cisalpini). In queste formazioni, oltre alla fanteria, non può mancare la cavalleria. Tuttavia, scarseggiano cavalieri validi sui terreni di guerra e cavalli adeguati. Da tempo l’allevamento e l’addestramento del cavallo militare è trascurato nei nostri territori. La fanteria si sviluppa per coorti, inizialmente 7, poi aumentate di numero. Invece la cavalleria delle 2 Legioni iniziali è prevista in complessivi 3 squadroni di 120 Cacciatori a cavallo ciascuno, 1 lombardo (Carlo Balabio) e 2 cispadani (1 bolognese, Germano Rusconi, e 1 modenese, Francesco Meda). Nel gennaio 1797 sono ancora sotto organico, in parte appiedati e disarmati. L’11 ottobre 1796 Napoleone approva la dotazione ai Cacciatori a cavallo lombardi del vessillo tricolore, oggi al Museo del Risorgimento di Milano, che costituisce il primo tricolore italiano e che forse ha il battesimo del fuoco tra il 15 e il 17 novembre nella battaglia di Arcole. Sul fatto che la prima bandiera italiana sia quella di Reggio Emilia del gennaio 1797, molto si è discusso, si discute e si discuterà. Resta il fatto che anche le bandiere militari sono bandiere, non solo quelle delle istituzioni civili.
Nel marzo 1797 le tre province di Terraferma lombarda danno vita a Repubbliche indipendenti dalla Serenissima. È così molto più agevole, per i volontari di Bergamo, Brescia e Crema, arruolarsi nelle formazioni di fanteria e cavalleria che si stanno sviluppando nel frattempo nei territori che presto confluiranno nella Repubblica Cisalpina. È infatti a fine marzo che la Repubblica di Crema incarica Livio Galimberti, definito come spirito “guerresco”, di mettere insieme la predetta compagnia di Ussari. Già prima di allora alcuni cremaschi avevano chiesto l’arruolamento come volontari. Adesso il loro numero aumenta. Sono già partiti, tra gli altri, Vincenzo Cotti e Gaetano Soldati, nato nel 1778 e partito volontario diciottenne nell’esercito napoleonico, dove raggiunge il grado di colonnello. Nel 1848, nonostante l’età, è un acceso patriota. Viene a mancare nel 1856. Si veda su di lui anche la parte dedicatagli nella Cronaca Grigia di Matteo Benvenuti, ripresa poi dal fratello nel Dizionario Biografico Cremasco. Tra marzo e aprile, le forze di cavalleria lombarde vengono incrementate. Ai Cacciatori “legionari” si aggiungono 2 squadroni bresciani di Ussari (capo brigata Giovanni Caprioli, capi squadrone Angelo Lechi e Pietro Arici) e la compagnia di Ussari guidata da Livio Galimberti. La forza prevista dovrebbe essere di 100 unità montate per ogni squadrone e di 50 per la compagnia cremasca. In realtà, anche queste formazioni di Ussari risultano sotto organico. La compagnia dei cremaschi si riduce presto a 24 effettivi. Dopo la costituzione della Cisalpina, anche la fanteria e la cavalleria italiana, così come le prime batterie fisse e da campagna di artiglieria, sono riorganizzate. Livio decide di lasciare la sua occupazione civile. Sceglie il mestiere delle armi, diventa un militare.
Con la cavalleria cisalpina
Gli assetti politici e istituzionali italiani voluti allora da Napoleone, con una parte della penisola direttamente soggetta all’amministrazione francese, una parte resa autonoma con la Cisalpina e una parte, soprattutto in meridione, ancora governata dai precedenti reggitori, consente in particolare ai territori cisalpini un’autodeterminazione sufficiente per dotarsi di strutture governative, legislative e giudiziarie formalmente autonome, anche se in parte sostanzialmente soggette ai poteri d’influenza francesi. La Cisalpina ha quindi una certa autonomia anche nella formazione di un suo esercito, abbinando così a un moderato potere politico un’effettiva forza militare. Le armi italiane si fanno onore sui campi di battaglia nell’ambito di quella che sarà la Grande Armée napoleonica, composta dalle formazioni militari francesi ma anche da quelle di diversi paesi alleati, in contrapposizione alle varie coalizioni antinapoleoniche. E va detto che, pur non corrispondendo certo la Cisalpina (e poi la Repubblica Italiana e il Regno d’Italia) all’Italia nella sua interezza, queste forze militari vengono spesso definite “italiane”. La costituzione di un vero e proprio esercito italiano rappresenta un passo importante verso i futuri sviluppi risorgimentali, nonostante la Restaurazione. E l’affermarsi di una cavalleria italiana, in tale contesto delle guerre napoleoniche, è per noi una pagina di storia militare importante. La piccola città di Crema ha contribuito a scrivere questa pagina anche con Livio Galimberti.
La riorganizzazione delle forze cisalpine si basa quindi sulle premesse istituzionali sopra indicate. Diciamo per inciso che per la fanteria, tra il marzo e il maggio 1797, le forze militari delle tre Repubbliche ex-venete si erano strutturate in una Legione bresciana, in una Legione bergamasca e in una Coorte cremasca. In agosto quest’ultima, preordinata in 3 compagnie, 200 uomini e 7 ufficiali, viene incorporata in altre unità della Cisalpina. In luglio le forze cisalpine di cavalleria vengono riordinate, superando le precedenti frammentazioni, qualificazioni e definizioni. Si forma così il reggimento Ussari Cisalpini (Giovanni Caprioli), però solo su 2 squadroni, il 1° (Livio Galimberti) a Milano, nella caserma San Marco, e il 2° (Angelo Lechi) a Brescia. In tutto sono 226 unità, con prevalenza numerica nel 1° squadrone. I cavalli continuano a essere insufficienti e le rimonte dei quadrupedi in sostituzione dei soggetti riformati non sono agevoli. La campagna militare del 1797 è la prima delle molte in cui Livio combatte alla testa dei suoi cavalieri, che sono soprattutto lombardi ma che in parte provengono anche da altre parti d’Italia. Gli Ussari non erano, di norma e salvo eccezioni, impiegati come cavalleria pesante, di sfondamento o di linea, ma come cavalleria veloce e leggera, da ricognizione ed esplorazione, per azioni rapide di interdizione o di inseguimento del nemico in fuga. Erano considerati gli occhi e le orecchie delle armate napoleoniche ed erano ritenuti i migliori cavalieri e spadaccini (beau sabreurs). Le loro sfavillanti uniformi riflettevano la loro temerarietà e la loro spavalderia. Coraggiosi e a volte attaccabrighe, armati di sciabola, pistole e carabina, erano non solo ottime lame ma anche bravi tiratori. Per i rischi che correvano, si diceva che un Ussaro arrivato ai trent’anni era un uomo fortunato. Il generale Antoine Charles Louis de Lasalle, colpito mortalmente a Wagram mentre conduceva una carica, aveva detto che “un Ussaro ancora vivo a trent’anni è un cialtrone”.
Nel 1798 il reggimento Ussari diventa il 1° reggimento della Cisalpina o 1° Ussari (Luigi Campagnola), ora su 4 squadroni, il 1° (Livio Galimberti), il 2° (Angelo Lechi), il 3° (Antonio De Gasperi) e il 4° (Pietro Arici), mentre si aggiunge un 2° reggimento di Dragoni (Pietro Viani), attivato solo su un 1° squadrone (Jean Pierre Jacquet). Livio si vede riconosciuto ufficialmente il grado di capo squadrone. Il 1° Ussari è il primo reggimento di cavalleria italiana strutturato e organizzato, con 748 effettivi e una sufficiente dotazione di cavalli e armamenti. Sono inclusi 36 ufficiali, 36 marescialli, 50 brigadieri, 4 chirurghi, 3 veterinari, 3 armaioli, 3 sellai, 4 sarti e 5 stivalari. Livio combatte con il suo reggimento nella campagna militare del 1799. Le operazioni avvengono in collegamento con la Divisione Montrichard. Alla fine, il ripiegamento francese e l’esito negativo della campagna consentono agli austro-russi di occupare i territori italiani. Livio segue i comandi francesi a Versailles, dove Luigi Campagnola riorganizza il 1° Ussari, che ha avuto ingenti perdite sul campo, su 2 squadroni, il 1° (Carlo Martinengo) e il 2° (Livio Galimberti). Varcate le Alpi il 25 maggio 1800, i nostri Ussari, guidati da Livio e dai loro altri ufficiali, combattono a Marengo il 14 giugno, schierati alla destra della brigata Kellermann. Vimercati Sanseverino dice inoltre che Livio “si distinse a Gandino, ove fu ferito nel tallone sinistro, nel Tirolo, ove comandava uno Squadrone staccato dal Reggimento, nella divisione Desolle, e mostrò gran valore particolarmente negli affari di Jaupens e Glurens”. Non sono indicate da questo autore le date di tali fatti, che si potrebbero ritenere anteriori al trattato di Lunéville del 9 febbraio 1801. I nomi dei luoghi destano alcune perplessità. Ad esempio, Gandino non è in Tirolo. Forse ci si riferiva agli scontri di Condino. Esistono insomma ampi spazi di approfondimento.
Dopo la vittoria di Marengo, si ricostituisce la Repubblica Cisalpina (la storiografia parla di “seconda Cisalpina”) e quindi anche l’esercito italiano, con la sua cavalleria, viene riorganizzato e potenziato. Tra il luglio 1800 e il settembre 1801, vari provvedimenti riordinano infatti progressivamente la cavalleria cisalpina. Si formano tre reggimenti. Il 1° Ussari (capo brigata Pietro Viani) ha 3 squadroni, il 1° (Masson), il 2° (Livio Galimberti) e il 3° (Pietro Arici). Il 2° Ussari (capo brigata Carlo Balabio) ha 3 squadroni, il 1° (Giovanni Maria Narboni), il 2° (Francesco Pignatelli) e il 3° (Louis Givernet, o Giverlet). C’è poi un reggimento di Cacciatori (capo brigata Giovanni Battista Caracciolo) che ha 2 squadroni, il 1° (Jean Pierre Jacquet) e il 2° (Louis Charpentier). Livio ha ormai maturato un’esperienza di comando e una pratica militare che ne fanno un ufficiale molto affidabile e apprezzato sui terreni di guerra. È però dotato di capacità personali che vanno oltre il contesto strettamente militare. Sa intrattenere positivi rapporti anche in ambito civile e non manca di interessarsi alle dinamiche politiche che in quegli anni si svolgono in Italia. Dice infatti Vimercati Sanseverino che “nel 1802 fu chiamato ad assistere ai Comizi di Lione”. Si tratta degli organismi consultivi a cui partecipano i deputati della Repubblica Cisalpina, che il 26 gennaio 1802 proclamano la trasformazione di questa in Repubblica Italiana, con tutte le conseguenze politiche e istituzionali che ne seguono, sotto il profilo governativo, legislativo, giudiziario, oltre che diplomatico e militare. L’ordinamento della cavalleria italiana, tra il 1802 e il 1805, anno della proclamazione del Regno d’Italia, è più stabile che nel periodo della Cisalpina, essendosi ormai ben assestato. Subisce quindi modifiche meno rilevanti.
Con la cavalleria della Repubblica Italiana e del Regno d’Italia
Lo sviluppo della cavalleria repubblicana, che coinvolge anche Livio, porta gli effettivi dei 3 reggimenti da 1.400 a 2.200 unità circa, tra l’inizio del 1802 e la fine del 1804, grazie all’immissione di circa 800 coscritti e volontari. Questo consente, tra l’altro, di completare i reggimenti Ussari con un 4° squadrone. I 3 reggimenti italiani e gli Ulani polacchi di stanza in Italia si avvicendano tra le Divisioni territoriali, cambiando guarnigione secondo un opportuno criterio di rotazione militare (Milano, Vigevano, Novara, Bologna, Reggio, Modena, i Cacciatori anche a Cremona). Quindi pure il 1° Ussari ha allocazioni diverse e Livio conosce realtà territoriali differenti. Dal 25 settembre 1803 non risponde più a Pietro Viani, promosso generale di Brigata e nominato comandante della Guardia del presidente, ma a Jean Pierre Jacquet, trasferito dai Cacciatori e promosso capo brigata del 1° Ussari.
Avviene in questi anni un significativo potenziamento della cavalleria repubblicana, con l’apertura di centri di addestramento equestre, con migliori sistemi di approvvigionamento e selezione cavalli (che per i 3 reggimenti passano dal migliaio del 1802 a oltre 1800 a inizio 1805) e con proposte operative di valorizzazione delle “razze provinciali”. Ciò si deve ad alcuni ufficiali italiani e francesi che seguono la visione strategica napoleonica sull’Arma di cavalleria, sempre più rilevante sui campi di battaglia. Uno di questi è Luigi Campagnola, con cui Livio ha buoni rapporti sin da quando Campagnola era suo capo brigata nel 1798. Con ogni probabilità è di Campagnola l’anonima “Memoria sopra la cavalleria” pubblicata sul Giornale dell’Accademia militare (I, aprile-giugno 1802, pp. 81-124). È un articolo di sicuro interesse, e non solo per la storia della nostra equitazione militare. Lo scritto dimostra competenza e lungimiranza. Tra l’altro, vi si può rinvenire un aspetto che potrebbe riguardare proprio Livio. L’autore infatti cita alcuni lavori e trattati apparsi allora sull’argomento, otto per la precisione, tra i quali tre di ufficiali di cavalleria dei quali si è già fatto in precedenza il nome: Pignatelli, Caracciolo e Galimberti. Non si può escludere, per Livio, una omonimia, però la cosa appare molto improbabile. Sappiamo che gli eccellenti studi di Livio gli avevano consentito di essere anche un’ottima penna, cosa non sempre diffusissima nella cavalleria Ussara del tempo. Se Livio Galimberti avesse quindi redatto un trattato o comunque un suo contributo qualificato in materia, varrebbe la pena di conoscerne il testo. Si tratterebbe di una novità, degna di una ricerca specifica.
Nel gennaio del 1805, i cavalli in forza effettiva, quindi abili e di pronto impegno bellico, che la Repubblica Italiana può mettere in campo sono quasi 4.000. Non esiste infatti solo l’Arma di cavalleria italiana, con i suoi circa 1.800 cavalli. Anche altri corpi hanno potenziato la loro dotazione. A parte le formazioni polacche, che comunque operano sul territorio repubblicano e hanno a disposizione circa 460 cavalli, l’artiglieria ha circa 380 cavalli, ovviamente adatti all’utilizzo in quest’Arma, la gendarmeria ne ha circa 770 e il contingente della Guardia circa 540. Le cifre variano nei mesi successivi, quando la Repubblica Italiana lascia il posto al Regno d’Italia. Il 17 marzo 1805 avviene infatti questa trasformazione istituzionale, dopo che Napoleone ha cinto il 2 dicembre 1804 la corona imperiale in Notre-Dame a Parigi. Il 26 maggio, nel Duomo di Milano, capitale del Regno, Napoleone è incoronato Re d’Italia. Viceré è dal 5 giugno Eugenio di Beauharnais, figlio di prime nozze della moglie di Napoleone, Giuseppina, imperatrice fino al gennaio 1810. Il 1805 è l’anno delle campagne di guerra contro la terza coalizione. La vittoriosa campagna di Germania (detta anche d’Austria) vede il susseguirsi di importanti vittorie francesi, tra le quali le principali sono quelle di Ulma, dal 15 al 20 ottobre, e di Austerlitz, il 2 dicembre. Anche la campagna d’Italia è un successo per le armi francesi, che possono contare su un esercito italiano alleato divenuto intanto sempre più valido e consistente. Le operazioni, che sono condotte dai comandi franco-italiani guidati dal maresciallo dell’impero André Masséna, terminano alla fine di novembre. Nel 1806 si svolge la campagna militare per la conquista del Regno di Napoli. Il 30 marzo Giuseppe Bonaparte è proclamato Re delle Due Sicilie. Per vincere tutte le resistenze si deve attendere la fine dell’estate. Iniziano poi le “insorgenze”. Quando nel 1808 Giuseppe è destinato a diventare Re di Spagna, gli succede a Napoli Gioacchino Murat.
Livio partecipa sia alla campagna italiana del 1805, sia alla campagna per la conquista del meridione nel 1806. In riferimento alla sua persona, Vimercati Sanseverino definisce queste campagne come “gloriose”, nel senso che Livio si distingue sul campo in modo evidente, alla testa delle truppe di cavalleria che gli sono affidate. Intanto, tra il febbraio e il luglio 1805, avviene un importante cambiamento in quella che nel frattempo è diventata in Italia la cavalleria reale. I due reggimenti Ussari vengono infatti trasformati, quanto a impiego e destinazione bellica, in due reggimenti di Dragoni. Le ragioni di questa scelta si inseriscono in un contesto militare più ampio, nel merito del quale non è possibile entrare in questa sede. Va comunque detto che le specialità della cavalleria a quell’epoca differivano realmente tra loro, non solo per denominazioni e uniformi ma anche per armamento, criteri di utilizzo in manovra e requisiti d’ammissione. Anche le cavalcature avevano in genere (non sempre) caratteristiche morfologiche e attitudinali differenti. Nelle formazioni napoleoniche, la cavalleria di linea, spesso considerata cavalleria pesante (anche se meno di quella dei Corazzieri), a cui appartenevano i Dragoni era diversa dalla cavalleria leggera degli Ussari o anche degli Chasseurs à cheval. I contingenti dei Dragoni erano solitamente impiegati per proteggere i fianchi dell’armata, per cariche di alleggerimento, per scontri rapidi e per utilizzi molto versatili. Infatti potevano smontare da cavallo e proseguire il combattimento a piedi, con armi da fuoco come i moschetti. La trasformazione dei due reggimenti Ussari non è quindi immediata e agevole. Comunque riesce, grazie alla disponibilità della truppa e all’impegno degli ufficiali e dei sottufficiali dei vari squadroni coinvolti in questa operazione. Il 1° Ussari prende dunque la denominazione di Dragoni Regina. Il 2° Ussari prende il nome di Dragoni Napoleone.
Si arriva quindi alle imprese militari di Livio e dei suoi Dragoni Regina nelle campagne di guerra che si svolgono tra il 1807 e il 1810, contro le varie coalizioni antinapoleoniche. Citiamo innanzitutto Vimercati Sanseverino, per una rapida sintesi: Livio “assai si distinse al passaggio della Piave, a Steinemanger, alla battaglia di Raab e più particolarmente a quella di Wagram, all’esito della quale contribuì molto la carica ardita dei Dragoni Regina”. Va poi detto quanto segue, a maggiore precisazione. Nel 1807 parte della cavalleria italiana, con i Dragoni Regina, combatte nella Armée d’Italie in Prussia e in Pomerania, agendo anche sulla costa baltica fino all’Oder, distinguendosi per valore e disputando “la gloria ai vecchi reggimenti francesi”. Non risulta espressamente che Livio abbia partecipato alla spedizione in Spagna all’inizio del 1808 (ma non si può nemmeno escludere), posto che comunque alcuni reparti dei Dragoni Regina sono coinvolti in tali operazioni. Maggiormente impegnati in terra spagnola, in questo primo periodo, sono i Dragoni Napoleone. Nel 1808 a Livio è riconosciuto il grado di maggiore. Resta nel reggimento Dragoni Regina, con responsabilità superiori ai capi squadrone. L’8 maggio 1809, durante il combattimento di Nervesa, Livio forza coi suoi Dragoni il guado di San Nichiol e travolge i Dragoni avversari dell’arciduca Giovanni, cattura 21 prigionieri e poi passa il Piave. Il reggimento insegue quindi il nemico e cattura 700 ungheresi dell’IR Jelacic dalla retroguardia in ritirata. Poi risale l’Isonzo, taglia per Klagenfurt, Leoben, Oldenburg e Güns.
Arrivati alla Raab, i Dragoni Regina caricano il 7 giugno gli Ussari dell’Arciduca Giuseppe e un migliaio di cavalieri delle formazioni magiare Insurrectio, costringendoli in fuga oltre Steinamanger. Alla battaglia della Raab, il 14 giugno, i Dragoni Regina, comandati da Alessandro Olivieri per l’assenza del colonnello comandante Jean Pierre Jacquet, e un reggimento della Guardia reale, assegnati all’ala destra, si scontrano vittoriosamente sul rio Panecza con ben 30 squadroni ungheresi, catturando poi un quadrato di fanteria austriaca sfondato dalla cavalleria. Il valore dei Dragoni Regina è premiato con 17 decorazioni e da un elogio del generale Emmanuel Grouchy, comandante in capo delle forze di cavalleria. Tra il 5 e il 6 luglio, il reggimento partecipa alla battaglia di Wagram, schierato nella divisione Guérin, una formazione franco-italiana composta da Dragoni (7e Dragons, 30e Dragons, Dragoni Regina). La divisione si scontra con 16 squadroni austriaci e sono i Dragoni Regina a mettere in fuga i Corazzieri Hohenzollern e poi a salvare dal nemico la Divisione Montbrun. Il 7 luglio, durante l’inseguimento degli austriaci in ritirata verso la Moravia, gli squadroni del Regina sostengono un altro aspro combattimento a Nikolsburg e l’8 forzano il passo della Tanya. Poi attraversano il ponte Westeriz alla carica, sotto il fuoco avversario, e colpiscono duramente i reparti nemici. Napoleone insignisce 17 militari del reggimento sia della Corona di Ferro che della Legion d’Onore e promuove Alessandro Olivieri colonnello sul campo, creandolo anche barone dell’Impero.
All’inizio del 1810, l’Impero napoleonico è al suo apogeo. Il Regno d’Italia, sempre retto dal viceré Eugenio di Beauharnais, ha completato i suoi assetti territoriali con la cessione dell’Istria e della Dalmazia alle Province Illiriche e con l’acquisizione del Trentino e dell’Alto Adige. L’esercito del Regno ha partecipato in modo positivo alle guerre napoleoniche europee, dimostrando che gli italiani, se ben organizzati e ben guidati, sanno essere una forza militare di tutto rispetto. La cavalleria, non considerando i contingenti montati di artiglieria, gendarmeria e Guardia, ha raggiunto i 4 reggimenti e i 16 squadroni, con una forza complessiva, ben strutturata, addestrata e motivata, di circa 3.750 effettivi e di circa 3.200 cavalli. Si tratta per la maggior parte di cavalleria di linea e i 16 squadroni sono, al momento (febbraio/marzo 1810), distribuiti territorialmente come segue: 9 in Italia, 1 in Tirolo e 6 in Spagna, dove il contributo italiano alla guerra in corso è sempre rilevante. I 4 squadroni del Regina fanno base a Cremona. Il 3° e il 4° Napoleone a Novara. Il 4° Real Italiano a Milano. Il 3° e il 4° Principe Reale a Vigevano. In Tirolo c’è il 3° Real Italiano. In Spagna ci sono il 1° e il 2° Real Italiano; il 1° e il 2° Principe Reale; il 1° e il 2° Napoleone. Livio risulta maggiore del Regina dal 1808 al 1810. Il suo reggimento è in quegli anni sempre guidato da Jean Pierre Jacquet, anche se Livio ne è diventato di fatto il principale organizzatore. Col tempo è divenuto, nell’ambito dell’intera Arma di cavalleria italiana, uno degli istruttori equestri più apprezzati. Riferendosi ai Dragoni Regina, dice Vimercati Sanseverino: “Se i soldati di questo reggimento, da esso comandato, hanno sempre combattuto con tanto ordine e valore, ciò si deve in gran parte attribuire alla sua perizia nell’ammaestrarli, e difatti egli era stimato all’armata quale uno dei più distinti istruttori di Cavalleria”. Una notizia dolorosa colpisce Livio alla metà del 1810. Il colonnello Vincenzo Cotti, che aveva conosciuto sin dagli anni giovanili a Crema, è caduto eroicamente combattendo all’assedio della fortezza di Hostalric in Catalogna, spirando il 26 giugno, a trentotto anni.
Dallo Stato Maggiore alla ritirata di Russia
Nel 1811 Livio accetta la proposta di uscire dal corpo militare di appartenenza per entrare nello Stato Maggiore della prima Divisione territoriale di Milano. Si tratta di un avanzamento importante. L’entrata nelle strutture di Stato Maggiore gli apre prospettive di carriera più ampie di quelle reggimentali e gli consente di dare un contributo di maggior respiro agli sviluppi dell’esercito del Regno d’Italia. La qualifica ufficiale è di aiutante comandante, un passo precedente a quello di generale di Brigata. È da quest’anno che gli viene assegnato il grado di colonnello. Probabilmente a Livio dispiace dover lasciare l’ambito della cavalleria e in particolare il suo reggimento. Dopo quasi tre lustri di militanza come ufficiale degli Ussari e poi come ufficiale dei Dragoni, non è facile per lui dare commiato alla vita di squadrone e lasciare i suoi cavalieri ad altri responsabili. In ogni caso, Livio si dedica al nuovo incarico con molta responsabilità e perizia. Le sue doti organizzative, la sua capacità di relazione e una buona preparazione in materia amministrativa gli consentono di svolgere il nuovo lavoro al meglio. Per meno di un anno resta quindi nel corpo dello Stato Maggiore come uno dei 6 aiutanti comandanti. Fanno parte dello Stato Maggiore, in questo periodo, 7 generali di Divisione e 15 generali di Brigata, oltre ad altri ufficiali che operano come aiutanti di campo, aggiunti, ispettori, commissari di guerra, comandanti d’arme e aiutanti di piazza. In tutto, alla fine del 1811, si contano 206 ufficiali.
All’inizio del 1812 Livio è coinvolto nella preparazione della campagna di Russia. Viene nominato, sempre come aiutante comandante, Capo di Stato Maggiore divisionale, in una delle unità in partenza per la Russia, la Divisione Pino, guidata dal generale Domenico Pino, che deve far parte del IV Corpo d’Armata, posto al comando del viceré Eugenio e comprendente gran parte delle forze militari italiane. Nel complesso, vengono mobilitati oltre 700.000 soldati, dei quali circa 600.000 entrano effettivamente in azione oltre il Niemen in territorio russo. 300.000 circa sono francesi (compresi quelli dei territori annessi dopo il 1792). Forti contingenti sono quelli austriaci, prussiani e di varie regioni tedesche, polacchi, lituani, oltre che di altre nazionalità. Gli italiani sono circa 32.000 e provengono sia dal Regno d’Italia, sia dal Regno di Napoli. Va detto che i dati delle varie forze militari coinvolte non sono univocamente condivisi dalle diverse posizioni storiografiche, che ancor oggi esprimono oscillazioni quantitative. Ad esempio, la forza italiana è stata a volte indicata in 28.000 uomini e altre volte in 35.000 o più. Qualcosa di simile accade pure per il numero degli avversari russi e dei loro alleati. Anche il reggimento a cui è appartenuto Livio, i Dragoni Regina, partecipa alle operazioni.
Come Capo di Stato Maggiore della Divisione Pino, Livio parte per la Russia nel giugno del 1812. Dopo le fasi di dislocamento e concentramento, tra il 23 e il 25 giugno il grosso della Grande Armée attraversa il fiume Niemen (Memel in tedesco, Nemunas in lituano). Sono note le vicende storiche di questa campagna. La principale direttrice di marcia porta l’esercito invasore a raggiungere, in sequenza, Vilna, Vitebsk e Smolensk. Il 7 settembre la battaglia di Borodino (o battaglia della Moscova) è vinta da Napoleone ma non gli consente di mettere fuori combattimento l’esercito nemico, aprendogli comunque la via per Mosca. La capitale viene occupata tra il 14 e il 15 settembre, anche se è già stata evacuata dai russi. Viene distrutta per quattro quinti da un incendio subito dopo l’arrivo delle truppe napoleoniche. L’inverno è imminente e il territorio non offre le risorse per sostentare la massa di uomini che i comandi hanno condotto in quelle zone inospitali. Dopo poco più di un mese di permanenza al Cremlino, senza che lo zar Alessandro I aderisca alle proposte di pace avanzategli, Napoleone non può far altro che ordinare la ritirata. Questa inizia il 19 ottobre e si dimostra subito molto problematica. Anche Livio lascia Mosca con la Divisione Pino e inizia la difficile marcia di ritorno.
Dopo pochi giorni, tra il 24 e il 25 ottobre, al villaggio di Malojaroslavec (ma la località viene indicata con diverse grafie, come Mulojavostawetz, Malo-Juraslavetz e altre ancora), si svolge una delle battaglie più dure della campagna. Innumerevoli sono i resoconti che sottolineano il grande valore delle truppe italiane, protagoniste di quello scontro, e il ruolo avuto allora da Livio. Dice Vimercati Sanseverino che in questa battaglia “al dire di Napoleone, i bravi italiani hanno deciso una così brillante vittoria”. E qui “il Galimberti colse la più bella delle sue corone”. “Nel calore della zuffa il general Pino fu ferito in modo che bisognò trasportarlo fuori del campo. Allora la sua Divisione, priva di capo, cominciò a confondersi e ad intimorirsi: lo scoraggiamento già si comunicava agli altri corpi dell’armata, quando il Principe Eugenio ordina al Galimberti di prenderne il comando. Ritorna egli l’ordine e l’ardire alla Divisione, con essa carica l’inimico con maggior forza di prima: l’esempio rianima gli altri corpi e si ottiene una compiuta vittoria”. In realtà, questa descrizione non spiega le effettive dinamiche di quelle operazioni militari, basate sull’occupazione, la perdita, la riconquista e la difesa del villaggio. La posizione viene conquistata e mantenuta grazie alle furiose cariche italiane, che danno un esempio di valor militare grazie alla Divisione Pino e in particolare a Livio Galimberti, un Capo di Stato Maggiore ancora capace, coordinando sul campo un’intera forza divisionale, di caricare ripetutamente il nemico come il migliore dei capi squadrone. Ma ciò che conta, nel testo di Vimercati Sanseverino, segue subito dopo: “Non isfuggì a Napoleone il valore del Colonnello Galimberti, e sul campo di battaglia lo nominò Generale di Brigata. Egli conservò pertanto il comando della Divisione in tutta quella calamitosa ritirata, cui nulla offre la storia da potersi paragonare”.
Tra il 26 e il 29 novembre si svolgono i drammatici avvenimenti della Beresina, con la disperata battaglia che si combatte per poter attraversare il fiume. Successivamente Livio continua a guidare quello che resta della sua Divisione e gli altri reparti che si aggregano ad essa. Le vicende che seguono portano alla distruzione di buona parte della Grande Armée. Sono pochi i capi militari che riescono a salvare e riportare in Polonia e in Germania un numero significativo di superstiti. Tra questi c’è Livio, che ha la capacità di guidare con grande acume militare e con un profondo senso di umanità i suoi soldati fino alla salvezza. Dà l’esempio a tutti, è sempre in prima linea contro le aggressioni russe, le scorrerie dei cosacchi, gli enormi ostacoli che quella terra maledetta oppone ai suoi uomini. Si espone troppo e le condizioni proibitive di quella marcia, il gelo, la fatica, i continui e proditori agguati nemici minano irrimediabilmente le sue forze fisiche. Non lo dà a vedere, ma i suoi polmoni ne risentono. “In mezzo a tante sciagure egli salvò molti dalla morte col tenere, il più che si poteva, i soldati uniti, e col procurare che non mancassero affatto gli alimenti. Passò la Beresina, lottò a lungo con le privazioni, coi ghiacci, pure condusse a Marianwerder in Prussia forse un migliaio di soldati, numero considerevole in quel deplorabile stato di cose” (Vimercati Sanseverino).
Altri cremaschi sono coinvolti in quella ritirata. Tra loro, Antonio Allocchio, l’architetto Giovanni Massari, il dottor Agostino Mandonico, primario e chirurgo dell’Ospedale Infermi, Bartolomeo Pergami e il maestro Antonio Pavesi. Antonio Allocchio (1786-1837), che sarà poi l’iniziatore dell’Almanacco Cremasco, curandone le prime quattro edizioni riferite agli anni dal 1834 al 1837, ha lasciato un diario personale sulla sua esperienza riguardante la campagna napoleonica in Russia, la ritirata e la sua successiva prigionia. Questa testimonianza manoscritta, che consta di quattro parti ed è articolata in circa duecento pagine, è stata oggetto di una pubblicazione a cura di Angelo Lacchini e Aldo Scotti nel 2006, insieme ad altri scritti dello stesso autore (“Antonio Allocchio. Un intellettuale tra rivoluzione e restaurazione”). La campagna di Russia si conclude, in termini strettamente militari, con il ritorno oltre il Niemen, quasi sei mesi dopo l’attraversamento di questo fiume all’inizio delle operazioni, di tutte le forze scampate al disastro, anche se molti prigionieri e sbandati restano ancora in Russia. Il maresciallo dell’impero Michel Ney (il “Prode dei Prodi”) difende coraggiosamente il ponte sul Niemen dagli attacchi dei russi, che infieriscono sulle ultime formazioni napoleoniche in ritirata, coprendo fino all’ultimo le spalle alle colonne superstiti con la sua retroguardia. Infine il maresciallo si ritira a sua volta, dopo aver incendiato e distrutto il ponte. I suoi uomini sono gli ultimi soldati ad abbandonare il suolo russo, il 14 dicembre 1812.
Le ultime campagne militari e il ritiro dall’esercito
Quando Livio torna in Italia, è quasi irriconoscibile, tanto è sfigurato dalle sofferenze patite. Dopo un poco cade del tutto ammalato ma la sua robusta complessione gli permette di ristabilirsi quasi completamente. Resta però debole di polmoni e soggetto a crisi respiratorie. Continua comunque a far parte, ora col nuovo grado di generale di Brigata, dello Stato Maggiore. Nel 1813 sono in forza allo Stato Maggiore 8 generali di Divisione (Pino, Severoli, Fontanelli, G. Lechi, Bonfanti, Peyri, Palombini e Zucchi) e 19 generali di Brigata (Polfranceschi, Bianchi d’Adda, T. Lechi, Mazzucchelli, Fontane, Bertoletti, Balabio, Villata, Renard, Balathier, Martel, Saint Paul, Rougier, Moroni, Galimberti, Jacquet, P. Sant’Andrea, Bellotti e Peri). Sempre nel 1813 Livio accetta il comando della seconda Brigata della Divisione Palombini, facendo in prima linea la campagna militare di quell’anno e combattendo nelle battaglie “al ponte della Sava, a Lubiana, a Lippa, a Liwkinitz, a Obskina, al ponte della Wipach, ed assai si distinse nei combattimenti del 9 e 10 novembre a Peri, Ossenigo ed Ala, dove comandava l’avanguardia della colonna del centro” (Vimercati Sanseverino).
Nel 1814 Livio combatte con la sua Brigata l’8 e il 9 febbraio al Mincio e poi assume il comando della guarnigione di Mantova. A capo della terza Brigata della Divisione Zucchi guida personalmente le sortite del 20 febbraio a Ceriolo e Castelbelforte e quelle del 10 marzo a Castiglione e Roverbella. In aprile gli viene assegnato il comando ad interim di quella intera Divisione. Ormai il Regno d’Italia è destinato a terminare la sua esistenza istituzionale, seguendo in questo l’impero napoleonico. Evacuata Mantova, Livio si acquartiera a Cremona e dintorni. A Milano sono scoppiati i disordini del 20 aprile. Il 26 aprile avviene l’abdicazione del viceré Eugenio di Beauharnais. Dopo l’ingresso a Milano delle truppe di occupazione austriache, il generale Heinrich Johann Bellegarde avvia l’effettiva transizione verso la dominazione asburgica della Lombardia e degli altri territori via via sottomessi, assumendo la presidenza della Reggenza provvisoria e proclamando il 25 maggio, anche in forma ufficiale e legale, la definitiva cessazione del Regno d’Italia.
Livio si toglie a quel punto dagli impegni della vita militare. Ha da poco compiuto i quarantacinque anni ma “già sentiva i primi sintomi di una malattia che diciott’anni dopo lo doveva condurre al sepolcro. L’onore, al quale sempre subordinò le proprie azioni, gli permise allora di riposare, e sebbene nel 1815 sia stato nominato con decreto imperiale Generale Maggiore delle armate austriache, pure non gli fu più imposto alcun servizio militare” (Vimercati Sanseverino). Negli anni che seguono, iniziata la Restaurazione, Livio si ritira a Crema e decide di non assumere alcuna carica pubblica, nonostante le frequenti sollecitazioni in tal senso. L’unica eccezione è quella di una sua partecipazione, per alcuni anni, in forma del tutto disinteressata e più che altro onoraria, alla Congregazione municipale cittadina. Dal 1816 risiede nella casa al numero civico 362 della contrada di San Giacomo. È la casa in cui dal 1798 aveva abitato Giuseppe Guerini, ucciso il 4 febbraio 1807. Dell’omicidio era stato accusato il tenente colonnello Giovanni Battista Tainturier. Ne era nato un caso giudiziario rimasto sostanzialmente irrisolto fino a oggi. Si tratta del celebre “processo Tainturier”, di cui rimangono alcuni scritti a stampa presso la nostra biblioteca civica. Livio acquista (o prende in locazione, una verifica andrebbe fatta) la casa dagli eredi di Giuseppe Guerini: Nicola, Agostino, Gaetano e Maria (si veda il Sommarione Massari, al mappale 315, con il precedente numero civico 361 e la relativa annotazione per la correzione da apportare in 362). Oggi la casa è al numero civico 3 della via Alemanio Fino.
Gli ultimi anni
Livio trascorre l’ultimo periodo della sua esistenza conducendo una vita piuttosto ritirata, anche se non mancano per lui le occasioni, a Milano e in altre località, di incontrare ex-commilitoni e personalità appartenute ai precedenti assetti politici e militari. È un personaggio famoso, però è anche attento a evitare esposizioni pubbliche (oggi diremmo mediatiche) eccessive. Non rinnega mai il suo passato e le autorità austriache dimostrano sempre nei suoi confronti grande rispetto e considerazione, nonostante Livio sia stato un fiero e spesso micidiale avversario sul campo. Napoleone gli ha riconosciuto l’onorificenza della Corona di Ferro, con il grado di Commendatore (i gradi erano di Grande Dignitario, con assegno annuale di franchi 2.500, Commendatore, con franchi 527, e Cavaliere, con franchi 230). L’imperatore gli ha riconosciuto anche l’onorificenza della Legion d’Onore, con il grado di Cavaliere (i gradi erano di Grande Ufficiale, con assegno annuale di franchi 5.000, Comandante, con franchi 2.000, Ufficiale, con franchi 1.000, e Cavaliere, con franchi 250).
In realtà questo periodo finale di ritiro a Crema non è breve e consente a Livio anche un prolungato e affettuoso rapporto familiare con la sorella Marianna e i suoi due figli. Si potrebbe infatti dividere l’esistenza di Livio in tre distinti periodi. Il primo, dalla nascita nel dicembre 1768 fino ai mesi della Repubblica di Crema nella primavera del 1797, nel quale compie il suo corso di studi, collabora col padre nel laboratorio di oreficeria e non è ancora coinvolto in attività militari. Sono circa ventotto anni e mezzo. Il secondo, dalla formazione della compagnia di Ussari cremaschi tra il marzo e l’aprile 1797 fino al suo volontario ritiro dalla vita militare tra il maggio e il giugno del 1814. Sono circa diciassette anni. Il terzo, da quel momento del ritiro fino alla sua morte avvenuta nel giugno del 1832. Sono diciotto anni, quindi un periodo cospicuo della sua esistenza, durata sessantatré anni e mezzo.
Un aspetto che a volte può apparire controverso riguarda proprio Marianna Galimberti. Il registro parrocchiale di San Benedetto (“ex libro baptizatorum”) è chiaro: nel 1774, il giorno 4 giugno, Marianna nasce da Giovanni Galimberti e Bianca Capredoni, sposati nella medesima parrocchia. È la seconda annotazione su quel foglio. La prima riguarda la gemella Paola, uguale tranne che nel nome. Eppure a volte Marianna viene indicata come figlia di Livio. Ad esempio, quando il 2 maggio 1803 la Consulta di Stato accorda 40 contributi a determinate parenti di militari e si procede all’estrazione a sorte, tra le estratte e sorteggiate ci sono, tra le altre, secondo un testo consultato, Vittoria Viani e Marianna Galimberti, definite “figlie” dei due ufficiali allora in forza al 1° Ussari. Ma non è l’unica volta in cui ciò avviene. Anche fonti locali talvolta considerano Marianna non sorella ma figlia di Livio. Si potrebbe forse ipotizzare che Livio abbia avuto una figlia a cui ha dato il nome della sorella. Ma non esistono indicazioni, per lo meno nei testi consultati, di un matrimonio di Livio, di suoi figli, di una sua famiglia naturale. Non c’è nulla del genere nei registri parrocchiali verificati, nei testi a stampa, nelle testimonianze e memorie del tempo. La stessa esistenza di Livio, il suo continuo spostarsi da un campo di battaglia all’altro, in Italia e in Europa, rendono tale ipotesi molto improbabile.
Anche Vimercati Sanseverino, nel suo testo su Livio, dice che, quando Livio muore, ciò avviene “fra il compianto dei parenti, degli amici e di tutte le anime bennate che onorano la virtù, lasciando eredi dei pochi beni che possedeva la sorella e due nipoti, verso cui rivolse tutto il suo affetto, scampato che fu dai tanti pericoli cui si trovò esposto nella sua brillante militare carriera”. Il che sarebbe incompatibile, anche in termini giuridici, con l’esistenza di una figlia. Sappiamo che Marianna sposa il 6 agosto 1800, in Cattedrale, Pietro Antonio Donati. E sappiamo che il loro figlio Giovanni Cristoforo, nato l’8 ottobre 1802, il giorno 15 maggio 1828 sposa Giuseppa Maria Francesca Franchini, nata a Montodine il 6 marzo 1809, come risulta dal registro matrimoniale di San Benedetto. Chi sono i testimoni di nozze? Sono “Il Sig. Generale Maggiore Galimberti Livio”, che è lo zio (e non il nonno) dello sposo, e “Il Nobile Sig. Avvocato Conte Bonzi Orazio”, cioè quell’Orazio Bonzi che ai tempi della Repubblica Cremasca aveva proposto di innalzare in piazza una ghigliottina e che era a capo di una consorteria radicale definita dal popolo Compagnia Brusca (si veda in proposito il già citato articolo “La repubblica del cittadino Gambazzocca”, pubblicato il 10 aprile 2025). Presso la nostra biblioteca civica esiste un fascicoletto di tre pagine con un sonetto e un epigramma dedicatori: “Per le auspicatissime nozze del Signor Giovanni Donati, dottore in ambo le leggi, colla signora Francesca Franchini”. L’autore è il farmacista Luigi Diledi, institore presso la farmacia Chiappa di Crema e abituale versificatore, soprattutto su temi a carattere gratulatorio. In realtà, leggendo il seguito della dedica, si vede che questa è indirizzata “All’I.R. Generale Maggiore Livio Galimberti, Cavaliere della Legion d’Onore di Francia, Commendatore dell’antico Ordine della Corona di Ferro, e zio amorosissimo dello sposo”. Giovanni Cristoforo Donati e Giuseppa Maria Francesca Franchini sono i genitori del celebre avv. Pietro Donati. Suo figlio Giancarlo sposa Ginevra Marazzi e la loro figlia Maria Laura è l’ultima Donati del ramo di Cristoforo, vissuto a Crema alla metà del XVI secolo.
“Sopportando con filosofica rassegnazione la sua malattia, che prendendo di anno in anno un aspetto più grande si cangiò in un catarro cronico”, Livio muore il 29 giugno 1832, nella sua casa in contrada di San Giacomo al numero 362. Il 1° luglio viene tumulato nel cimitero maggiore di Crema. Gli vengono resi in città gli onori funebri degni del suo grado e una folla commossa partecipa al suo funerale. Una lapide con una significativa iscrizione funeraria viene collocata in sua memoria. Dice Benvenuti nel Dizionario Biografico Cremasco: “Questo marmo, che fu posto nel perittero a destra del tempio del cimitero, erigendovi nel 1883 la cappelletta Noli, venne tolto di là e collocato fuori, a sinistra della cinta del cimitero stesso”. Ancor oggi la lapide è visibile nel lato di mattina della cinta, 1ª fila, 28ª campata. Il testo è in latino ed è riportato da diverse fonti a stampa, a volte con traduzione italiana. Nel quartiere di San Bernardino, il Comune di Crema ha intitolato una via a Livio Galimberti.
Le citazioni da Faustino Vimercati Sanseverino sono tratte dal suo scritto necrologico in onore di Livio Galimberti redatto nel 1832. Il testo è stato pubblicato sull’Almanacco Cremasco per il 1835, curato e fatto stampare da Antonio Allocchio nel 1834. Benvenuti riporta integralmente nel Dizionario Biografico Cremasco il medesimo testo alla voce da lui dedicata a Livio Galimberti.
Nell’immagine: Giuseppe Rava (Faenza, 1963), “Carica dei Dragoni Regina alla Moscova (7 settembre 1812)”, olio su tela, 50x70, collezione privata.
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