20 giugno 2025

La filosofia in divenire di Agostino Cantoni

Nell’articolo di Pietro Martini dal titolo “Ricordo di don Agostino Cantoni (1925-2008)”, pubblicato su questo quotidiano online il 3 dicembre 2024, sono stati ricordati e approfonditi molti aspetti della biografia e dell’opera del sacerdote cremasco. A lui, il primo marzo 2025, l’associazione degli ex alunni del Liceo Ginnasio “Alessandro Racchetti”, dove Cantoni insegnò Religione fra il 1962 e il 1972, ha dedicato un convegno in cui i relatori, sollecitati dalla presentazione di Irene Formaggia e dalle domande di Walter Bruno, hanno focalizzato le proprie relazioni sulla filosofia (Franco Gallo e Nicoletta Matelloni), il lavoro con la FUCI (Edoardo Edallo), l’interesse per il linguaggio cinematografico (Daniela Ronchetti), la pastorale nella parrocchia di S. Giacomo e l’impegno della cura con la “Casa Famiglia” (Vittorio Vantadori), l’attrazione missionaria (don Federico Bragonzi) e la capacità di insegnare ai giovani con l’esempio e con il dialogo (Monsignor Franco Manenti). Da ciascuno è stato notato come don Agostino, sensibile ai segni dei tempi, abbia anticipato alcuni nodi cruciali del Concilio Vaticano II, forse ancor prima che venisse convocato.

Se volessimo ripercorrere alcuni momenti significativi nello sviluppo della filosofia di Cantoni, potremmo individuare tre periodi: il primo segna il passaggio dal giovane all’adulto; il secondo rappresenta il pensiero della maturità; il terzo indica un’ulteriore tappa che conduce al vecchio saggio. Come per ogni filosofo che si rispetti, in ognuna di queste fasi si evidenziano continuità e discontinuità, proprio come quando si studia, che so io, il giovane Hegel che muove i primi passi nella dialettica innamorandosi di giovani donne con le quali scopre “l’unità degli opposti”, confrontandolo con l’adulto che disserta di quell’argomento in un linguaggio tecnico che sfiora l’ermetismo del gergo per iniziati. In don Agostino il processo è in qualche modo inverso, poiché dopo molti anni dedicati a libri di ricerca filosofica, mai pubblicati “se non richiesti”, solo “per capire l’oggi culturale”, egli svela un animo poetico che pone l’intuizione al di là e al di sopra della fredda razionalità, e riesce a rivolgersi a tutti. Sì, anche a quegli ultimi che della filosofia diffidano, proprio come lui stesso, se quella disciplina si rinchiude in ristrette cerchie di pseudo esperti. Eppure qualcosa in sottofondo rimane costante, e riaffiora come meditazione, argomentazione, in una sorta di dialogo socratico capovolto, fra un maestro che nega di esserlo e giovani ribelli che lo interrogano.  

Dal giovane all’adulto

C’è un testo che si pone come nodo cruciale discriminante fra il periodo giovanile e quello della maturità, che in qualche modo coincidono con il “prima” e il “dopo” Concilio. Si tratta del saggio Il problema Teilhard de Chardin. Scienza-Filosofia-Teologia (Milano, Marzorati, 1969). Questa monografia, nell’ambito dell’opera filosofico-teologica di Agostino Cantoni, segna il passaggio da scritti apologetici a scritti più rispondenti alla realtà storico-culturale in divenire. Don Agostino non è più il giovane baldanzoso che ignorava la morte. Una volta ci raccontò che a vent’anni si era ammalato gravemente. I medici temevano potesse perdere la vita. A lui però non passò mai per la testa che avrebbe potuto morire. L’idea della morte per un giovane non è che una prospettiva lontana che non lo riguarda se non indirettamente: gli altri, i vecchi muoiono. Non è superficialità, è sano istinto di sopravvivenza, apertura verso il futuro, intenzionalità e progetto. Più avanti giungerà l’età della meditazione sulla morte, quando il declino del giorno si annuncerà con i toni rossi del tramonto. Ma ora anche lui è diventato l’uomo maturo deciso a non allinearsi a nessun tipo di conformismo, compreso quello dell’anticonformismo. 

Il “prima” si può collocare nel libro del 1960 dedicato a Michele Federico Sciacca. Trascendenza Teistica e Filosofia Cristiana (Torino, SEI, 1960). Dopo il primo capitolo teso a dimostrare l’identità di metafisica e filosofia – una filosofia che è premessa di una ascesa razionale a Dio come Verità e Soggetto –, attraverso un’analisi serrata dei presupposti della teologia naturale, si passa a una meticolosa disamina delle “prove” dell’esistenza di Dio, con un procedimento affine a quello di San Tommaso. Il linguaggio di Sciacca, ricco di neologismi, esprime una sostanziale convergenza con un pensare medievale. Non manca il riferimento all’ateo insipien, l’insensato che non sa quello che dice, poiché neppure pensa, “spensa”. Luigi Bogliolo, nella Prefazione, nota in Sciacca l’“originalità di pensiero” e l’“istanza interioristica” che risale “alla classicità platonico-agostiniana”. Ad Agostino Cantoni riserva un entusiastico encomio, a nostro parere eccessivo per un’opera di scuola, o per meglio dire di Scolastica.

Ben diverso il libro del “dopo”. Il titolo allude alla persistente difficoltà nel formulare un giudizio critico su un autore come Teilhard. Tramontato il tempo della “moda”, voltasi perfino in “rissa Teilhard”, ora che la pubblicazione delle opere complete del gesuita rende possibile una disamina equilibrata (si tratta in realtà di una pubblicazione che verrà completata nel corso del tempo con altri scritti rimasti inediti, fino a che vedranno le stampe le Œuvres complètes in 13 volumi, Éditions du Seuil, Paris 1955-1976), Cantoni si accinge ad affrontarne per la prima volta il pensiero, benché “il problema” persista. La scelta di occuparsi di un argomento eccentrico, lontano dai riflettori, annuncia un mutamento di prospettiva, ossia una conquistata autonomia culturale, evidentemente riconosciuta dai curatori della collana, Sciacca e Schiavone, in cui trova posto il libro. Il problema rappresentato dal “gesuita proibito” si colloca in un contesto in cui ancora non si sospettava che l’obbedienza potesse non essere una virtù. E d’altronde Teilhard non aveva mai violato il voto princeps della Compagnia di Gesù disobbedendo, poiché quand’era condannato all’esilio, se ne andava in esilio; quand’era rimosso dall’insegnamento in una certa sede, se ne andava da quella sede. Rimangono aperte le domande: chi è Teilhard de Chardin? Uno scienziato? Un filosofo? Un teologo? O forse “un apologeta che propone una nuova versione dell’eterno problema dell’incontro tra scienza e fede?” O magari una sintesi dei vari aspetti? La risposta potrebbe giocarsi sulla capacità di individuare un incontro fra quei differenti ambiti e mondi, rinunciando a punti di vista precostituiti, “per esempio quello della filosofia tomista o della teologia tradizionale”. E qui tocchiamo con mano la difficoltà non solo del problema Teilhard, ma della stessa enorme questione di una cultura cattolica aggiornata ai tempi. Una cultura che recepisca innanzitutto l’esigenza del rinnovamento evidenziata dal Concilio, e sappia dialogare ed accogliere una società secolarizzata, dove non è più possibile liquidare l’ateo come insipiens con una scrollata di spalle. In realtà i nodi da sciogliere sono molteplici, poiché, dice Cantoni, si deve evitare di “banalizzare la complessità” del problema, riportandolo a “una congerie di questioni e di risposte singole da giudicare fuori dal contesto globale”, anziché individuare “l’idea-chiave che dà fondamento” alla sintesi operata da Teilhard. In secondo luogo – e questo lo diciamo oggi – si deve rivedere la relazione con i non credenti, tenendo conto della trasformazione dell’interlocutore con cui il credente ha a che fare, secondo la distinzione proposta dal cardinale Martini fra pensanti e non pensanti. Poi ci si deve chiedere se è vero che la teologia possa intraprendere un dialogo costruttivo con le scienze. Infine si deve ricercare la possibilità che sussista ancora una cultura cattolica attrattiva, dopo una serie di tentativi di rinnovamento dall’interno che di fatto non hanno sortito risultati apprezzabili.

Per cercare di formulare alcune risposte, prendiamo le mosse dal fatto che il saggio di Cantoni individua nel pensiero teilhardiano, pur fra molti limiti, la “formidabile impresa” di opporsi alla “divergenza degli ordini di conoscenza”, e alla minaccia di “schizofrenia tra scienza e fede, tra scienza e filosofia, tra filosofia e teologia”.   La strada è quella di ricomporre l’“unità dello spirito”, coniugando “le esigenze dell’evidenza naturale” con quelle della “fede sovrannaturale”, in cerca di una “sapienza” che sia “globale e organica visione del mondo”. In una lettera del 1922 Teilhard si dichiara consapevole del rischio di impoverimento e imborghesimento  comportato da una “razionalizzazione del dogma”, ma riconosce che “sono pure legittime le esigenze di armonizzazione”. A nostro avviso, una globale e organica visione del mondo altro non è che filosofia. Quanto agli altri aspetti, ricordiamo che Cantoni scoprirà che il dialogo è molto più praticabile con l’ateo pensante piuttosto che con l’indifferente non pensante. Basta leggere ciò che sta scritto nella sua Lettura dei segni dei tempi del 2005. Ai giorni nostri tale apertura è ripetutamente confermata da scambi epistolari fra illustri laici autoproclamantisi atei e Pontefici decisi a redimerli. Si pensi al carteggio Scalfari-Papa Francesco, ma anche a colloqui più lontani nel tempo, come quello fra Prezzolini e Paolo VI (1970). Quella che agli occhi di Agostino Cantoni è “schizofrenia tra scienza e fede” rinvia al più ampio problema di un reale e leale confronto fra la scienza contemporanea e la teologia. Nel già citato incontro del primo marzo è stato sottolineato che da sempre vi è collaborazione fra scienza e teologia, altrimenti non si spiegherebbe neppure la possibilità che le “cinque vie” procedano all’interno di una visione del mondo aristotelico-tolemaica. Ma al di là delle riserve che comunque San Tommaso avanza nei confronti delle varie cosmologie, incapaci di interpretare la totalità dell’universo, è superfluo ricordare che la grandiosa operazione concordista fra ragione filosofico-scientifica e fede religiosa progettata dall’Aquinate si rivela impraticabile fin dall’inizio, per naufragare definitivamente nei secoli XVII-XVIII. D’altronde sarebbe inspiegabile un procedere di conserto fra una ricerca scientifica per definizione aperta e rivedibile e una fede fondata sul presupposto dell’attingibilità di una Verità assoluta. Nella situazione critica in cui versa nel XXI secolo la cultura cattolica, l’impressione è che la teologia proceda a tentoni, più rinunciando a principî che proponendo argomenti, oppure sforzandosi di convincere l’interlocutore di turno, ad esempio la meccanica quantistica, che alcuni concetti chiave (la relazione) erano già presenti nei misteri della fede (la Trinità).  

Fortemente critica è la recensione del testo Il problema Teilhard de Chardin che il gesuita Robert Faricy, autore di diverse opere su Teilhard, pubblica in The modern Schoolma. Vi si legge che Cantoni fraintende la metodologia di Teilhard, che nell’analizzare i tre livelli o fasi della fenomenologia, della Cristologia e della spiritualità non distingue adeguatamente i metodi utilizzati da Teilhard nella teoria dell’evoluzione e nella Cristologia, e che non considera il pensiero teilhardiano secondo il duplice criterio di validità delle idee: coerenza e produttività. Infine non comprende che la teoria dell’evoluzione non è né un’ipotesi né una metafisica, ma precisamente una teoria, un insieme ordinato di ipotesi. La conclusione del recensore è che questi limiti invalidano molte fra le conclusioni dell’Autore, in particolare quelle riguardanti il rapporto istituito da Teilhard fra naturale e sovrannaturale. 

A nostro parere, Cantoni sa destreggiarsi bene fra i molteplici aspetti del problema Teilhard. Innanzitutto l’Autore precisa che all’epoca della stesura del saggio restavano ancora inedite alcune fondamentali opere del gesuita. Riguardo alla filosofia di Teilhard, viene evidenziata una “ambiguità permanente”, poiché la cosiddetta filosofia dell’Unione creatrice non opera un salto qualitativo rispetto alla Fisica o Fenomenologia, né giustifica “l’esistenza, nel reale sperimentale, di un livello ontologico”. Per quanto attiene alle scienze,  nel capitolo II, “Evoluzione. Fatto o ipotesi?” viene sottolineata la necessità di porre il problema del metodo. La pretesa di documentare l’avvenire, annunciando l’ultimo tempo dell’evoluzione cosmica, non è sperimentalmente praticabile, dal momento che “solo il «fatto», il «già avvenuto» (il passato) o «ciò che sta avvenendo» (il presente) può essere provato sperimentalmente”. In sostanza, il problema del metodo “riaffiora da qualunque parte si affronti la questione […] del significato stesso di «scienza» secondo Teilhard”, che quando propone leggi inedite, come quella di “complessità-coscienza” procede in modo analogico. Ed è qui che Cantoni snocciola un lessico di neologismi coniati dal gesuita: quella legge è tradotta in termini di “genesi (centrogenesi, biogenesi, antropogenesi, noogenesi, Cristogenesi)” e di “operazioni (corpuscolizzazione, ominizzazione, planetizzazione, socializzazione, cristificazione, totalizzazione, pleromizzazione)”. La scienza sconfina nella filosofia e nella teologia, e ciò rende problematica “la validità di un discorso che invade campi tanto diversi per contenuto”. Il duplice criterio di validità delle idee, coerenza e produttività, riceve un’attenzione costante nello stesso II capitolo. Che la teoria dell’evoluzione non sia un’ipotesi, né una metafisica, ma una teoria, è vero, a condizione di chiarire quale genere di teoria. Spiega Cantoni, citando lo stesso Teilhard: “Una teoria, un sistema, l’evoluzione? Assolutamente no. Essa è molto di più: è una condizione generale alla quale devono conformarsi e soddisfare ormai tutte le teorie, tutte le ipotesi, tutti i sistemi se vogliono essere pensabili e veri”. Il  giudizio negativo del recensore, che parla di conclusioni invalidate riguardo al rapporto naturale/sovrannaturale, è verosimilmente dettato dal non accettare che Cantoni, pur riconoscendo a Teilhard il merito di aver riannodato il dialogo tra scienza e fede, lo valuti “un mediocre teologo”. E rincara la dose definendo il suo paolinismo “superficiale, approssimativo, sprovveduto di garanzie critiche contestuali”. Ma allora perché occuparsene? Forse perché in momenti di ripensamento come gli anni ’60 del XX secolo fa bene pensare che un gesuita dichiari di “amare l’evoluzione”, e di vedere in essa “il gesto interiore, immediatamente realizzabile nell’ambiente cristico”. E che si sbilanci fino a lodare il passaggio ad “una nuova forma di religione naturale: una religione della Terra e della responsabilità dell’uomo nel suscitare e animare il progresso del mondo, una fede appassionata nel valore e nella possibilità dello sforzo umano, nel carattere sacro della ricerca, nell’avvenire della storia”. E tutto ciò ben prima che Hans Jonas parlasse del principio responsabilità. L’uomo del XX secolo non è areligioso, ateo, anzi, “il nostro secolo è religioso, forse più religioso di tutti gli altri… solo che non ha ancora trovato il Dio da poter adorare”. Il gesuita, che già nel 1949 si interrogava sull’inquietudine religiosa contemporanea, era tanto ingenuo (?) da indicarla nel conflitto instauratosi nel mondo del pensiero e dell’azione tra un Dio evolutivo dell’“In avanti” e il Dio trascendente dell’“In alto”, e per di più tanto ardito da esporre ai superiori queste sue considerazioni. La risposta che ne ricevette fu che “la diagnosi non coincideva con le idee che al presente godevano favore nella Città eterna”. Non poteva non risultare accattivante quel pensatore scomodo che aveva individuato “tre pietre friabili” nel passaggio “dalla Chiesa del controllo dottrinale alla Chiesa laboratorio del Cristianesimo futuro”, come si esprime un altro studioso di Teilhard de Chardin, don Gianfilippo Giustozzi. Oltre all’assenza di democrazia nella Chiesa e alla presenza di una gerarchia che esercita un magistero autoreferenziale, la pietra friabile indicata dal sacerdote è la questione femminile.

L’adulto e l’Eterno femminino

Questione anche questa cruciale, affrontata da Agostino Cantoni in un altro testo dedicato all’opera teilhardiana L’Eterno Femminino ovvero: la concezione dell’amore. Sono trascorsi trent’anni dal Problema. Il problema rimane tale, ma assume tinte nuove, che segnano un lento ma inevitabile passaggio dalla maturità alla vecchiaia. Cantoni si è prodigato nella sua parrocchia per favorire pari dignità a uomini e donne con gesti concreti. Oggi nei riti della liturgia ad ogni preghiera, dedica, invocazione ai “fratelli” fa seguito “e sorelle”, a “tutti i santi”, “tutte le sante”, o piuttosto, per scrupolo estremo, l’ordine è inverso. Purtroppo ciò rimane ancora una sorta di nominalismo: come ai tempi della disputa degli universali flatus vocis, a cui non corrisponde una coraggiosa decisione di risolvere la millenaria emarginazione della donna dai ruoli ecclesiastici. Ma restiamo all’Eterno femminino: la precisazione del sottotitolo dice già che l’amore è la chiave di lettura di questo concetto originariamente letterario, tradotto dal gesuita nei termini della propria visione evoluzionistica scientifico-teologica. Il tema offre l’occasione per tentare un riallineamento sull’ortodossia cristiana, riaffermando il concetto dell’analogia umano/divino, terreno/celeste, transeunte/eterno. L’analogia dinamica si iscrive all’interno della forma di evoluzionismo più bergsoniano che darwiniano, impreziosito di echi suggestivi, risonanze emotive, concetti più accennati analogicamente che dettagliati razionalmente. Alla fine il femminino altro non è che l’amore, per l’appunto, ma un amore non effimero, non mortale: sintesi di fecondità e spiritualità, la donna è Bellezza dei tempi nuovi, immateriale e celeste, dove il Corpo è sublimato e l’anima divinizzata. “Presto non vi resterà altro che Dio, in un universo interamente verginizzato”, profetizza Teilhard. L’amore è capace di muovere l’essere. Il principio del femminino, che ha attratto Dio in questo mondo con l’Incarnazione, è coeterno a Dio. E anche quando lo si crederà assente, sarà lì con la sua luce. Questo è il suo destino.

Dall’adulto al vecchio saggio innamorato della poesia 

“Il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta… Il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene, e in tutti i modi, e non starò a lesinargli le cure necessarie”. Il vecchio che così si esprime non è don Agostino, a cui pure non mancano problemi di salute negli ultimi anni. È l’imperatore Adriano nelle Memorie di Marguerite Yourcenar. La reazione a quel cambiamento che ci invade, più insidioso del “corpo che cambia” dell’adolescenza, e ci rende estranei al nostro stesso involucro di carne, non è uguale per tutti. Ma a tutti, chi più chi meno, accade di avere a che fare con la cura. C’è la Cura che nella filosofia di Heidegger  per prima dà “forma” a un essere fatto di Terra, e a cui Giove infonde lo spirito. C’è la cura della canzone di Battiato. La cura per chi ha bisogno del nostro sostegno, e la più difficile: quella che dobbiamo accettare di ricevere dagli altri. Don Agostino le conosce tutte, e diviene un vecchio saggio. Ora con maggiore consapevolezza osserva la natura, ascolta musica e gioisce della vita. Il suo linguaggio si fa allusivo, i suoi pensieri si traducono in aforismi, le sue frasi sono parche di parole, ma ognuna getta semi. La razionalizzazione cede il posto all’intuito. La filosofia, senza abbandonare il rigore logico e lo scrupolo di documentazione storica, si inchina alla bellezza della poesia. È l’ora del Pensare africano. (nel volume collettaneo Metafisica e filosofia della religione, Perugia, Alfagrafica, 2004). Nel saggio, ricco di ampie trattazioni di testi dedicati da studiosi per lo più francofoni a differenti regioni africane, sembrano sciogliersi alcuni nodi del problema Teilhard. Infatti “a differenza della problematicità del pensiero occidentale, che deve formulare una soluzione teorica per ogni questione, distinguendo ciò che è ragione dai sentimenti, il pensiero africano non divide ciò che è solo naturale da ciò che è spirituale o soprannaturale”. E ancora: “nell’africano la ragione e il sentimento, ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale trovano una sintesi”. La lettura ci conduce attorno al fuoco, sotto all’albero della saggezza, in una sera dove le persone del villaggio si riuniscono per cantare, “non all’unisono ma in sinfonia, il trionfo della Vita sulla Morte”. Un ritorno all’oralità che avrebbe fatto gioire il maestro Socrate. Il pensare africano diviene una sorta di stato di natura “che non esiste più, non è mai esistito, e forse non esisterà mai” (Rousseau): non ipotesi razionale, ma mito di cui possiamo all’occorrenza avvalerci come criterio per meglio giudicare la nostra condizione di occidentali “civilizzati”.

La vita e la morte occupano la scena nei diari degli ultimi scritti di Agostino Cantoni. Si possono leggere queste pagine nel Quaderno n. 7 del Caffè filosofico di Crema, Dialogo sulla morte fra uno psicanalista, un filosofo e un sacerdote (Secondo Giacobbi, Patrizia de Capua e don Franco Manenti), pubblicato nel maggio 2009 con un “Ricordo di don Agostino Cantoni”. Vi si ritrovano alcuni atteggiamenti tipici del suo porsi nei confronti del senso dell’esistenza: il prevalere della speranza sull’angoscia, la favola della foglia Muriel, l’essenziale invisibile agli occhi, il privilegio del bambino, il suo essere simbolo del credente che ripone  suprema fiducia nel Signore. La ricerca dei segni di speranza coinvolge ancora una volta Teilhard de Chardin con la planetizzazione dell’amore: la tecnica a servizio dell’uomo. Ma il discorso non è vuoto vaneggiamento utopistico, è piuttosto un amalgama di sogno e realismo,  come il “guazzabuglio del cuore umano” di manzoniana memoria, con un pizzico di autoironia. C’è “il viale del tramonto”, con la diagnosi medica “incipit terza età formalmente dichiarata all’anagrafe con visita medica. Un conto è sentirsi anziano, un conto è averne l’età. Adesso ci sono entrambe le cose”. E infine, nell’ultimo Natale, c’è l’abbandonarsi al Padre con la lampada della fede sempre accesa. “Grande fortuna mi è toccata nel familiarizzare con Lui fin dalla nascita, in contesto di genitori contadini profondamente credenti”, scrive Agostino nel 2007, per l’ultimo Natale. Così finisce l’“avventura incredibile” della vita. “L’unico rimpianto è di non averla spesa con tutta l’intensità che meritava. Ma Dio è così grande nell’amore…”. Solo il giusto rimpiange di non aver fatto abbastanza.

Patrizia de Capua


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti