21 dicembre 2025

Fra tradizione, mito e mercato: luci e ombre liuteria italiana raccontate dal Maestro Alessandro Voltini

Alessandro Voltini è uno dei maestri liutai più rispettati della scena italiana contemporanea. Vincitore del Concorso Triennale Internazionale di Liuteria nel 1994 con un violoncello, ha dedicato la sua carriera alla costruzione, al restauro e all’insegnamento della liuteria, tra tradizione e innovazione.

La sua esperienza internazionale lo ha portato a confrontarsi con approcci diversi alla costruzione e al restauro degli strumenti, da Norimberga a Lione, e lo ha portato a riflettere sulle sfide attuali della liuteria italiana. Oggi, la disciplina affronta una serie di criticità: la competizione globale, il fenomeno dei “violini in bianco”, la pressione commerciale che talvolta sopravanza la qualità artigianale, e il rischio di una formazione uniforme e troppo centrata sulla copia sterile di modelli storici. Voltini rappresenta una voce autorevole per capire come sia possibile conciliare tradizione, artigianato e innovazione, senza sacrificare il valore culturale e musicale della liuteria italiana.

Cosa l’ha spinta a scegliere la liuteria come professione in una città già così ricca di tradizione?

La mia passione per la liuteria è nata quando ero ragazzo. Passando davanti alla vecchia sede della Scuola di Liuteria in Piazza Marconi, rimanevo incantato a guardare dalla presidenza quei meravigliosi strumenti esposti. Era una visione che mi attirava come una calamita, qualcosa che univa arte, storia e manualità in un’unica immagine.

La spinta iniziale è stata soprattutto la soddisfazione dell’artigiano: l’idea di creare qualcosa dall’inizio alla fine con le proprie mani, di seguire tutto il processo, dalla materia grezza allo strumento finito. È una soddisfazione molto concreta, quasi fisica, che nasce dal vedere un oggetto prendere forma e acquisire una funzione precisa, quella di produrre musica.

All’inizio ho conosciuto diversi liutai, anche americani, e ho avuto modo di osservare l’ambiente di lavoro, il clima delle botteghe, il rapporto con i musicisti. Questo mi ha fatto maturare l’idea di frequentare la scuola di liuteria. I miei genitori inizialmente non erano favorevoli, ma col tempo si sono convinti e mi sono iscritto.
Quella prima motivazione — il lavoro manuale, la creazione, il trasformare il legno in qualcosa che ha una finalità artistica e musicale — è rimasta costante ed è ancora oggi alla base del mio modo di intendere questa professione.

Come descriverebbe il suo percorso formativo tra Cremona, Norimberga e Lione? Quale esperienza ritiene più decisiva?

Sono state tre esperienze molto diverse tra loro, ma proprio per questo estremamente formative.
Cremona ho ricevuto una formazione legata alla tradizione, alla manualità e all’impostazione classica del lavoro in bottega. È stata una base importante, ma non esaustiva.

Norimberga, presso il Germanisches Nationalmuseum, ho conosciuto un approccio completamente diverso: quello museale. Lì ho imparato che il restauro non è solo un intervento tecnico, ma anche un atto di responsabilità culturale. Ogni strumento viene studiato per capire se l’obiettivo sia il recupero funzionale o la conservazione come documento storico, e fino a che punto un intervento possa compromettere l’originalità dell’oggetto.

Lione, invece, ho lavorato in un laboratorio privato dove l’obiettivo era chiarissimo: lo strumento deve tornare al musicista e deve funzionare perfettamente. Qui contava la resa sonora e funzionale, e non la visibilità dell’intervento di restauro.
Dire quale sia stata l’esperienza più decisiva è difficile: Norimberga mi ha dato un approccio culturale e metodologico, Lione una competenza tecnica molto avanzata. Insieme hanno completato la mia formazione.

Alcuni critici sostengono che oggi molti liutai inseguano più il riconoscimento che la qualità sonora. Lei come risponde a questa critica?

Credo che questa critica abbia una base reale. È più semplice concentrarsi sulla perfezione estetica e stilistica che affrontare seriamente il problema della qualità sonora, che è molto più complesso e meno immediatamente visibile.

Un po’ come succede nel mondo della musica: ci sono esecuzioni tecnicamente impeccabili a cui però manca una vera interpretazione. Nella liuteria può accadere lo stesso: strumenti perfetti dal punto di vista visivo, ma meno convincenti dal punto di vista acustico.

In Italia siamo indietro su questo fronte. In America, da oltre quarant’anni, si lavora sulla sperimentazione acustica con équipe multidisciplinari formate da musicisti, fisici, programmatori e università. Qui, invece, questo tipo di approccio è stato a lungo trascurato, e oggi ne paghiamo le conseguenze.

Il fenomeno dei cosiddetti “violini in bianco” ha generato molte polemiche nel mondo della liuteria. Qual è la sua opinione?

Il fenomeno nasce chiaramente dalla richiesta di strumenti a prezzo più basso, ma è diventato nel tempo qualcosa di più problematico. Per rispondere a questa domanda si ricorre spesso a strumenti in bianco, realizzati da terzi e semplicemente rifiniti a Cremona, sfruttando una normativa che consente di apporre la dicitura “Made in Italy” anche con una percentuale minima di lavorazione svolta in Italia.

Il punto critico, però, non è solo la legge, ma l’assenza di controlli e soprattutto la mancanza di una reale deontologia professionale. Si è accettato, spesso senza porsi troppe domande, un sistema che consente di immettere sul mercato strumenti che poco hanno a che fare con la tradizione liutaria cremonese, ma che ne utilizzano il nome come marchio commerciale.

Questo ha prodotto un danno d’immagine serio alla liuteria contemporanea: il nome Cremona viene svuotato di significato e ridotto a un’etichetta. La liuteria storica resta intoccabile, ma quella di oggi rischia di perdere credibilità proprio per questi compromessi, che nel lungo periodo paghiamo tutti.

Leggi l'intervista completa a questo link sulla rivista Il Suono e L'Arte.

Filippo Generali


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