31 ottobre 2021

Halloween e Ognissanti, non c'è poi così tanta differenza. Anche nel cremonese riti e usanze che si perdono nel tempo

Ogni anno torna la polemica sulla ricorrenza di Halloween, ritenuta totalmente estranea alla cultura ed alle tradizioni popolari italiane.  Come vedremo, però, le cose non stanno esattamente così, perchè, anche nella nostra provincia, riti, tradizioni, leggende circondano la notte di Ognissanti, che coincide appunto con quella di Halloween, anche se è decisamente più antica. Il termine “Halloween” deriva dall’antico inglese «All Hallows eve», indica cioè la vigilia della festa di tutti i Santi o Ognissanti («Hallow» è l’antico modo di dire Santo) e viene festeggiata fin dall’VIII secolo, da quando papa Gregorio III sposta al 1° novembre la solennità di Ognissanti, pare su richiesta di monaci irlandesi e papa Gregorio VI, su istanza del re franco, nell'835 estende la festività a tutto l’Occidente. Solo verso la fine dell'Ottocento si inizia a sovrapporre Halloween alla festa  autunnale di origini celtiche di Samain o “la fine dell’estate”, che cadeva il 1° novembre ed era la festa più importante dell’anno perché celebrava l’inizio dell’anno nuovo, quando il dio della tribù si univa in matrimonio con una dea della natura. Pertanto si credeva che la vigilia di Samain fosse un giorno magico in cui accadevano molti fatti strani. Il Cristianesimo, spostando al 1° novembre, Capodanno pagano dei Paesi Nordici, la festa di Ognissanti, a cui unì il ricordo dei defunti, si innestò sull’antica religione pagana trattenendone alcuni aspetti, come i falò e le lanterne, cercando di arricchire con nuovi significati usi e tradizioni preesistenti. La festa di Ognissanti e la commemorazione dei defunti sono parenti stretti non solo nella liturgia, ma anche nell’immaginario popolare: ci sono dei giorni particolari nel calendario antico, quando il velo che separa la terra dei vivi e quella dei morti si fa più sottile ed è possibile che questi ultimi passino di nuovo dalla “nostra” parte. Uno di questi è appunto la notte di Ognissanti ed il suo seguito il 2 novembre. 

Sicardo, vescovo di Cremona, (morto nel 1255) nel “Mitrale” descrive un vero e proprio triduo che durava dalla vigilia di Ognissanti fino al giorno della commemorazione dei defunti ed elenca anche una precisa serie di prescrizioni da osservare nella sepoltura. Innanzi tutto ogni defunto doveva essere accompagnato al sepolcro solo dai suoi simili, e quindi un diacono dai diaconi, un sacerdote da altri sacerdoti, un laico dai laici, con la sola eccezione delle donne che erano esonerate da questa pratica. Prima di chiudere la tomba vi si deponevano oggetti di valore simbolico: acqua benedetta per ingannare il demonio, nella convinzione che il diavolo tentasse il corpo del defunto se non era ci fosse riuscito quando era in vita; incenso, contro il fetore ma anche per simboleggiare la preghiera che deve accompagnare il defunto, ed il carbone, in quanto l'elemento che dura maggiormente sotto terra e, di conseguenza, destinato a segnalare la presenza di una sepoltura. Infine si deponevano nella tomba vari vegetali: edera o lauro, simboli della vita eterna; rami di cipresso, sia perchè odoroso, sia perchè estinato a non germogliare una volta tagliato e, quindi, per analogia, di impedimento al morto per tornare in vita. Come spiega Sicardo: “Si fanno queste cose non perchè siano i cadaveri ad aver significato, ma sia per allegoria, sia per la speranza nella resurrezione sia per provocare la benevolenza divina, cui sono graditi tali gesti di pietà”. 

Ancora alla fine del Settecento era in vigore un'usanza ricordata già da Giuseppe Bresciani nel secolo precedente, quando la sera di Ognissanti “si sonano tutte le campane delle Chiese della città al disteso, e tutti nelle loro case pregano per l'anime dei Morti”. Con il trasferimento dei cimiteri all'esterno del perimetro urbano, allontanando le sepolture dall'abitato cittadino si diffuse la credenza che portasse fortuna essere tra i primi a visitare i cimiteri, in quanto i defunti sarebbero stati riconoscenti di tali attenzioni. E' dunque testimoniato l'uso, sino alla fine dell'Ottocento, di trascorrere l'intera notte davanti al camposanto in attesa dell'apertura dei cancelli, ingannando il tempo intorno a falò improvvisati per riscaldarsi dal freddo intenso, mangiando caldarroste e bevendo vino fino all'alba. Una volta aperto il cimitero, chi aveva vegliato l'intera notte si recava sulle tombe dei propri cari per accendere i ceri, nella convinzione che quelli consumati sulle tombe il 2 novembre avessero poteri miracolosi. Per questo motivo la veglia poteva durare qualche ora ed al termine, una volta che il cero si era estinto se ne raccoglievano i resti, che venivano portati a casa e nuovamente fusi per formare piccole candele, accese nelle occasioni più importanti oppure in presenza di qualche grave calamità. Giovanna Gregori Maris ricorda un'altra tradizione della mattina del giorno dei morti, quando “la gente accorreva al cimitero per accendere là i propri lumi, portando corone di fiori metallici da disporre sulle tombe. Sarebbero state sostituite l'anno dopo. Le vendevano nei negozi di via Aselli, per la quale passavano tutti i funerali; ma le più grandi e belle avevano i loro punti di vendita in due negozi del centro. Esposte alle intemperie, ben presto queste corone davano di sé un ben misero spettacolo, tanto che la municipalità, negli anni venti, ne proibì l'uso. E proibì anche, a favore della lampadina votiva, l'uso delle candele, ripristinate subito dopo la seconda guerra mondiale”.

Tante sono le credenze nelle diverse zone d’Italia, con l'ispirazione di fondo di rendere vicino il mondo dei morti. Si tratta di leggende legate, innanzitutto, all’idea che la vita e la morte sono comunque, sempre, inevitabilmente congiunte e rappresentano anche il modo, per i vivi, per continuare a mantenere forti legami con i propri defunti. E per sentirli più vicini.

Nel cremonese un ricordo dell'alternarsi dei cicli stagionali è in un'usanza, riportata da Luciano Dacquati, secondo cui le ragazze in età da marito al mattino del 1° novembre estraevano dai cassetti i fiori di campo seccati raccolti durate l'estate, realizzando con essi una treccia che poi gettavano sulle spalle e, dalla forma che la treccia assumeva, cercavano di leggervi la lettera dell'alfabeto con cui iniziava il nome del promesso sposo. Anche nei proverbi popolari il 1° novembre segnava l'inizio della stagione fredda: “Per töti i Sàant, gabàan e guàant”, per tutti i Santi giaccone pesante e guanti; oppure “Per Ogbnisàant, manìsa e guàant”, cioè un manicotto di peloe guanti. Le giornate, poi,si accorciano sempre di più: “El sùul di Sàant el düüra dèla cà al càamp”, il sole del giorno di Ognissanti dura solo il tempo di andare dalla cascina al campo, senza neppure il tempo di svolgere lavori all'aperto mentre si avvicina il letargo invernale C'era poi un'esclamazione popolare, “misàanti!”, per i miei santi!

Un'usanza diffusa in molti paesi del cremonese era il “rosario dei morti”, recitato in casa la sera del 1° novembre, con la partecipazione di tutti i membri della famiglia. La coroncina del rosario era formata con collane di castagne, dette “filsòon”, che poi venivano mangiate. D'altronde le collane di castagne costituivano un ornamento tipico del 2 novembre per grandi e piccoli.

Nel Cremasco si credeva che il 2 novembre i defunti tornassero nelle proprie case per dormire nel proprio letto e per questo motivo le donne si svegliavano prima del solito, facendo alzare anche il resto della famiglia, poi rifacevano i letti prestando particolare attenzione a sprimacciare bene i guanciali, in modo che i defunti, stanchi per il lungo viaggio, potessero riposare tranquillamente. Per lo stesso motivo, ma partendo da presupposti diversi, in certi casi i letti non venivano affatto rifatti per consentire ai defunti di trovarsi maggiormente a loro agio a contatto con il tepore dei congiunti. Nel Casalasco, in previsione del ritorno dei defunti, ma questa volta in occasione del Natale, la sera della vigilia, consumata la cena tradizionale si lasciava la tavola apparecchiata per i propri morti. Una variante del rito consisteva nel preparare a tavola la sera del primo novembre tanti posti quanti erano i defunti recenti e le vivande imbandite venivano lasciate intatte terminata la cena. In altri casi le usanze si sovrapponevano, cosicchè dopo aver rifatto i letti al mattino vi si mettevano accanto una brocca di vino ed un piatto di castagne cotte. 

Nel territorio di Annicco, ricorda Luciano Dacquati, il 2 novembre si mangiava pane fatto con miglio anziché frumento, che veniva cotto nei forni delle cascine oppure nelle singole abitazioni e, forse in segno di penitenza, non si beveva il vino solito, ma il “més véen”, o “birèlo”, cioè il vino ottenuto dalla seconda pigiata dell'uva o, in alternativa, si metteva in tavola il “véen mes'ciàat”, cioè mescolato con acqua. Sempre nella stessa zona si usava cuocere una pane di forma piccolissima, chiamato “pàan d'òor” o “pàan d'i àangei” che durava molti mesi e che, se non consumato nel giorno dei morti, veniva riposto come una reliquia in mezzo alla biancheria.

Sempre in tema di cibo Giuseppe Bresciani, nel suo “Diario curioso”, racconta che nel Seicento “molti nobili et altri dispensavano pane, e denari a poveri per l'anime de Morti”, un'usanza che nelle nostre campagne è rimasta fino ai primi del Novecento, nota come “pàan di mòort”, con cui veniva regalato ai poveri farina bianca e pane.

E non si può concludere questa carrellata senza ricordare una poetica tradizione cremonese rimasta in vigore fino al 1956, quando venne demolito per ragioni di sicurezza l'emiciclo Marchetti del cimitero civico, dove esisteva la tomba della “santa sposa”. Una sconosciuta di cui non si sa nulla, se non che era morta appena ventenne e sepolta tra i sepolcri della famiglia Bussani, ma facilmente riconoscibile per la presenza di un piccolo ritratto dipinto ad olio con l'iscrizione “Con vent'anni nel cuore/sembra un sogno la morte/ eppure si muore”. Un'immagine che finì con il colpire profondamente la sensibilità dei cremonesi, che fin dal 1872 iniziarono a rivolgersi alla sconosciuta sposa con suppliche di ogni genere. Furono gli innamorati  per primi a recarsi in pellegrinaggio ed a lasciare scritte invocazioni e frasi augurali, riempiendo la sepoltura con migliaia di messaggi che si sovrapponevano gli uni sugli altri, invadendo anche le tombe vicine: “Fa che Margherita mi sia fedele”, “Intercedi perchè siamo felici tutta la vita”, “Prega che Carlo non mi abbandoni”. Poi le richieste diventarono più impegnative: “Buona creatura, prega per me”, “Fai guarire mio figlio”, e via dicendo, fino a quando il bombardamento del 10 luglio 1944 non distrusse irreparabilmente il tumulo della giovane sposa. Non si interruppero però le suppliche dei cremonesi, che trovarono spazio sulle altre lapidi tanto che ancora nel 1955 c'era chi scriveva: “Ti prego fa che sia promosso agli esami”, “Ti raccomando mio figlio che deve partire per la Marina, “Possa la tua intercessione conservare la salute e la pace”, e moltissime altre. La consuetudine ebbe definitivamente fine quando, nel 1956, fu demolito, perchè ormai divenuto pericolante, l'emiciclo Marchetti e le 213 salme che vi si trovavano furono traslate altrove.

 

Fabrizio Loffi


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