Il mitico comandante partigiano che si rifugiò da Gianni Brera. Il cremonese Giulio Seniga aveva prelevato 421.000 dollari dai conti segreti del PCI
“Ordinato il mio bagaglio, un bagaglio che scotta, lascio Roma diretto a Milano, dove troverò ospitalità in casa di Gianni, un amico della lotta partigiana, che dopo la guerra ha fatto una gran carriera nel giornalismo”. Così raccontò Giulio Seniga, anni più tardi, quando decise di mollare i capi del PCI, causando il maggior danno possibile al partito, da cui si sentiva tradito nei suoi ideali più profondi (Giulio Seniga, Credevo nel Partito, a cura di M. Antonietta Serci e Martino Seniga, Pisa, BFS edizioni, 2011).
Molti, a partire da quel 25 luglio 1954 – data simbolica assai significativa per l’Italia, con la caduta del Regime – si erano chiesti cosa fosse questo “bagaglio che scotta”, quali fossero i molti documenti riservati del partito, riguardanti soprattutto i rapporti con l’URSS, a quanto ammontasse il tesoro, prelevato ai fondi segretissimi del PCI da un suo uomo simbolo. Dopo anni di silenzio, in tempi più recenti, Giulio Seniga confessò a Carlo Feltrinelli “ho preso un totale di 421.000 dollari americani”. Certamente arrivati alle casse del partito dall’URSS, che riconosceva al partito di Togliatti di essere il più grande movimento comunista d’Occidente. Per questa ragione i dirigenti di Via delle Botteghe Oscure non denunciarono Seniga: avrebbero dovuto dare ragione dell’origine di una così ingente somma.
E’ inseguito e minacciato da molti esponenti del partito, tra cui il dirigente cremonese Arnaldo Bera, più tardi senatore per due legislature – in quegli anni giravano ancora molte armi tra coloro che avevano fatto la Resistenza. Si rifugiò a Milano dal suo amico e compagno di lotta Gianni Brera, diventato importante giornalista sportivo, che gli disse subito: “Farai la fine della pulcetta anarchica”. Il riferimento cólto di Brera citava una poesia di Trilussa, con una pulce che si butta tra gli ingranaggi di un orologio per arrestarne il moto, ma ne venne schiacciata.
Forse citando indirettamente il dantesco “biondo era, e bello…”, così lo descrisse Mirian Mafai, nel suo testo: “L’uomo che sognava la lotta armata”: “Un bel ragazzo, alto, biondo, con gli occhi chiari, un’aria insolente”. Cremonese (nato a Volongo nel 1915 da un bracciante e da una sarta), tecnico presso l'Alfa Romeo di Milano, militante operaio, entrò in contatto con il Partito Comunista clandestino, fino a diventare nei mesi successivi al 25 luglio 1943 e all'8 settembre un prestigioso ed anche leggendario capo partigiano (nome di battaglia: Nino), collaboratore strettissimo del comandante Cino Moscatelli e di Pietro Secchia. Per sfuggire all'arresto fuggì in Svizzera, si unì ai reparti "garibaldini" nella val d'Ossola, partecipando alla fondazione e alla difesa della famosissima Repubblica dell’Ossola.
Il mito di combattente partigiano si deve in particolare a due episodi. Il primo, la famosa operazione “Mercurio”, che consistette nella deviazione di un convoglio ferroviario, venti vagoni di metalli pregiati e bombole di mercurio, messo in salvo in Svizzera, sottraendolo ai Tedeschi. Il carico venne restituito all’Italia nel dopoguerra. Il secondo è citato come "il salto del Nino": per sfuggire ad un rastrellamento in alta quota il 13 novembre 1944 presso il Passo Cingino, precipitò con un salto di più di cento metri sui nevai. Venne salvato con diverse fratture e si nascose durante l’inverno in una baita a 2200 metri, dove riuscì a sopravvivere per circa due mesi anche se privo di cure mediche, raggiungendo poi la valle appoggiato ad un bastone per unirsi ai compagni di lotta fino alla fine della guerra.
Ben conosciuto a Cremona negli ambienti della sinistra, operò per anni nella Federazione del PCI cremonese, girando nei paesi ad organizzare sezioni ed iniziative con la sua mitica motocicletta. Chiamato a Roma da Cremona nel 1947, da Pietro Secchia e da Palmiro Togliatti venne fatto responsabile dell'apparato di riserva semiclandestino, che doveva mettere in salvo fondi, documenti, dirigenti, in caso di un possibile colpo di stato della destra sostenuto dagli USA. Erano a disposizione anche due piccoli aerei per fuggire nei paesi dell'est. Uno di questi, un Sokolov cecoslovacco, era riservato alla salvezza di Togliatti e per guidarlo Seniga frequentò un corso di volo presso l’Aeroclub di Roma: così scrive Maria Antonietta Serci, storica ed archivista dei documenti della famiglia Seniga. Gli vengono affidati incarichi delicatissimi: organizza dimore clandestine per i dirigenti comunisti, vigila sugli ingenti fondi segreti del Partito, ha accesso a notizie riservate alle quali accedono solo altre due persone, il segretario e il vicesegretario: Palmiro Togliatti e Pietro Secchia, a cui Seniga fa riferimento per le sue posizioni più “rivoluzionarie” e “filosovietiche”. Un uomo di primo piano nell’organizzazione, dunque.
Quando giunse a Roma, e già era molto diffidente verso la “svolta di Salerno” compiuta dal Partito, rimase profondamente deluso della burocratizzazione e dell'opportunismo di dirigenti e funzionari, che lui chiamava "ciurla", i quali ormai avevano deposto ogni idea di rivoluzione. Così scelse una data simbolica per il suo gesto clamoroso. Critico nei confronti della politica di Togliatti e dello stalinismo, lascia le cariche di funzionario, il 25 luglio del 1954, scegliendo una vita priva di gloria e di carriera per dedicarsi fermamente alle lotte della classe lavoratrice, stando sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi. Pur disponendo di così ingenti fondi, si attribuì uno stipendio di operaio specializzato, visse con la famiglia in un modesto appartamento, e mise le somme a disposizione di iniziative politiche e di case editrici alternative.
Come mai, c’è da chiedersi, si rivolse in quel frangente così pericoloso proprio a Gianni Brera? Il giornalista sportivo prestigioso, che a 30 anni era già condirettore della “Gazzetta dello sport”; il giornalista assai acculturato, con un acume ed una originalità di giudizio, oltre che di stile, eccezionali; che rinnoverà il lessico del calcio: centrocampista, contropiede, incornata, pretattica, melina, goleador, rifinitura, libero, sono tutti termini introdotti da lui. Aveva la capacità di coniare epiteti per gli sportivi come si usava fare per gli eroi omerici. Chi non ricorda “Abatino” per Rivera, “Rombo di tuono” per Riva, “Bonimba” per Boninsegna, “Giacinto Magno” per Facchetti, “Simba” per Gullit. E per i due campioni della città dei violini? “Il bell’Antonio” e “Stradivialli”, naturalmente!
Seniga di lui si fidava in modo assoluto e sapeva che con lui il giornalista aveva un debito di riconoscenza. Per questo alle cinque del mattino suonò il campanello alla sua porta. All’inizio del conflitto Gianni Brera era diventato un paracadutista e addetto all’ufficio stampa della Divisione Folgore. Molti suoi articoli inneggianti al Regime vennero pubblicati su importanti giornali fascisti, fra cui Il Popolo d’Italia. All’armistizio dell’8 settembre fuggì in Svizzera, dove venne internato in campo di lavoro per espatriati italiani e prese contatto con esponenti della Resistenza italiana, decidendo di partecipare alla lotta di Liberazione. Molti dirigenti partigiani però dubitano di lui, in particolare i compagni di una Brigata Matteotti (socialista), i quali decisero di eliminarlo. Qui venne affidato a Giulio Seniga perché lo portasse in “Svizzera senza scarpe”, cioè lo uccidesse.
Il contatto tra i due avvenne in una camera dell’Albergo Milano di Domodossola. “Quando arrivai per sistemare la sua posizione era disfatto e bianco come uno straccio lavato. Vedendolo in quello stato, la mia prima reazione fu di compassione, poi gli chiesi: Come la mettiamo?”. Ed egli rivolgendosi a me, più con gli occhi che con le parole: “Sento dall’accento che lei è della Bassa Lombardia, come me”. Parlano e scoprono di avere origini comuni: figli di povera gente, con i nonni capilega. Continua Seniga: “Intanto pensavo: forse costui, anche se viene dai fascisti, non è una canaglia…”. Così decise di inserirlo nella Brigata Garibaldina “Comolli”. Gianni gli disse, a Liberazione avvenuta: “Di qualunque cosa tu possa aver bisogno, anche se la tua vita fosse in pericolo, rivolgiti a me: troverai sempre un amico e una casa”.
Ora, in quel fatidico luglio 1954, il momento era venuto. Gianni Brera ascoltò la sua storia, i motivi della sua decisione, e gli dette del matto, dell’idealista fuori dal mondo. “Lascia stare la pulcetta e Trilussa – gli rispondo – tu non hai idea di quello che succede alle Botteghe Oscure. Compromessi e cedimenti coi padroni, scioperi rientrati, scioperi fatti a spizzico e bocconi, tanto per salvare la faccia dei capi… Si tratta di una questione politica. Chi ci va di mezzo sono quei poveri diavoli di compagni di base, i lavoratori credendo nel partito, lo seguono ciecamente. Non sanno che i loro capi sono ormai dei rivoluzionari in pantofole”. Brera, pur preoccupato per lui, si mise a ridacchiare. E gli disse: “Sei un matto idealista! Non c’è niente da fare! Torna indietro, Nino, e mangia anche tu nel piatto d’oro! Masaniello non ha cambiato nulla, Savonarola fu bruciato… Torna indietro, Nino!!”.
Gli cita Guicciardini e Machiavelli, gli cita Gorki, oltre a Trilussa. E Seniga di rimando: “Permettimi di ricordarti che nella storia ci sono anche i Pisacane, i Babeuf, i Buonarroti, la Luxemburg…”. E lui di rimando: “Per l’appunto, è la fine di tutti questi generosi poeti dell’inutile che conferma la mia tesi. Ma tu forse non sai, amico bello, che Pisacane, il tuo eroe e paradigma, romantico e socialista, venne trucidato dagli stessi ‘fratelli’ che aveva sognato di liberare? Queste ultime parole di Gianni mi suonano particolarmente amare fino a bloccarmi la saliva in bocca. Dal mio rifugio milanese traccio la bozza di un piano di lavoro minimo e massimo, poi saluto Gianni, ringraziandolo dei consigli e dell’ospitalità, e me vado per la mia strada”.
Il caso assunse un'importanza nazionale. Seniga utilizzò il fondo per organizzare un nuovo partito (Azione Comunista), con contatti a livello internazionale, ma la sua collaborazione con i dissidenti comunisti si risolse in un fallimento: dato il suo tagliente spirito critico, viene espulso dai "veri comunisti". Nel 1958, dopo l'esecuzione dei dirigenti del PC ungherese da parte dei filosovietici, organizza con la moglie Anita Galliussi alla Camera dei deputati un clamoroso gesto di protesta. Ottenuto da un deputato cremonese della DC un permesso di entrata alle tribune della Camera, lanciò volantini di critica alla posizione del PCI e dell’Unione Sovietica durante l'intervento di Pietro Ingrao.
Negli anni successivi si staccò sempre più dalle posizioni comuniste e si avvicinò al PSI, vicino alla corrente autonomista nenniana, ma sempre in posizione critica. Degne di menzione due iniziative. La fondazione della casa editrice Azione Comune, specializzata nelle pubblicazione di scritti di dissidenti a livello nazionale ed internazionale, e di “Unione Democratica Amici di Israele”, creata dopo la guerra in Medio oriente. Clamoroso un gesto poco conosciuto: durante il sequestro Moro nel 1978 si schiera con il Psi di Bettino Craxi per la trattativa e si offre come ostaggio per salvare la vita del presidente della Dc.
Un gesto, il suo, che evidenzia ancora una volta il suo coraggio, ma anche la sopravalutazione della propria importanza sulla scena politica, che prescindeva dal quadro generale in cui si svolgeva. Ancora una volta, come non aveva capito che dopo Yalta, nel 1945, quando Roosevelt, Churchill e Stalin tracciarono una linea che divideva l’Europa in due, sanzionando il dato di fatto “Noi di qua e voi di là”, senza interferenze possibili nelle rispettive sfere d’influenza, ora non capiva che intorno al rapimento Moro c’erano ben altre forze che premevano, oltre ai disegni dei capi delle BR, anche loro preda degli ingranaggi spietati della storia.
Rimase per tutta la vita un personaggio “fuori fase”, originale e “fuori dal coro”, ad inseguire i suoi ideali, i suoi irrealizzabili progetti politici. Nel suo colloquio con Brera, nel 1954, questi così lo fotografò: “Sei un testone, Nino! Dovresti pur conoscere quel personaggio di Gorki chiamato Jlia, il garzone onesto della pescheria che il padrone licenziò perché lo aveva avvertito sulla disonestà degli altri due commessi”. Indro Montanelli così scrisse di lui, quando lo volle intervistare segretamente a proposito della storia del PCI: “Ė un uomo piuttosto affascinante, dallo sguardo chiaro, freddo e innocente: lo sguardo del fanatico”.
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