10 ottobre 2021

Isola Dovarese. Una fiaba forse svela il segreto del grande successo dell’attore cremonese Dario Cantarelli

Chi lo vede la prima volta di persona, così schivo, modesto nel modo di fare, non si avvede di avere davanti un grande personaggio del cinema italiano.

A scorrere la carriera di Dario Cantarelli, nato, cresciuto e ancora oggi legato a Isola Dovarese, si rimane a bocca aperta per i registi con cui ha lavorato: dall’amico Nanni Moretti, che l’ha diretto in svariati film, a Marco Bellocchio, da Carlo Mazzacurati a Pupi Avati, dai fratelli Taviani a Daniele Lucchetti, fino a Gabriele Salvatores e a Paolo Sorrentino della “Grande bellezza”, premiato con l’Oscar. Emblema dei suoi successi è forse la sua immagine alla Croisette quando, assieme a Nanni Moretti e a Michel Piccoli, sta presentando al Festival di Cannes il film “Habemus papam”, di Nando Moretti. Quelli che, conoscendolo di persona, sapevano che è sempre stato una persona riservata e priva di ostentazione, hanno visto questa immagine con grande emozione.

Nei quasi venti film in cui ha recitato non è mai protagonista, ma in tutti impersona sempre in modo originale e incisivo personaggi di grande rilievo. Come ha scritto il Corriere in occasione del “Testimone dello sposo”, se fossimo in America un attore come Cantarelli riceverebbe l’Oscar come miglior attore non protagonista. Non a caso, negli Stati Uniti sulla locandina ufficiale di quel film comparve Dario e non il protagonista, Diego Abbatantuono. È questo un ricordo gratificante, al contrario di un altro: interpretando il ruolo dello stalliere capo-mafioso al servizio di Berlusconi interpretato da Toni Servillo nel film “Loro” di Paolo Sorrentino, lo si vede salire con decisione e sicurezza su un cavallo, in contraddizione con il vero e proprio terrore interiore che lo stava dominando.

Come ci mostra Google, ci sarebbe tanto da dire sulla storia artistica di Dario Cantarelli. A darci una rappresentazione maggiormente variegata e viva della sua carriera, più che la biografia ufficiale serve quella delineata da chi, come il suo caro amico Fausto Malinverno, ha raccolto la testimonianza dei principali eventi e degli episodi più curiosi della sua storia di attore. E ha raccolto documentazioni visive del suo percorso di attore fin dalle origini. Fausto (confermando alla grande la sua qualità di “raccoglitore” delle storie e delle memorie di Isola), dell’amico conserva tutto: dai manifesti alle locandine, dalle foto di scena ai ritagli di giornale. Può perfino esibire le primissime locandine del debutto in filodrammatica del 1968, col Gruppo Studio Teatro diretto da Walter Benzoni.

All’inizio degli anni Settanta, eccolo lasciare il posto fisso alla Pirelli e cambiare radicalmente vita e professione. Una scelta radicale, anche per quei tempi molto difficile e coraggiosa. Forse a favorire la sua decisione di affrontare professionalmente la carriera teatrale ha influito la vocazione teatrale di Isola Dovarese (negli primi decenni del secolo scorso, c’erano ben quattro teatri!). Con poche certezze, se non la sua vocazione, buoni esiti dei corsi di recitazione e delle prime esibizioni sul palcoscenico, cerca di trovare un posto nel teatro nazionale. Non gode di alcun sostegno, a parte i contatti offerti da Domenico Negri, da poco tempo attore professionista col Piccolo Teatro e poi con Buazzelli.

Ben presto, per merito e per fortuna riesce a lavorare con grandi personalità del palcoscenico italiano: da Carlo Cecchi a Valeria Moriconi ad esempio. Essi capiscono subito di avere a che fare con un artista che sa davvero essere in scena, per cui ogni battuta, ogni respiro è vita ed emozione da regalare a chi lo guarda e lo ascolta. E di farlo cimentandosi in tutti i generi teatrali e capolavori di ogni epoca. Nel 1973, ecco il debutto nazionale dell’attore isolano con il Granteatro di Carlo Cecchi, che lo volle con sé nel suo Woyzeck. La sua esperienza teatrale diviene sempre più ricca, tanto da farlo partecipare alla maratona shakespeariana a Palermo prima e poi a Roma.

Tutto è documentato nell’archivio personale di Malinverno, il quale è in possesso di una vera e propria chicca: la fotografia di Cantarelli con Sandro Pertini che a sorpresa andò a vedere lo spettacolo "La ballata di Pulcinella Capitano del popolo" di Luigi Compagnone e Italo Dall’Orto. Per Dario, l’incontro in camerino è stato incredibile: d’altro canto, con un personaggio come Pertini non poteva essere altrimenti. Ma ci sono anche innumerevoli cartoline che per una vita Cantarelli ha inviato nella sua Isola Dovarese e agli amici delle prime avventure teatrali, cartoline da tutto il mondo e dai maggiori teatri italiani, da Tokyo a Mosca.

Anche se la principale caratterizzazione di Dario Cantarelli come attore è quella teatrale, è stato il cinema a rappresentarla più vivamente: è stato Nanni Moretti a farlo in “Habemus Papam”. Impersona un attore che, drammaticamente e dolorosamente, vede in conflitto le diverse dimensioni del proprio io e della realtà. Proprio come il personaggio protagonista del film che non si sente di assumere il ruolo di papa.

Una piccola fiaba come apologo

Utilizzo ora una mia breve fiaba per distillare il significato di ciò che ho scritto prima. Evoca allegoricamente le radici dell’essenza attoriale di Dario. Che, a mio parere, ha al centro la sua voce. Nell’essere umano e ancor più nell’attore, la trama delle avventure e disavventure dell’anima è un’espressione del corpo: è scritta nella voce e nel corpo. Certo, recitare è finzione, ma la voce di un autentico attore non inganna: le inflessioni, il suo timbro, perfino le sue pause e i suoi silenzi ci parlano dell’identità complessa del suo possessore che è contemporaneamente se stesso e personaggio della finzione. È soprattutto la voce a permetterci di riconoscerla, cioè di riconoscere il senso di un discorso là dove la parola scritta deve spesso arrestarsi al solo significato. La recitazione, come il mito, è contemporaneamente un modo di rendere soggettiva la realtà esteriore e oggettiva quella interiore.

Forse la mia fiaba, ponendo al suo centro un’antica pratica di narrazione – meglio, di un antico rito che nella nostra vita quotidiana stiamo sempre più dimenticando – contribuisce a spiegare questi concetti. Probabilmente sul piano discorsivo e referenziale non ci riuscirò compiutamente ma spero, dato che mi pare molto bella, evocare questi significati a livello narrativo, simbolico ed emotivo.

Il Folletto del camino e l’attore Dario

I carabinieri, nella loro ricerca di esseri magici nelle abitazioni di Isola Dovarese, scoprirono anche in casa di Dario – un bravissimo attore di teatro e di cinema spesso lontano da Isola ma che, appena può, vi ritorna – un essere magico: un Folletto del Fuoco. Un tempo, vi erano tanti spiritelli di questo tipo dentro i camini delle nostre case. Ora sono scomparsi, perché i vecchi camini sono ormai molto pochi e quelli nuovi non piacciono ai Folletti. Ma ciò che essi trovano di più triste è che oggi le persone non si mettono più davanti al fuoco a parlare, a ricordare, a raccontare. Soprattutto, nessuno più narra fiabe ai bambini davanti al camino acceso. Ormai, tutti erano interessati solo alla televisione e ai cellulari.

Quando i carabinieri gli chiesero come mai aveva in casa quel magico essere, Dario spiegò che dal tempo dei nonni dei suoi nonni il folletto viveva nel vecchissimo camino della sua casa. Per tanti anni, stando fra le fiamme del camino, non solo ha visto gli adulti cucinare la carne allo spiedo, cuocersi la polenta e le castagne – cose che spesso rubacchiava volentieri -ma li ha anche ascoltati parlare, ricordare, farsi confidenze, ridere e lamentarsi.

Gli piaceva soprattutto quando gli adulti della famiglia, anche la zia Livia, ora giunta ai centotre anni, raccontavano fiabe ai bambini e ai ragazzi. Ma non solo da dentro il fuoco le ascoltava, ma anche le animava. Spiegò Dario: “Come un burattinaio, muoveva le fiamme. Se il nonno parlava di una festa e fatti allegri, comici, faceva ballare la fiamma. Se zia Livia descriveva una storia paurosa, faceva entrare una folata di vento provocando ululati e sibili. Se il papà descriveva una battaglia, faceva crepitare i nodi di legno e lanciava freccette di faville. Se per le mie sorelle veniva raccontata una storia di principesse, il Folletto sussurrava musiche dolci e parole lievi come ali di farfalla”.

Poi Dario spiegò ai carabinieri che il Folletto non solo gli faceva compagnia, ma lo aiutava nel suo lavoro di attore. “Lui, quando torno, mi racconta tutte le storie che conosce, che sono più di mille, tristi e allegre, dolci e crudeli, e questo mi serve per rendere più grande e forte la mia fantasia. E poi sta ad ascoltare le mie storie, e, come faceva un tempo, anima quelle che gli piacciono di più con il gioco delle fiamme, così capisco quali sono le più belle e le meglio raccontate”.

Quando i carabinieri osservavano che allora il Folletto del Fuoco gli serviva per il suo lavoro di attore, Dario rispose: “Molto, molto di più. Tutti dicono che io sono bravo in teatro, ma è davanti al caminetto che riesco a ritrovare davvero la mia voce, quella che, come a tutti gli esseri umani, mi è toccata in sorte, unica e irrepetibile. La voce umana ha un grande e potente segreto, che assordati da molti apparecchi, rischiamo di dimenticare. La voce dice tante cosa ancora prima di dire delle parole”.

I carabinieri erano incantati a sentire queste parole. E allora Dario finì il suo discorso.

“Davanti al fuoco, insieme al mio folletto io posso ancora sentire tanti tipi di voce, ma quello che è più importante, la voce dei miei genitori, dei miei nonni. Una voce che, confusa infine nel sonno, è nenia, filastrocca, rosario, preghiera e ultimo conforto sulle porte mai sicure della notte. Ecco, io così tento di riprodurre in teatro questo incantamento, in modo che la mia voce possa trovare l’accordo armonioso con le parole di una commedia, di un racconto, di una fiaba”.

Questa esperienza umana e professionale di Dario, che evoca le dinamiche segrete che sono alla base della sua ispirazione, può trovare un immediato riscontro con quella di un grande scrittore italiano. Anche Verga davanti al caminetto inseguiva un folletto tra il guizzare delle fiammelle. Si veda di “Nedda”, narrato in prima persona, con ricordi e libere associazioni davanti al caminetto, dove lo scrittore osserva lo “spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo" per "correre lontano”, per rievocare “in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito” il paesaggio e i personaggi della Sicilia.

Gianvi Lazzarini


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