16 agosto 2021

L'epopea delle navi bianche non fu sempre un'epopea. Una cremonese narra la verità sul viaggio che circumnavigò l’Africa nel 1942

La cosiddetta “Epopea delle navi bianche” del 1942/43, quando 28.000 prigionieri italiani – donne, bambini, malati, anziani – vennero trasportati, in piena guerra,  dall’Etiopia all’Italia su navi della Croce Rossa, ha dell’incredibile.   

Questa vicenda ha inizio quando in Etiopia, di fronte alla travolgente avanzata inglese, il Viceré Amedeo, duca d'Aosta, dovette firmare la resa il 17 maggio 1941. In Eritrea, Etiopia e Somalia, però, i Britannici dovettero organizzare il destino dei civili italiani, rinchiusi in campi di prigionia. Qui era durissima la vita, le condizioni igienico-sanitarie assai precarie. Si diffuse un’epidemia di morbillo. Molti bambini si ammalarono di enterocolite emorragica. Sorse il problema di che fine avrebbero fatto questi “prigionieri speciali”, anche perché si temevano possibili atti di saccheggio, violenze, massacri da parte degli Shiftà, guerriglieri a metà strada tra l'essere patrioti in cerca di rivalsa, e predoni feroci, che volevano vendicare il trattamento non proprio “civile” dei militari e dei capi fascisti durante “la conquista dell’Impero”. 

Proprio da queste preoccupazioni nacque quell'iniziativa, chiamata “epopea delle navi bianche”, che, con la mediazione della Croce Rossa Internazionale, portò al viaggio, fedelmente narrato da Tina Lucchini Canestrari – nonna dell’attuale Dirigente del “Torriani” Roberta Mozzi e madre della prof.ssa Caterina Canestrari, la “Rirì”, bimba di tre anni,  di cui parla in due quadernetti. 

Come riferisce lo storico Emanuele Ertola (Navi bianche. Il rimpatrio dei civili italiani dall'Africa Orientale, in “Passato e Presente”, 2014), già il giorno precedente al ritorno del Negus ad Addis Abeba, il 4 maggio 1941, gli Inglesi tramite l'ambasciata USA a Roma comunicarono al Governo Italiano, che erano disponibili a favorire il rimpatrio di parte dei civili là residenti. All'inizio da parte di Mussolini ci fu un tacito rifiuto: non si voleva ammettere che l'Africa Orientale fosse oramai persa. Ma poi si avviarono complesse trattative, con la mediazione degli Stati Uniti e della Svizzera. Si doveva organizzare e finanziare tre missioni per ricondurre in patria questi civili “fragili”. Un viaggio di quasi 23.000 miglia marine per circumnavigare l'Africa – dato il blocco del Canale di Suez – dalla Somalia Britannica al Sud Africa, e da qui alle Canarie fino a Gibilterra e poi nel Mediterraneo, fino ai porti italiani. Vi furono impiegate le motonavi "Saturnia", "Vulcania", "Giulio Cesare" e "Duilio". Viaggiavano anche di notte con le luci accese, per segnalare che si trattava di navi “ospedale”. Le missioni si svolsero nel marzo/giugno 1942, dal settembre 1942 al gennaio 1943, nel maggio/agosto 1943.

L’Italia pur in guerra compì uno sforzo enorme. Scrive Ertola: “furono predisposti su ciascuna nave ospedali per una capacità di oltre il 10% del numero dei passeggeri, impianti di disinfezione e disinfestazione, locali di isolamento degli infettivi, sale operatorie, gabinetti radiologici e odontoiatrici, inoltre tutti i locali adibiti a salone e luogo di riunione furono convertiti in grandi dormitori collettivi. Per quanto riguarda l'assistenza sanitaria, sul convoglio sarebbero stati imbarcati 129 elementi della Croce Rossa... vi erano 6 medici e chirurghi, 1 commissario della CRI, 15 infermiere volontarie, 10 militi CRI, 1 farmacista, un cappellano... Le quattro navi, dipinte interamente di bianco – eccetto grandi croce rosse e la bandiera italiana sulle fiancate [ospitavano anche] una scorta armata inglese di 14-15 elementi, che avrebbe accompagnato la missione per tutta la sua durata”.

Le preoccupazioni sulla salute dei profughi erano giustificate. Sul “Saturnia”, ad esempio – la nave su cui nella prima missione viaggiarono Tina e Rirì – il secondo viaggio registrò 275 ricoveri, 23 interventi chirurgici, 5 parti, 139 esami radiologici, 419 esami di laboratorio, 3.335 visite in ambulatorio. Particolarmente gravi le condizioni dei più piccoli. Le morti di bambini furono del 12%. Scrive Ertola: «La bassa mortalità fu dunque un buon risultato considerando le difficili condizioni in cui dovevano operare gli ospedali a bordo delle navi». 

Tra questi profughi delle tre missioni, ci furono personaggi poi diventati famosi: Hugo Pratt, creatore di Corto Maltese; Luciano Violante, futuro Presidente della Camera; Massimo Zamorani, giornalista e scrittore; il romanziere, sceneggiatore e commediografo Gianfranco Calligarich, autore del fortunato “L’ultima estate in città”, del Premio Bagutta con “Privati abissi”, e del “Viareggio” con “La malinconia dei Crusich”. Zamorani e Calligarich hanno lasciato testimonianze di questa loro avventura.

Un episodio di grande umanità dunque, ma non mancarono problemi anche seri. Perché negare o celare, che quello delle Navi bianche fu un evento straordinario per i tempi e i modi in cui si realizzò, una di quelle azioni umanitarie, nel contesto della guerra più feroce della storia, che meritano di essere ricordate? Ma perché, di contro, nascondere le pecche, i lati meno edificanti della missione?

Un aspetto assai positivo da registrare fu il comportamento dei soldati britannici improntato, tranne qualche rarissima eccezione ad una cavalleria d'altri tempi, e le relazioni amichevoli che si instaurarono a bordo tra italiani e inglesi, quasi che la missione umanitaria avesse sospeso una guerra feroce, creando un limbo dove ci si poteva comportare da esseri dotati di coscienza e di cuore. Si verificarono però anche tentativi di uomini non autorizzati di salire a bordo violando gli accordi. Addirittura i comandi britannici giunsero a minacciare che se i “clandestini” – uomini in grado di combattere – non si fossero consegnati, avrebbero fermato le navi a Port Elisabeth.

Scopriamo invece che non tutti i profughi furono trattati in maniera uguale: si fecero distinzioni di ceto, si introdussero disuguaglianze: dopo mesi e anni di promiscuità, bisognava da parte del Regime riaffermare “il principio che in Italia non è ammesso il livellamento, secondo lo spirito comunista, delle classi sociali”. Altro problema il comportamento a volte dissociato, prepotente, borioso di molti connazionali una volta imbarcati. Comportamenti inaccettabili di aggressività vennero denunciati dal commissario Caroselli, che così spiegava gli atteggiamenti più critici: «l'elemento umano aveva subito l'usura del clima e delle latitudine ed era già in maggioranza deformato da molti anni di vita coloniale. Vita, cioè, che esagera i valori tradizionali, che esaspera gli istinti di lotta, che attenua i freni inibitori. Il senso della realtà, della misura e l'equilibrio dello spirito non sono qualità molto comuni per il bianco che va in Africa». 

Secondo il Regio commissario Garroni il miglior risultato della missione non era tanto aver riportato in patria i connazionali, quanto «l'aver saputo lentamente trasformare una massa umana incandescente di passioni, sfrenata, ribelle, insofferente, in un gruppo di persone nuovamente consce dei propri doveri, responsabile delle proprie azioni, politicamente bonificate dall'infame propaganda nemica». Questo riguardava anche il comportamento anomalo di molte madri, che, imbarcate, si disinteressavano dei figli, ma vennero rieducate: «il maggior numero delle imbarcate tornarono ben presto ad essere le brave mamme riservate e buone, che tutti ben conosciamo». 

Un capitolo assai critico riguardò l'italico costume di comandanti e ufficiali di approfittare delle condizioni delle donne a bordo, spesso esauste e sole, per ottenere favori di natura sessuale. Ad esempio il comandante Radimiro Paulizza, sul “Giulio Cesare” aveva trasformato la propria cabina in un salotto di ricevimento frequentato da signore e signorine, che poi si lamentarono per la sua eccessiva “intraprendenza”. E non fu il solo. 

Questi problemi non vengono colti da Tina Lucchini Canestrari, n. di prigionia 5560. Tutta concentrata su di sé e Rirì, sui suoi stati emotivi, le speranze e le delusioni, sue personali e di quegli anni, con l'Italia nel baratro. La sua non è una ricostruzione retrospettiva, ma nel qui e ora di un diario umanamente dolente. 

Tina (il suo vero nome era Erodiade, accettato dal parroco se al battesimo fosse stato preceduto dal più cristiano Santina, da cui il familiare ‘Tina’) era giunta nel Corno d'Africa, dopo il matrimonio per procura celebrato nel 1938 nella chiesa di S. Agata di Cremona, con Aldo Canestrari, impiegato in una ditta francese di import-export. Dopo il matrimonio, era partita per il “viaggio di nozze” con la prestigiosa nave Conte di Biancamano – allora provvista di tutte le comodità per una clientela facoltosa – per raggiungere il marito a Gibuti. Poi la famiglia si trasferì ad Addis Abeba. Qui nella primavera 1939 nacque la figlia e qui era vissuta nell'agiatezza fino all'arrivo delle truppe inglesi nel maggio 1941, e reclusa in un campo di prigionia. Nel testo, a partire dal 6 maggio 1942 parla della partenza dal campo di Harar, di soste a Giggiga, Argheira, Mandera, fino al porto di Berbera, nella Somalia Britannica, dove ha inizio la navigazione con soste a Port Elisabeth, Las Palmas in Gran Canaria, Gibilterra, Napoli, per sbarcare a Livorno il 22 giugno 1942.

C'è una pagina del Diario che riassume tutte le sue palpitazioni: “Berbera 10-5 abbiamo cominciato ad intravvedere il mare e poi lontanamente e come ancora avvolte nella nebbia le navi … Le navi candide ci attendono – un pezzo della nostra patria tanto lontana sta per accogliere tanti esseri umani – che non speravano più in questo bel sogno – La zattera si ferma – dall'interno della nave la marcia Reale diffonde la sua dolce melodia. Tutte piangono – perfino i bimbi tacciono e guardano col loro sguardo meravigliato ciò che sta loro dinnanzi, lentamente si sale la scala e i nostri marinai si prodigano in tutti i modi per aiutarci. … appena a bordo ho incontrato il Maggiore Marconi un caro medico di casa mia – mi ha dato notizie dei miei stanno tutti bene e mi attendono – che gioia rivederli!” 

Tutti i nuclei emotivi – la figlia, il marito, l'Italia, la casa, il ritorno – sono sempre lì per attivare desideri e molteplici sue speranze. E' naturale, quando la vita è ristretta in un capannone o in una cabina, quando non si può uscire, intessere relazioni, distrarsi, occuparsi di cose importanti, che l'animo si riempia di desideri insoddisfatti, si ripensi con nostalgia al passato e si cerchi di rimediare ai momenti depressivi ricorrendo alle sognate speranze. Così è per Tina: “31-5 Le giornate passano col pensiero fisso al momento che rivedrò in Italia i miei cari la mia città tutte le cose care che ho lasciate quattro anni fa – come questa sera – mi preparavo a partire – era l'ultima sera che passavo nella mia casa – si chiudeva un periodo della mia vita – della giovinezza, un periodo triste e lieto spensierato e pieno di complicate emozioni che affiorano nella mia mente, in questa sera piena di ricordi”. 

Ci sono anche i momenti belli nel viaggio sul “Saturnia”, come 21 maggio, il compleanno di Rirì  - la cosa più grande che ho -  o quando dopo una tempesta torna il mare calmo, sereno, da gustare come in una crociera, o ancora quando si contempla la Croce del Sud che rimanda ai sogni delle letture giovanili. Ma quando giungono le sere una dietro l'altra, tutte uguali, lo stato d'animo si fa più turbato, Tina si sente già vecchia il giorno del suo compleanno: «Ferma in questo porto la nostalgia delle cose care lasciate mi prende ancora di più, oggi è anche il mio compleanno. Mi pare di essere tanto vecchia! 32 anni!».

La stanchezza, la spossatezza fisica, per il caldo snervante del porto di Berbera, ma anche navigando ad occidente dell'Africa verso le Canarie e Gibilterra, e per il mal di mare nei giorni di burrasca, spesso costringono Tina a interrompere la scrittura.  Di frequente viene assalita dalla tristezza, dalla caduta delle illusioni, che è una assillante compagna del suo viaggio: «ma è dunque una legge della vita questa continua delusione di ogni cosa?». 

E quasi al termine del viaggio – sono già giunti a Gibilterra – lascia riaffiorare nel suo animo desideri nuovi rimasti sopiti in tanti mesi di prigionia, il bisogno anche di esteriorità, di una vita più normale per una donna bella e sensibile come lei, giungendo ad ammettere di aver bisogno di un uomo in carne ed ossa, di un contatto non solo spirituale: «Ho bisogno di lui per sentirmi legata a qualcuno – il mio animo e il mio temperamento irrequieto lo vogliono non concepisco l'amore eterno – l'amore astratto – l'amore senza materia».

Ma alla fine la spossatezza prevale, “sono stanca ho bisogno di riposo”: sembra presagire che la parte bella della vita le è ormai sfuggita come acqua tra le dita aperte della mano. Non si sbagliava. Tornata a Cremona, in condizioni di indigenza, fu ospitata dai parenti perché non si era salvata nulla dall'Africa Orientale. Quanto al marito, solo alla fine del 1946, in dicembre, lo rivide proveniente dai campi di prigionia del Kenya. Rirì si vide arrivare tra la nebbia di Cremona un vecchio arrancante, vestito con sahariana e coperto da un panno militare, che gli dissero suo padre. Tina invece si ammalò di tumore e morirà nel 1949 a soli 39 anni. L'Africa l'ha distrutta – disse Tavecchi, il loro medico. Dalle sue pagine continua a presentarsi ai lettori una donna degli anni trenta, sensibile, profonda, legata alla sua patria, assetata di vita in un tempo disgraziato per lei e per milioni di donne e uomini italiani. 

Quella delle “Navi bianche”, certo, non fu per tutti un’epopea.  

 

Carmine Lazzarini


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