11 novembre 2025

L'ultimo "San Martino", viaggio nelle cascine dimenticate: le testimonianze di un passato ancora legato alle nostre terre e alle sue tradizioni. Un passato che andrebbe valorizzato e non abbandonato

“La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”, diceva Gustav Mahler, compositore e direttore d’orchestra austriaco. E oggi la tradizione ci parla dell’estate di San Martino: tre giorni di sole e temperature più miti, dal 9 all’11 di novembre, unico spiraglio di speranza per chi viveva in campagna e doveva raccogliere le sue povere cose per andare in cerca di un altro lavoro e di un’altra casa.

Lì si che sarebbe servito davvero San Martino, con il suo mantello da dividere per dare sollievo a questa povera gente: celebrato l’11 novembre, San Martino di Tours secondo la leggenda fu un soldato romano che si convertì al cristianesimo dopo aver donato ad un povero mendicante il suo mantello (la clamide bianca della guardia imperiale) tagliato a metà; la notte stessa Martino sognò Cristo con indosso quel mantello donato al povero e da qui la sua conversione.

In occasione di questa ricorrenza, decidiamo di fare un tour virtuale tra le vecchie case coloniche delle cascine nella bassa cremonese, quelle case che videro molte volte la povera gente prepararsi a fare sammartino, ossia il trasloco. Chissà chi se ne andò da lì per l’ultima volta, chissà chi abitò quelle stanze fino a quell’ultimo sammartino; forse chi abbandonò quelle povere cose se ne andò per scelta, forse per forza.

Oggi di quelle cascine restano solo muri sbrecciati, tetti affossati dal tempo e mattoni vecchi; file di porte e finestre dove per decenni si sono susseguite storie tutte uguali di povere vite, il cui perimetro andava poco oltre le mura della cascina stessa.

Non solo mondo contadino, bensì il mondo della civiltà contadina, dove l’economia circolare non era un optional alla moda ma un’esigenza di vita al di fuori della quale non c’era alternativa; una quotidianità fatta di lavoro e fatica, tradizioni e saperi che venivano tramandati di padre in figlio, di madre in figlia. Poca istruzione e tanta esperienza. A chi andava bene, la corrente in casa, mentre il bagno restava tassativamente fuori dall'abitazione; la bȕgaada, il pollaio, la stalla con l’altarino di Sant’Antonio, l’acqua da prendere alla ‘tromba’ e le nonne che insegnano alle nipoti a cucire e fare la maglia.

Una socialità che nasceva sull’aia mentre spesso i muri erano usati come bacheche ante litteram per le idee politiche e le tifoserie di calcio o ciclismo, oltre a diventare testimonianza delle diverse leve dei coscritti.
E poi ancora il pranzo consumato fuori dalla porta di casa, tutti insieme con la scodella in mano, mentre camminare ‘in scapìin’ (altro modo per definire ‘a pee per teèra’) era la prassi comune; i bambini tutti magrolini e secchi, sempre con le ginocchia sbucciate e i pantaloni con le toppe. Le donne ancora giovani eppure già vecchie, con i capelli raccolti sotto il fazzoletto nero e gli uomini stanchi e sfiancati dal duro lavoro, il viso segnato da linee profonde come le crepe di quei muri.

Oggi le cascine sono ancora lì, ma al loro interno non c’è più il vociare dell’umanità che le popolava: le file di porte e finestre restano in attesa inconsapevoli che non saranno mai più aperte, quelle camere scrostate e polverose se potessero parlare ne avrebbero di storie da raccontare, storie di vita e di morte, storie di bambini che nascevano e di vecchi che morivano nel loro letto. Quei tetti crollati portano ancora la fatica di aver resistito a forti nevicate, mentre dai vetri rotti entra il vento che sgualcisce le tendine rimaste appese insieme a pesanti ragnatele. A terra coppi caduti dai portici tra l’erba che è cresciuta insinuandosi tra le crepe del cemento dell’aia, quell’aia che veniva spazzata attentamente e che ora nemmeno si riconosce più.

All’interno di alcune case restano ancora dei vecchi mobili, niente di chè, povera roba: la ‘cardensa’ con le antine aperte, una tavola con due sedie spagliate, nell’angolo una gabbia per qualche animale da cortile e vicino alle ripide scale in legno per salire al piano di sopra, la cesta di una damigiana ormai sfilacciata e rosicchiata dai topi, che sono diventati i veri padroni di quelle stanze, contendendosele forse con qualche altro animale selvatico.

Dalle finestre l’edera si insinua sfacciatamente e senza fatica fin dentro, sul pavimento in terra battuta; una stufa a legna e qualche bottiglione verde raccontano di quella che fu una cucina.
Dove si può salire al primo piano, non è insolito trovare ancora un vecchio letto con le reti arrugginite e magari i comodini al fianco; su una vecchia cassettiera c’è pure una boccetta del profumo con dentro ancora del liquido giallastro accanto ad una rivista coperta di un fitto strato di polvere; da una sedia alcuni sacchi di iuta aspettano da decenni di essere riempiti ancora una volta.

Oggi quelle cascine sono veri e propri musei a cielo aperto, preziose testimonianze di una cultura che per decenni ha plasmato la storia, la fisionomia delle nostre terre e persino i volti della gente. Poi è arrivata la meccanizzazione dell’agricoltura, le macchine hanno sostituito il duro lavoro dell’uomo, la componente umana non è stata più indispensabile per coltivare i campi o curare gli animali, dunque le cascine si sono svuotate, l’attività produttiva si è spostata definitivamente fuori dalle mura.

Cascine paese sono diventati paesi fantasma, troppo onerose per essere mantenute senza uno scopo produttivo. E allora questi muri, che non possono fare Sanmartino, restano silenziosi santuari di un passato ormai concluso, in attesa di crollare mattone dopo mattone, trave dopo trave. Non c’è estate di San Martino che possa venire in aiuto di queste cascine in cerca di un’opportunità migliore.

Eppure dovremmo davvero seguire le parole di Mahler: custodiamo il fuoco, prima che ne resti solo la cenere: manteniamo viva l’essenza di questa nostra cultura, rinnovandola certo e trasformandola in una fonte di ispirazione. Al contrario, se ci limitiamo a contemplarne le povere ceneri ormai spente, non avremo la capacità di andare oltre e rinnovare il nostro futuro.

Qualcuno l'ha fatto o lo sta facendo, come a Bredalunga, dove con grande sforzo e tanta dedizione la cascina sta tornando a vivere. Un esempio che rappresenta ancora un unicum, ma chissà che non apra la strada a nuove sensibilità sul territorio.

Le foto di Michela Garatti sono state scattate nelle cascine di Bredalunga, Torretta, Silvella, Pieve d'Olmi, Martignana Po, San Lorenzo Mondinari

 

Michela Garatti


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