Ricordo dei duri ‘sammartini’ d’un tempo. L’11 novembre, termine dell’annata agraria: si andava alla cascina nuova
Oggi è San Martino. E' sempre stato un donatore attento nel fornire risorse alla buona tavola cremonese. Tant’è vero che a san Martéen l’öa la divèenta véen, ‘a san Martino l’uva diventa vino’. In tale ricorrenza, infatti, se spinàava el véen nóof, si inaugurava il vino nuovo, e lo si celebrava con amici e parenti, attraverso il rituale della prìma tastàada, del ‘primo assaggio’. Nel contempo, si godeva pure dell’ultimo tepore dell’anno, che sopraggiungeva puntuale come sempre. Da qui il modo di dire: «L’estàat de san Martéen la düüra trìi dé e ‘n tucheléen». Era questo un riferimento climatico atteso, che in qualche modo leniva la tristezza della dizdéta de san Martéen, della disdetta di san Martino. Insomma: un trasloco al sole era sempre meglio che sotto catinelle d’acqua. Ma l’amarezza rimaneva comunque tanta. Infatti con la fine dell'annata agraria, giungevcano a conclusione i rapporti di lavoro o per la fine del contratto o per disdetta e licenziamento da parte dei proprietari dei fondi agrari.
Di conseguenza i contadini dovevano cercare altrove il lavoro e una adeguata sistemazione. San Martino ridiventava, così, ‘donatore magico’, ma solo nei confronti di coloro che potevano rimanere in cascina con un contratto di lavoro rinnovato. In questo caso erano i titolari del fondo rustico a ricevere piccoli omaggi da parte degli stessi lavoranti riconfermati. Questo fatto era come un lascito di antiche servitù, in vigore nei secoli addietro, come nel ‘600, quando per l’11 di novembre «li contadini sono in obbligo portare capponi» (ai loro datori di lavoro, ovviamente). Chi si trasferiva da una cascina all’altra, magari migrando in un altro paese, cercava di snellire il carico nel trasporto delle proprie masserizie e dei propri animali.
Quindi era diffusa l’abitudine di non portarsi dietro la ‘cassaforte alimentare’ della famiglia, il maiale vivo. Il contadino itinerante preferiva, quindi, qualche giorno prima del trasloco, masàa ‘l nimàal, uccidere il maiale, per evitare che lo stesso animale, cambiando porcile, modificasse l’umore e dimagrisse. Si dava, allora, inizio alla scena cruenta della maialatura, che costituiva un momento di eccitazione e di coinvolgimento totale della famiglia contadina. Poi, vi era lo sgombero della casa vecchia e lo spostamento verso la cascina nuova, come ci viene descritto dalla penna di Giovanni Chiappani, nella ‘San Martino di una volta’, nel dialetto rustico di Malagnino, della quale riportiamo un estratto. L’Autore ci consegna un quadro di umanità e lo squarcio di una lacerazione, che egli visse direttamente durante l’infanzia e la giovinezza.
San Martéen de na vòolta
In de la nóova casìna,
dùa te gh’ìivet de ‘ndàa a stàa,
te ghe menàavet i mòi,
j aréle, le scàale, i scalòon,
le bùte e la tìna
che le servìiva per schisàa.
Nella nuova cascina,
dove dovevi andare ad abitare,
ci portavi i tutoli,
i graticci di canne, le scale, gli scaloni,
le botti e il tino per mosto,
che servivano per la pigiatura dell’uva.
El dé de san Martìin
trìi càr cun li baròosi,
trìi pàar de cavài,
e trìi cavalèer
j éera a cà tùa
de bùna matìna.
Il giorno di san Martino tre carri
con le sponde,
tre paia di cavalli,
e tre cavallanti
erano a casa tua
di buona mattina.
Per cargàa la ròba, te gh’ìivet
de fàa na bèla lauràada:
in sö ‘n càr te ghe metìivet
la càmera de lét,
in sö ‘n àalter
la ròba de cuzìna,
in sö ‘l tèers
la batària che restàava:
che j éera casulìne
cun dèenter gài e galìne,
bàanche e banchìne,
scàgn de la stàla,
benasóol cu dèent le véerze,
cavàgn, panéer e cantunàal.
Per caricare la roba, dovevi fare
una bella lavorata:
su di un carro dovevi mettere
la camera da letto,
su un altro,
la roba di cucina,
sul terzo
la batteria rimanente:
erano cestine
con dentro galli e galline,
panche e panchine,
sgabelli di stalla,
tinozza con dentro le verze,
ceste con manico, panieri e armadio da cucina.
A j anèi d’i càr
cu’l fìil de fèr
gh’éera tacàat
j atrès de’l fugulèer,
ma àanca pügnàte, paróoi,
sedéi, paróola de ràm
cun dèenter el gàt
ligàat in de’n sàch.
Agli anelli dei carri
erano attaccati
col filo di ferro
gli attrezzi del focolare,
ma anche pignatte, paiuoli,
secchi, la caldaia di rame
con dentro il gatto
legato in un sacco.
In sö i càr truàava pòst
àanca la famìilia:
i regàs j éera inturciàat
in d’i tabàr,
le dóne in d’i sialpòon.
Sui carri trovavano posto
anche la famiglia:
i ragazzi erano avvolti nei tabarri,
le donne negli sciarponi.
Salutàat i vezéen,
i partìiva per nóova destinasiòon.
De sòlit per san Martìin spiuvezinàava
e le stràade j éera
pièene de mòolta:
l’éera pròopria na tristésa
véder i sanmartìin de na vòolta!
Salutati i vicini,
partivano per nuova destinazione.
Di solito per san Martino piovviginava
e le strade erano
piene di fango:
era proprio una tristezza
vedere i ‘sanmartini’ di una volta!
Giàno Chiappani
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