20 novembre 2023

Non solo il torrone, anche i marubini, il nostro piatto più famoso, hanno origini arabe. Li fece conoscere nel duecento il medico Giambonino da Cremona

Cremona è debitrice alla gastronomia araba non solo del torrone, ma anche del suo piatto più famoso: i marubini. Ed è significativo che a descriverli per la prima volta sia proprio un traduttore cremonese dall’arabo. Forse non sarà lui l’inventore, ma di certo è proprio nel suo trattato, compilato traducendo dall’arabo due secoli prima che venisse dato alle stampe il “De honesta voluptate” di Bartolomeo Platina, che si trova per la prima volta una ricetta antesignana del tipico piatto cremonese. Non per nulla l’autore di questa straordinaria raccolta gastronomica è Giambonino da Cremona, che sul finire del XIII secolo tradusse in latino un estratto della monumentale enciclopedia scritta a Bagdad da ibn Jazla nella seconda metà dell’XI secolo, forte di 2170 voci, dedicata al califfo al Muqtadi. Di Giambonino si sa poco o nulla. La sua opera, il “liber de ferculis et condimentis” è conservata in un codice miscellaneo della Biblioteca Nazionale di Parigi ed è stata rintracciata per la prima volta nel 1900 da Francesco Novati, che ne pubblicò la notizia sull’Archivio Storico Lombardo. Il manoscritto è molto lacunoso, ed in parte addirittura illeggibile per le tracce di umidità, tuttavia, per nostra fortuna, è stato tradotto dal latino al tedesco nel corso del XV secolo, ed una copia di questa traduzione è contenuta in un codice miscellaneo della Bayerische Staatbibliothek di Monaco di Baviera. Nel suo trattato troviamo per la prima volta la descrizione di un tipo di pasta ripiena che è il diretto precursore dei moderni ravioli e dei più nostrani marubini: il sambusuch, una pasta di forma triangolare destinata ad essere farcita con un ripieno di carne per poi essere lessata o fritta. Non ne saremmo così sicuri se, qualche anno prima di Giambonino, alla corte del re Manfredi, non fosse stata promossa la traduzione in latino del Taqwin as sihha di Butlan, che così descrive questo tipo di pasta: “Et sambusuch, id est, Calizon panis: quorum pasta non digeritur, quando non bene decoquuntur cum fiunt. Et Sambusuch est cibus, qui dicitur Ramoli, factus de carnibus minutim incisis, et ovis, et herbis: et impedit digestionem eorundem unctuosum eorum”. Il traduttore stabilisce una corrispondenza precisa tra i calzoni ripieni ed i ravioli, anche se erroneamente vengono trascritti come “ramoli” e lo sottolinea disegnando al piede della pagina un pane, una focaccia ed alcuni fagottini. La carne macinata era condita con succhi agri di frutta e inserita in una sfoglia di pasta triangolare (sanbusaj significa infatti tutto ciò che ha tale forma). Per il ripieno viene usato un altro termine: Mudacathat, che Giambonino così descrive: “E’ migliore perché è fatta con carne di montone: ed è calda e umida e rafforza il corpo e conviene a quelli che sono consunti per stravizi o per lavoro o per afflizione o angoscia o paura e provoca nausea, e il suo danno si rimuove con acqua di sommacco. E si fa così, ed è chiamata mudacathat di canfora: prendi petti di gallina e tagliali in piccoli pezzetti e aggiungici una libbra di carne di montone e tagliala con un coltello in piccoli pezzetti e mescolaci 20 dracme di grasso di pollo ovvero strutto di pollo, e rimestalo nella pentola fino a che il grasso si sia ben mescolato con la carne, e aggiungici 2 dracme di salgemma e 20 dracme di cipolla bianca tagliata fina, e un poco di coriandolo e cannella, e quando ti sembra che abbia un buon sapore, aggiungici una libbra di acqua, e fai bollire finchè sia mezzo cotto; e poi prendi 30 dracme di mandorle pelate e pestale con acqua di rose facendole  diventare come latte, e aggiungilo e mescolalo nella pentola, e getta nella pentola un pugno di ceci puliti e un sacchetto di lino in cui sia racchiuso comino e zenzero pestati, e quando è cotto versaci sopra due uova sbattute e mescola; e dallo a chi vuoi”.

Prima di proseguire è opportuno aprire una breve parentesi per capire come da Bagdad le nostre ricette si siano diffuse in occidente, sino a diventare un patrimonio gastronomico comune a più tradizione culinarie. Nel corso dell’XI secolo due medici arabi, ibn Butlan e ibn Jazla compongono due manuali di interesse medico in cui inseriscono una serie di vere e proprie ricette. Re Manfredi cura in Italia meridionale la versione del Taqwim as sihha di Butlan, che prende il nome di Tacuinum sanitatis. Mentre Carlo I d’Angiò si dedica al Tacuinum aegritudinis di Jazla. Il minhaj al-bayan di Jazla viene poi compendiato da Giambonino in lingua latina a Venezia verso la fine del XIII secolo. Agli inizi del Trecento la compilazione di Giambonino viene inserita in una raccolta miscellanea per Carlo II d’Angiò in cui compaiono anche gli altri due libri di cucina che viene poi trasferita verso la fine del secolo in Francia presso il duca di Berry che a sua volta nel 1404 la dona ad una fondazione religiosa. Contemporaneamente in Italia settentrionale sulla base del Tacuinum di Butlan si compilano il Tacuinum Sanitatis illustrato con le miniature di Giovannino  de’ Grassi e nel Quattrocento si traduce in tedesco il Liber de ferculis di Giambonino in una università dell’Italia settentrionale, probabilmente Padova. Nel XVI secolo, infine, a Damasco Andrea Alpago utilizza il testo arabo di Jazla per compilare un glossario arabo-latino al Canone di Avicenna, la “Interpretatio arabicorum nominum”  stampata a Venezia nel 1527, mentre nel 1532 Schott pubblica a Strasburgo i Tacuini di Butlan nella versione integrale in latino a cui fa seguire l’anno seguente quella in tedesco. Capiamo così come, quando non è sufficientemente spiegata una preparazione in uno di questi testi, possa venire in aiuto il confronto con opere analoghe dello stesso contenuto. E’ appunto questo il caso del nostro “sambusuch”, il contenitore triangolare di pasta ripieno di carne macinata acidulata per il quale il traduttore di Butlan propone il termine “ravioli” indicandoci quale fosse la strada che la preparazione araba aveva preso in Occidente. Così è anche per il mudacathat. Con questo termine Jazla indica le carni tritate e fornisce la ricetta della “mudaqqaqa  kafuriya” che il nostro Giambonino traduce come “canfora” ma che in realtà è un genitivo di possesso, cioè “trito di Kafur”. Nel manoscritto latino di Butlan all’intestazione “mudaqqaqa” si accompagnano i termini “bacuca” e “rafiole”: il primo corrisponde al latino “batuta”, cioè carne macinata ed è un termine che indica in generale i pastumi di carne per i diversi tipi di ripieni contenuti in involucri di pasta, oppure preparati in varie forme di polpette che ritroviamo nel Liber di Giambonino per indicare l’impasto di carne adatto a farcire pastelli o torte. Il secondo è invece il plurale del termine femminile “raviole”, usato come il maschile “ravioli” per  indicare l’impasto di carne racchiuso in una sfoglia, oppure semplicemente fritto come una polpetta, cioè senza la crosta. E’ possibile che Giambonino conoscesse già i ravioli, introdotti nell’Italia settentrionale intorno alla metà del XII secolo. E’ interessante notare come la versione di Jazla in cui la carne macinata non è manipolata in polpette, tradotta dal nostro Giambonino, venga poi ripresa due secoli dopo dal Platina nella ricetta del “pastillus in olla”.

Ma chi era il nostro Giambonino? Dopo il cenno che ne fa Francesco Novati nel 1900 in due stringate paginette sull’Archivio Storico Lombardo, al suo “Liber de ferculis” ha dedicato un bel volume Anna Martellotti, pubblicato nel 2001 dall’editore Schena di Fasano in provincia di Brindisi. (Il Liber de ferculis di Giambonino da Cremona. La gastronomia araba in Occidente nella trattatista dietetica. Schena 2001). Innanzi tutto ricaviamo la sua origine cremonese dall’explicit apposto in calce al manoscritto miscellaneo della Nazionale di Parigi rintracciato dal Novati, e questo conferma che Giambonino appartiene a pieno titolo a quella grande scuola di traduttori dall’arabo che proprio in Gherardo da Cremona ebbe il suo più grande maestro. Come sappiamo quest’ultimo si era stabilito a Toledo, dove intorno al vescovo Raimondo, morto nel 1151, era nata una importantissima scuola di traduttori di testi arabi a cui collaboravano studiosi cristiani, arabi ed ebrei. Tra le varie traduzioni attribuite a Gherardo vi è anche quella di un trattato dietetico, il “kitab fi aladwiya al-mufrada” del medico Andaluso ibn Wafid, trascritto con il titolo “Liber Albenguefith philosophi de virtutibus medicinarum et ciborum” che altro non è se non una classificazione delle materie prime in base alle loro funzioni terapeutiche. E’ possibile che Giambonino possa essere un prosecutore di questi interessi di Gherardo, anche se lavora e traduce a Venezia che, peraltro, ha intensissimi contatti commerciali con Cremona. Quasi sicuramente era un medico, come attesta il titolo di “magister” che gli viene attribuito in calce al manoscritto ed esperto della lingua araba, anche se è possibile si facesse affiancare da un parlante di madrelingua, forse un mercante, che potesse aiutarlo nel reperire l’esatta corrispondenza degli ingredienti, delle spezie o delle erbe. Anna Martellotti colloca la stesura del liber intorno agli ultimi trent’anni del Duecento e ne fa un episodio isolato che non si inserisce in una scuola di traduttori ma piuttosto in quella cultura medica nata negli ambienti universitaria di Padova e Bologna. A questo proposito Enrico Carnevale Schianca propone di identificare il nostro Giambonino con il medico Zambonino da Gazzo, insegnante di filosofia all’università di Padova nella seconda metà del Duecento e morto nei primi anni del secolo successivo.

Fabrizio Loffi


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