Quando la scuola iniziava il 1° Ottobre. In classe col maestro Gigi Manfredini. Quaderno, inchiostro, pennini e carta assorbente. Così imparavamo a scrivere
“Quando la scuola era seria, iniziava il primo di ottobre”, è la frase che in questo periodo fa sbuffare i miei studenti impegnati da ormai due settimane a grattar via la ruggine estiva. In effetti si cominciava proprio nel giorno che il vecchio calendario liturgico preconciliare dedicava a san Remigio, l’arcivescovo di Reims che riuscì a convertire Clodoveo I, re dei Franchi; lo battezzò la notte di Natale nella propria Cattedrale che divenne il luogo per la consacrazione dei successivi re di Francia. Una partenza più che solenne, dunque, sotto la protezione di un santo che con tenacia riuscì in un’impresa impossibile, esattamente come nei suoi primi giorni appare agli studenti ogni nuovo anno scolastico da affrontare.
Sono diventato “remigino” nella scuola elementare Trento e Trieste, e così anche gli altri tre miei fratelli. Lì c’erano fior di maestri e maestre; mio fratello Paolo ha avuto Ugo Bassi, di Piadena, che avversava tenacemente la pedagogia e la didattica del compaesano più mediatico e politicizzato Mario Lodi. La sua classe ogni anno, fin dalla prima, stampava col ciclostile una serie di numeri del giornalino chiamato, su scelta degli alunni, “La Botte”. Scritto a mano sulle sottili matrici in carta di riso, e non a macchina, era “a colori”; le scritte in viola, in verde e in rosso si distribuivano nella pagine che raccoglievano disegni e scritti, non di rado spassosi, degli alunni. Una meraviglia, mio fratello li conserva ancora tutti in PDF.
Ma ricordo anche l’elegante e composto maestro Castagna, il maestro Chiari, e il temuto maestro Maianti. Mia sorella ebbe la maestra Adalgisa Sacchi, mentre l’altro mio fratello la maestra Velia Frosi Fantarelli. Tra le maestre c’era anche quella di ginnastica, Ottavia Arcaini, che abitava nel mio cortile. Con lei mia madre per una serie di anni s’era accordata per farle suonare, da dietro le persiane della finestra proprio dirimpetto alla nostra, un campanellino nella vigilia di santa Lucia, effetto speciale riuscitissimo. Per le sue classi aveva elencato le dieci regole per saper giocare, da lei denominate “decalogo del buon gioco”. Naturalmente da imparare a memoria. Esercitavamo molto la memoria, in tutti gli ambiti di apprendimento.
Nella Cremona della metà degli anni Sessanta, quasi tutti arrivavamo a scuola a piedi, con già indossato il grembiule nero dal colletto bianco, che nella stagione fredda stava sotto il cappotto. Da sotto il grembiule spuntavano le gambette nude, perché noi maschi portavamo i pantaloni corti, anche d’inverno. In quella stagione ci riparavamo coi calzettoni lunghi e i pantaloni di fustagno oppure i pantaloni alla zuava che si chiudevano con un cinturino sotto le ginocchia. Io ne avevo un paio in velluto beige a costa larga. Lo zaino non esisteva, ma c’era “la cartella”, una borsa con la maniglia per portarla a mano. Solitamente erano allacciate anche due cinghie che permettevano di poterla portare sulle spalle. Non che ce ne fosse un reale bisogno perché il contenuto era davvero essenziale, nulla a che vedere con gli attuali inspiegabili volumi da portatori sherpa in spedizione himalaiana.
Ho avuto come indimenticabile ed ineguagliabile maestro Gigi Manfredini, a tutti i cremonesi noto perla sua attività teatrale e soprattutto dialettale. Non ci si permetteva certo di chiamarlo per nome, ma alzandoci in piedi e alzando la mano, lo si chiamava “Maestro!”. E men che meno lo si salutava con un impensabile “ciao”, ma solo “buongiorno”. Ebbene, il mio maestro ci faceva portare un solo quaderno a righe e un altro a quadretti (non esistevano i moderni quadernoni in formato A4, né quelli ad anelli), l’astuccio che si apriva a libro con la dotazione dei pastelli colorati, rigorosamente “Giotto”, la gomma, il temperamatite e la fondamentale matita grigia. C’era anche il “Libro di lettura” cui si aggiungeva il “Sussidiario” dalla terza.
Basta. Niente colla, niente righetti, niente forbici o altri pastrocchi, e soprattutto niente biro, vietatissima. Era la matita grigia che veniva utilizzata per scrivere nei quadretti del quaderno sia numeri che lettere fino alla conclusione della seconda elementare. In terza la si abbandonava, e ricordo l’intransigente battaglia per il divieto assoluto di usare la “moderna” penna stilografica, concessaci poi solo in quarta. Fu lì che santa Lucia mi portò una Aurora di color verde con caricamento a cartucce che mi durò una vita. Quanto alla biro, non fu mai degna di una minima considerazione.
I quaderni a righe previsti per la sola classe terza avevano due righe in cui scrivere le vocali e le consonanti “basse” (ad es. m, n, r, s…), ed una terza riga che fungeva sia da limite per le consonanti che salivano (h, l, t…) che per quelle che scendevano (g, q, p); la “effe”, poi era l’unica presuntuosa che saliva e scendeva. Su questa guida, che nei quaderni di quarta veniva poi abbandonata, Manfredini ci fece imparare a scrivere nel modo più meraviglioso che esista: con cannuccia, pennino, inchiostro e calamaio. All’inizio della mattinata il bidello passava per la classe con la boccia in vetro contenente l’inchiostro blu per versarlo con un imbuto anch’esso di vetro nel calamaio, che era integrato nel banco di ciascun alunno: finezze d’altri tempi. Inevitabile ausilio di un così rischioso strumento di scrittura, oltre al grembiule non a caso nero, era la “carta assorbente”, per me inarrivabilmente poetica. È vero che molti quaderni l’avevano incorporata, però dal cartolaio Botti sul corso Garibaldi o da Orsi, in via Fondulo sul fianco della chiesa di san Vincenzo, c’erano in vendita meravigliosi fogli di carta assorbente dello stesso formato A5 dei quaderni, fogli ben consistenti di spessore e dagli splendidi colori in tinta unita per i quali avevo una autentica passione; ogni tanto dovevo convincere mia madre per comprarmi un foglio nuovo di un colore nuovo. Ma mi piaceva proprio il gesto dell’asciugare con accortezza quanto scritto, senza sbavare il tratto d’inchiostro e soprattutto guardare poi sulla carta assorbente l’impronta speculare della parola scritta sul quaderno. E queste scritte “leonardesche” ad ogni passaggio di carta si incrociavano, si sovrapponevano, si componevano ricamandone entrambe le facce con forme che solo la fantasia poteva decodificare. Poesia, appunto. Occorreva lasciare asciugare solo un po’ lo scritto, magari con qualche soffiata d’aiuto, e poi si adagiava lentamente e progressivamente la carta scorrendoci sopra con delicatezza la mano senza premere troppo e senza muovere la carta, altrimenti erano disastri. E guai a tentare di rimediarvi con maldestre e ancor più disastrose cancellature, non si poteva, non si doveva. Comunque si presentassero, quei disastri erano sistematicamente sanzionati dal maestro Manfredini con un “male” in matita blu. Perché se eri una pippa, dovevi saperlo, condizione peraltro per ogni progresso. Bisognava infatti imparare a conoscere le reazioni del pennino sotto gli impulsi e i cambi di direzione impressi dalla mano, dargli la giusta inclinazione e la giusta pressione altrimenti il maledetto andava a storcersi o a spezzarsi, con l’inevitabile spruzzo di inchiostro sul foglio. Le macchie, quelle belle tonde e cariche d’inchiostro, quelle che ti paralizzavano e ti facevano tirar su il fiato, andavano asciugate utilizzando l’angolo del foglio di carta assorbente che lentamente si gonfiava di inchiostro e poneva parziale rimedio al danno. Sì, scrivere era proprio un atto di lentezza, di misurata pazienza, di controllo gestuale; era davvero un’esperienza di tutta la persona che accompagnava con apprensione, speranza e compiacimento il lento progredire dello scritto. Alla sua conclusione quella era davvero la “tua” frase, la “tua” pagina.
Ma tutto il quaderno era “tuo”, perché non c’era nulla su di esso che non avessi fatto tu: ogni disegno copiato alla lavagna contando i quadretti in verticale, in orizzontale e in diagonale, era tuo e colorato da te, ogni testo, fossero i “Pensierini”, o i “Problemi” era scritto con pazienza da te. Non compariva alcuna anonima fotocopia uguale a tutte quelle degli altri, da compilare con qualche misera paroletta, dai disegni già fatti e semplicemente da colorare e alla fine da impiastricciare con distacco su un quadernone altrettanto anonimo. I quaderni finiti si consegnavano al maestro Manfredini che li depositava nell’armadio e gli ultimi giorni di scuola, riaperto il sancta sanctorum, li spostava tutti sulla cattedra. Lui li apriva uno per uno leggendo ad alta voce il nome dell’alunno che si recava a ritiralo come un bene prezioso e a riporlo sul proprio banco in attesa di una prossima chiamata. Nel frattempo li aprivamo questi magnifici quaderni, pieni di obbrobri e di meraviglie, sempre accompagnati dai voti, “bene”, “benino”, sufficiente”, “insufficiente”, “male”, questi ultimi scritti in matita blu. Li aprivamo e ripercorrevamo con essi i ricordi, gli sconforti e gli entusiasmi provati nel corso del nostro lungo anno. “Fammi vedere il tuo”, perché ciascuno era un unicum, e ce li scambiavamo. Un rito solenne, un compimento perfetto.
Conservo tanti ricordi del mio grandioso maestro, alla cui apparentemente insensata – e per certi versi già allora anacronistica – insistenza sulle penne ad inchiostro debbo il mio legame affettivo con la stilografica, che perfino all’università non abbandonai e che ho continuato ad usare anche per molti anni di insegnamento. Tra tutti i ricordi, tengo a quello della terza elementare, anno in cui, tra l’altro, venni immortalato dal fotografo della Provincia con mia madre e mia zia proprio nel primo giorno di scuola. Per farci imparare la collocazione geografica delle regioni e delle città italiane, si mise a mobilitare la classe in un cantiere straordinario con una lunga serie di sessioni di lavoro. Ricalcò su fogli di compensato i confini di ogni regione italiana e con gradualità scelse e istruì chi poteva essere in grado di tagliare col traforo senza rompere subito tutti i seghetti. Dipinti poi a tempera con diversi colori una serie di ampi fogli, li fece tagliare a tesserine di mosaico da un gruppo di noi; altri ancora, tra cui io, furono addetti ad incollarli con pazienza e ordine certosini sulle sagome in legno delle regioni. In questa fase fu rigorosissimo e di urlate non ce ne fece mancare, perché le tessere dovevano essere assolutamente ben collocate e ben incollate. Ci toccò anche l’interminabile settore dei mari d’Italia da riempire con le tessere blu.
Il risultato finale fu questo: toccando con un puntale il nome della città nell’elenco incolonnato a lato della cartina, con un secondo puntale dovevi cercare la città corrispondente sulla cartina. Grazie ad un circuito elettrico allestito dal maestro ed alimentato a batterie (erano le fantastiche “Superpila” piatte da 4,5 volt, quelle cartonate e con le due linguette), se la scelta era sbagliata non succedeva nulla, ma se invece era giusta, un suono di campanello solennizzava coram populo la correttezza della tua conoscenza. È in questo modo che ho imparato in quale regione e dove fossero collocate Ascoli o Teramo o Ragusa, oltre che le “facili” Milano e Roma, per me e per tutti noi fu un appassionante divertimento. E dal nostro gioco didattico, che tutti avevamo lentamente e faticosamente costruito grazie agli incoraggiamenti e alle urla del maestro Manfredini, non ci separammo più fino all’ultimo giorno della quinta.
Nella foto de La Provincia: 1 ottobre 1965, mia madre Ernestina, mia zia Olga e la mia “cartella” all’ingresso della “Trento e Trieste”.
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commenti
Maria Bice
27 settembre 2023 15:24
Stessi bellissimi ricordi, la mia maestra si chiamava Gina Robusti che noi chiamavamo Signorina. La sua era una vocazione all'insegnamento e le nozioni che ci ha insegnato ancora le ricordo. Come il premio dei gessetti quasi finiti che ci regalava, le statuine fatte per il presepe col Das. Ricordi indelebili e commoventi di una scuola che non esiste più.
Michele de Crecchio
27 settembre 2023 20:12
Deliziosi questi "ricordi di scuola"! Mi permetto di aggiungerne un paio. Il primo era il "nettapenne" di stoffa, indispensabile per ripulire i pennini dopo il loro uso. Il secondo era la denominazione dei contenitori di vetro che le bidelle usavano per "ricaricare" di inchiostro i nostri calamai. Se la memoria non mi inganna, si chiamavano "ampolle", e non "bocce" come le ricorda Cariani. Di tali "ampolle", una sola conteneva l'inchiostro rosso, colore per il quale sin da allora nutrivo una singolare simpatia, ma il cui uso era riservato agli insegnanti per evidenziare gli errori!
ennio serventi
28 settembre 2023 07:52
Bello!! Ricordo bene i maestri Ugo Bassi e Mario Lodi, conosciuti in anni posteriori a quelli decritti, per la loro attività anche al di fuori della scuola, diciamo pure per la passione politica che li animava. Comunardo Chiari, che ricordo in un mio inedito, fu mio maestro, al "Trento Trieste, dopo il 25 aprile 1945 in sostituzione del maestro Borghi passato ad altro incarico. In quei primi giorni di Liberazione il maestro Comunardo Chiari permise, a noi quattro dell'orfanotrofio, di cantare i canti partigiani che Ezio Ghilardi, una altro ragazzo del collegio, ci aveva insegnato nel cortile dello stesso.
Pierluigi Ferrari
29 settembre 2023 17:00
Meraviglioso e assolutamente fedele al vissuto il racconto dell'amico Cariani , che ho ritrovato dopo alcuni anni compagno di classe all'ITIS sezione elettronici, mentre alla Trento e Trieste eravamo in sezioni diverse.
Io ero nella classe del maestro Castagna.
Non ricordo il nome, perché era il maestro Castagna e basta.
Un omone grande e grosso che metteva soggezione solo a guardarlo.
Figurarsi quando alzava la voce...
Nemmeno le mosche osavano volare...
Ma dietro quella scorza si nascondeva una persona meravigliosa che amava il proprio lavoro e i propri alunni.
Ce ne siamo accorti solo in quinta, quando al momento di salutarci gli si sono velati gli occhi di lacrime.
Grazie Maurizio per questi ricordi.
Françoise Fiquet
4 ottobre 2023 19:29
Grazie Maurizio, per questi ricordi dei tuoi primi anni di scuola, evocati in modo così preciso e coinvolgente.
Doveva essere bello essere studiare sotto la direzione del maestro Gigi Manfredini!
La tua testimonianza è preziosa.
Ho apprezzato molto anche il commento del caro Michele de Crecchio, sempre attento a quanto viene pubblicato su Cremonasera!