Quegli antichi castelli lungo il Po. Tra parmense e cremonese, il viaggio nella storia delle terre di fiume raccontato attraverso i resti e le memorie di antichi castelli, bastioni e fortezze
Terre di saperi e di sapori, di eccellenze ambientali ed architettoniche. Terre ricche di tradizioni (spesso comuni), ricche di anche di testimonianze storiche (che in non pochi casi si intrecciano) che parlano di un passato glorioso, di battaglie fluviali e di scontri sulla terra ferma. Terre in cui hanno vissuto e di cui sono state protagoniste antiche e prestigiose Casate, vere e proprie dinastie, autentiche protagoniste, nel solco dei secoli, dello sviluppo, dei destini, dei fasti ma anche delle sfortune delle pianure bagnate dal Grande fiume, sull’una e sull’alta riva. Rive che, nonostante proclami e progetti (molti dei quali finiti a far polvere in qualche scaffale e, in altri casi, miseramente tramontati o mai decollati) non sono ancora riuscite a “parlarsi” a sufficienza portando avanti progetti comuni che darebbero slancio e vigore ad entrambe le sponde. Si parla spesso, nei proclami, di un fiume che unisce ma, in realtà, divide ancora troppo.
Si è parlato e si è scritto dei borghi scomparsi e “divorati” dal Po, ribattezzati come le “Atlantidi del Po”, delle chiese a loro volta scomparse. Ma tanti sono anche i castelli, le rocche, i fortilizi, le torri di guardia, rimasti soltanto nelle memorie lasciate da antichi documenti o tramandate dagli anziani oppure rimasti come semplici “cenni” custoditi in qualche archivio. Ecco dunque oggi una “mappa” dei castelli, delle rocche e dei fortilizi scomparsi che un tempo sorgevano lungo le sponde del Grande fiume sull’una e sull’altra riva.
Partendo dal Parmense, dall’estremità Ovest, ecco Vidalenzo dove, fin da un primo colpo d’occhio, colpisce il fatto che la chiesa parrocchiale, dedicata a San Cristoforo martire, sorge su una collinetta di terreno riportato. La storia informa che l’area era anticamente occupata da una rocca dei marchesi Pallavicino e pare che il campanile fosse originariamente un torrione di quel remoto fortilizio. Tra l’altro durante i lavori di realizzazione dell’attiguo cimitero vennero rinvenuti, nel corso degli scavi per la posa del muro di cinta, resti di frumento bruciato e di ossa di animali.
Nella vicinissima Polesine Parmense, il castello era posto a difesa di quell’importante porto fluviale che si apriva immediatamente a nord ovest del “Palazzo delle Due Torri”. Fonti storiche alla mano, un duplice ordine di fortificazioni esisteva in Polesine poiché il trattato di pace e di alleanza tra il Duca di Milano Filippo Maria e il Marchese Orlando Pallavicino del 5 gennaio 1431 parla espressamente di “castrum et rocha Polesini” lasciando intendere che l’abitato intorno al porto era cinto di mura e difeso da una piazzaforte. Per entrare maggiormente nella storia va ricordato che agli inizi del XVI secolo il fiume spostò il suo letto più a sud, fino a lambire le fondamenta della rocca, che nel 1547 crollò e la stessa sorte toccò pochi anni dopo anche alla chiesa costruita da Giovan Manfredo Pallavicino nei pressi dello stesso maniero. La costruzione della prima opera difensiva, cioè della rocca, risale ai primi anni del periodo di Rolando il Magnifico Marchese Pallavicino. E’ nel 1408 infatti che il marchese, forse a costruzione appena terminata, nomina Donnino di Sant’Andrea castellano della Rocca di Polesine che egli si impegna a costruire. Alla morte di Rolando il 5 febbraio 1547 i suoi feudi sono divisi tra i suoi sei figli e Polesine e Costamezzana toccano al peggiore di tutti: Giovan Manfredo, attaccabrighe sia coi fratelli che con lo stesso Duca e cogli emissari di questo, oltre che cogli stessi uomini di Polesine. Al punto di correre il rischio, nel 1477, di vedersi confiscare il feudo dal Duca e di indurre il fratello Giovan Francesco di Zibello ad interporsi col cancelliere ducale Cicco Simonetta per scongiurare questa eventualità, nonostante il comportamento tenuto nei suoi confronti da Giovan Manfredo durante la successione di Rolando il Magnifico, loro padre. E neppure la richiesta al Duca di poter allargare la cinta muraria del castello per costruire al suo interno una chiesa dedicata alla Madonna, a Dio Onnipotente e ai Santi Vito e Modesto in modo da qualificarsi come religioso e pio, era servita a riguadagnare la sua fiducia, ne aveva fatte troppe. Però questa richiesta consente di attribuire a lui la costruzione di quei muri di fortificazione riaffiorati più volte,in passato, al centro dell’attuale alveo del Po e quasi minati negli anni Ottanta del Novecento per evitare che finissero contro di essi le imbarcazioni che navigano sul fiume. I loro frammenti vennero quindi trasportati alla testa del pennello sul lato sinistro del fiume un po’ più a valle della bocca di Ongina e, in larga parte, sulla sponda cremonese in territorio di Stagno Lombardo dove ancora oggi, specie durante i periodi di magra del fiume, riaffiorano come un autentico libro di storia aperto sul mondo.
Va anche aggiunto che nei primi anni del ’500 il Po aveva mantenuto il suo alveo a nord del territorio di Polesine in prossimità di Brancere e Stagno Lombardo e si spostò repentinamente verso sud giungendo a lambire prima le mura del castello facendole crollare e poi la stessa rocca, erodendo il terreno sotto le sue fondazioni fino a che, nell’inverno del 1547, essa si afflosciò repentinamente su sè stessa. Anche il Pretorio costruito dalla Duchessa Enrichetta finì nel fiume, insieme a diverse case che si erano salvate in passato. Il ricordo di ciò è stato ben rappresentato su una mappa a volo d’uccello magistralmente redatta dal tecnico di Polesine Giovanni Ghelfi, con la relativa indicazione dell’anno di crollo dei vari fabbricati tra il 1816 e il 1873. Mappa ora esposta nell’ex municipio di Polesine, ora adibito a biblioteca comunale. Unico Palazzo a salvarsi fra tutti fu il palazzo delle Due Torri (l’odierna Antica Corte Pallavicina). Tornando ai resti del castello e delle altre antiche costruzioni della vecchia Polesine, va detto che oltre ai grossi frammenti che si trovano lungo la massicciata di Stagno Lombardo, altri si trovano tuttora dietro al vecchio municipio di Polesine Parmense, lasciati lì nel loro totale “anonimato”, perché ad oggi, dopo anni ed anni, nessuno ha mai ritenuto di realizzare e piazzare una piccola targa con una breve storia di quelle mura. Una vergogna a cielo aperto alla quale, si spera, qualcuno prima o poi possa provvedere visto che la realizzazione di un semplice cartello, specie in un territorio che, a parole, si definisce (con una certa spregiudicatezza) a vocazione turistica non richiede sforzi immani.
Passando quindi a Zibello, il borgo patria di “Sua maestà” il culatello fu sede di un importante castello che, come indicano anche le fonti storiche, pare fosse stato eretto la prima volta dai Romani. Era dipendente fin dall'800 dalla diocesi di Cremona, e fu edificato entro il XII secolo, secondo la tradizione sui resti di una fortificazione munita di quattro torrioni costruita in epoca romana per volere di Marco Bruto, pretore della provincia di Cremona. Nel 1218 il possente maniero subì un violento attacco da parte degli eserciti milanese e piacentino, che furono costretti alla resa dagli occupanti cremonesi e parmigiani mentre nel 1249 l'imperatore del Sacro Romano Impero Federico II di Svevia, il celeberrimo “Stupor Mundi” investì il suo condottiero Oberto II Pallavicino di numerose terre del Parmense, tra cui Zibello; ma nel 1268 le truppe cremonesi attaccarono, conquistarono e distrussero il maniero. Nel XIV secolo i Visconti, signori di Milano, favorirono il ritorno dei Pallavicino nei loro territori dell'Oltrepò cremonese e nel 1348 Donnino Pallavicino divise col fratello Oberto l'eredità paterna, ottenendo i feudi di Zibello, Ravarano, Casola, Monte Palerio, Sant'Ilario Baganza, Cella e Parola. Nel 1417 il castello di Zibello fu di nuovo assediato dall'esercito del marchese di Ferrara Niccolò III d'Este, condotto da Uguccione dei Contrari con l'aiuto dei capitani Cabrino Fondulo, Bartolomeo Arcelli e Pier Maria I de' Rossi; il 7 gennaio del 1418 Antonio e Donnino Pallavicini, con i figli, furono costretti alla resa e, catturati, furono confinati a Parma. Tuttavia, due mesi dopo i Marchesi riuscirono a fuggire e si diressero a Zibello, assaltando il maniero; Pier Maria I de' Rossi, i conti Sanvitale, il marchese di Soragna e il conte Alberico da Barbiano accorsero in difesa della fortezza, costringendo alla fuga il marchese di Scipione Pietro Pallavicino sopraggiunto in aiuto dei cugini; gli attaccanti furono catturati e l'Estense decise di assegnare il feudo a Cabrino Fondulo.
Alla fine del 1420 Niccolò d'Este cedette Parma e il Parmense al duca di Milano Filippo Maria Visconti, che nel 1424 fece catturare il Fondulo, confiscando le sue terre. Quattro anni più tardi il Parmense fu sconvolto dagli scontri tra i Rossi, i Pallavicino e altre famiglie; al termine dei contrasti, il duca Filippo Maria decise di restituire a vari ex-feudatari le terre perse negli anni precedenti e Antonio Pallavicino, marchese di Ravarano, riottenne il feudo di Zibello; però, l'anno seguente il cugino Rolando il Magnifico si impossessò del castello e, nel 1431, ricevette conferma dell'investitura dal Visconti. Nel 1432 Antonio alienò ufficialmente la metà da lui posseduta di Zibello a Rolando, ma il contratto fu formalizzato solo nel 1434. Nel 1441 Niccolò Piccinino convinse il duca Filippo Maria del tradimento da parte del marchese Orlando e si fece incaricare di conquistarne lo Stato Pallavicino; attaccato su più fronti, il Pallavicino fu costretto alla fuga e tutti i suoi feudi furono incamerati dal Duca. Nel 1445 il Marchese diede prova di lealtà al Visconti, che acconsentì alla restituzione di quasi tutte le terre confiscate, a eccezione di Monticelli d'Ongina e alcuni altri feudi donati al Piccinino. Nel 1457, alla morte di Rolando il marchesato di Zibello, unitamente a metà di Solignano, fu ereditato dal figlio Giovanfrancesco; il Marchese, investito al termine della guerra dei Rossi del 1482 anche del feudo di Roccabianca, trasformò Zibello nella capitale del suo piccolo Stato e ricostruì il castello. Alla morte di Giovanfrancesco nel 1497, gli succedette a Zibello il quartogenito Federico, che tuttavia scomparve nel 1502, nominando eredi i figli Giovan Francesco II, Ippolita, Giacoma e Argentina e la moglie Clarice Malaspina; nel 1514 morì anche il marchese Giovan Francesco, testando a favore delle sorelle.
Il marchese di Cortemaggiore Gian Lodovico II Pallavicino, marito di Ippolita, si impossessò autoritariamente del castello, di cui detenevano delle quote anche le cognate e i due fratelli di Federico, Bernardino e Rolando, che nel 1515 attaccarono il maniero; dopo oltre due mesi di assedio, gli occupanti furono costretti alla resa e i due fratelli presero possesso della fortezza. Nel 1526 Bernardino morì e la sua metà di Zibello passò al figlio Uberto; nel 1529 scomparve anche Rolando, che, privo di figli maschi, fu costretto dal papa Clemente VII a testare a favore del nipote. Tuttavia, nello stesso anno il marchese Uberto fu scomunicato dal pontefice e nel 1530 il marchese Ludovico Rangoni, genero di Rolando Pallavicino, con l'aiuto delle truppe papali attaccò il maniero, che capitolò dopo un assedio; Ludovico prese così possesso dei feudi di Zibello e Roccabianca, dando origine alla secolare lite giudiziaria nota come Causa Parmensis Status; nel 1533 Uberto ottenne sentenza favorevole, che tuttavia venne ribaltata l'anno seguente. Nel 1546 il nuovo duca di Parma Pier Luigi Farnese investì ufficialmente di entrambi i feudi Giulio e Pallavicino Rangoni, figli di Ludovico, che ne ricevettero conferma anche dal duca Ottavio. Nel 1630 ebbe termine la lite giudiziaria tra le due famiglie, con una transazione trascritta in sentenza nel 1632; Zibello tornò ai Pallavicino, mentre Roccabianca fu assegnata ai Rangoni, con la clausola che se questi ultimi si fossero estinti anche quel feudo sarebbe stato restituito ai Pallavicino di Zibello, come infatti avvenne nel 1762. Nel 1806 l'ultimo marchese Antonio Francesco I Pallavicino fu costretto a lasciare Zibello a causa dell'abolizione dei diritti feudali sancita da Napoleone. La storia informa quindi che nel 1832 del castello si conservavano ancora una torre alta oltre 100 metri mentre delle altre tre non restavano che le fondamenta. Poco più di dieci anni dopo, nel 1844 i resti furono completamente demoliti allo scopo di riutilizzarne i materiali per la costruzione di una diga sul Po a Stagno Parmense, i cui lavori non furono mai neppure avviati.
Anche Pieveottoville, a due passi da Zibello, aveva un proprio maniero. La località è di origini particolarmente remote e, stando ad una tradizione raccolta da Francesco Luigi Campari, il castello che sorgeva in località “Il Torrione” venne distrutto il 22 maggio 1333, giorno di Pentecoste. Nel 1182, per investitura imperiale di Federico Barbarossa, Pieveottoville entrò a far parte del marchesato dei Pallavicino e nel 1331 fu coinvolta nella guerra tra Giovanni di Boemia ed Azzo Visconti di Milano; è noto infatti che Naso di Gregorio Sommi aveva promesso ad Azzo Visconti di ricevere lui ed i suoi cavalieri in attesa di attaccare Cremona, nel fortilizio di Pieve d’Alta Villa (precedente nome della località), di cui la famiglia era stata investita. Ma Giovanni di Boemia ne venne a conoscenza e, dopo aver fatto imprigionare Naso Sommi, ne ordinò la distruzione che avvenne appunto per la Pentecoste del 1333. La fortezza fu spianata e la terra donata ai Rossi. Notizie, queste, ben riportate dal Campari.
Spostandosi sempre verso Est, ecco Tolarolo, paese di cui non resta traccia se non nel nome di una via e in alcuni documenti storici. Tolarolo sorgeva tra Roccabianca e Stagno e tuttora, a poche centinaia di metri dal centro di Roccabianca, esiste appunto un’arteria comunale denominata “Tolarolo” dove si trovano anche pochi e poveri resti di un antico cimitero. A Tolarolo già nel 1058 sorgeva un castello che Arrigo IV, Re di Germania e d’Italia, concedette ai Borghi (o Da Borgo) di Cremona. Nuove notizie su questo luogo compaiono nel 1316 quando vi trovò rifugio un nerbo di truppe fedeli a Giberto da Correggio (e forse Giberto stesso), appena cacciato dalla Signorìa di Parma. Proprio da Tolarolo, Giberto attendeva aiuti cremonesi per muovere alla riscossa, ma dopo pochi giorni perse anche quella signoria e, furioso, si diede a saccheggiare la campagna parmense, scatenando così la reazione dei cittadini che, alternandosi per “Porte” avvicendarono forze sempre fresche all’assedio di Tolarolo (18 ottobre – 22 novembre 1316). I correggeschi alla fine vennero a patti e, se il Podestà di Parma si era accontentato di presidiare il forte con truppe fedeli alla città, il capitano del Popolo, Guiscardo, della Società dei Crociati, cavalcò a Tolarolo spianandolo fino alle fondamenta e colmando i fossati. Un ultimo documento, che parla del castello di Tolarolo ormai distrutto, è datato 1375.
Oggi non resta alcun rudere di quell’edificio come non resta nulla della sua chiesa che era dedicata a San Michele e della vicina fortezza di Rezinoldo (o Rezzenoldo o Arzenoldo), località che per la prima volta compare nell’elenco di ville di cui Federico Barbarosssa infeuda, nel 1189, Oberto Pallavicino ed è opinione di Francesco Luigi Campari, nel suo libro “Un castello del Parmigiano attraverso i secoli” che il nome del luogo derivasse da “argine” (la forma dialettale è “àrzen). A proposito appunto di Rezinoldo, di questa località non è scomparso solo il castello ma anche il ricordo di dove si trovasse esattamente il posto. Nella forma “Rezinoldo” la località, per la prima volta, compare nel 1189 tra l’elenco di ville di cui Federico Barbarossa infeuda Oberto Pallavicino e, secondo Francesco Luigi Campari, il nome della località derivava appunto da “argine” a cui si poteva essere aggiunto, almeno in parte, il nome di una persona. Molto probabilmente il paese si trovava lungo la strada per Cremona, tra il ponte del Grugno sul Taro fino a quello in pietra che, sempre secondo il Campari, si trovava un tempo sul “foxatum parmense” oggi coincidente con la Fossa Parmigiana e la parte terminale del canale Rigosa Vecchia. Il paese aveva anche una chiesa, dedicata a San Bartolomeo, che sorgeva probabilmente laddove oggi si trova il cimitero di Roccabianca. Nell’anno 1284, per evitare che entrassero in terra parmigiana merci senza il benestare del Comune, i ponti sui confini vennero rinforzati e quello di Rezinoldo, che segnava i confini tra i vescovadi di Parma e Cremona, ebbe a sua difesa un robusto battifredo che venne concluso nel 1285 e, col tempo, fu trasformato in castello dal momento che, nel 1417, Oberto Pallavicino, dopo aver fatto rovinare la fortezza di Noceto, che era dei Sanvitale, incendiò il castello rossiano di Rezinoldo di cui, per breve tempo, l’anno precedente si era già impadronito Antonio Pallavicino. In seguito alla fondazione di Roccabianca, di fatto il ricordo di Rezinoldo e della sua fortezza scomparvero.
Se di Tolarolo e di Rezinoldo non resta praticamente nulla, spicca invece a due passi dal fiume la frazione di Stagno di Roccabianca le cui terre già nel 1085 appartenevano a due fratelli cremonesi, Tommaso e Barozzo Borghi e nel 1189 Federico Barbarossa le concesse ai Pallavicino. Tuttavia, dopo la morte di Oberto Pallavicino il Grande, i Borghi tornarono ad esercitare su Stagno il loro dominio e solo nel 1375 cedettero alle pressioni dei Rossi che desideravano estendere le loro possessioni fino al Po. Rolando Rossi comprò, dal nobile Cabrino da Borgo, oltre a Stagno, anche terre a Polesine dè Manfredi (località situata tra Stagno e l’attuale Polesine Parmense), Tolarolo e Fossa. I Pallavicino non stettero di certo fermi e acquistarono, da Rodolengo da Borgo, altre terre nelle medesime zone e vennero così gettate le basi per inevitabili contese future. Il castello di Stagno, anche se non è nota la data in cui fu eretto, esisteva sicuramente nel 1480 quando il Duca di Milano lo cedette a Francesco Pallavicino e l’anno successivo i Rossi, ormai alle strette, se ne impadronirono e cercarono, con le vicine fortezze di Roccabianca e Torricella, di frenare il potere degli antichi rivali (i Pallavicino) ormai alleati del Duca di Milano. Nel 1484, in seguito al crollo dei Rossi, Stagno tornò ai Pallavicino seguendo le sorti di Roccabianca. Non è rimasta traccia alcuna del vecchio castello che, secondo la tradizione, pare sorgesse nel grande bosco definito “del Vajro”, in larga parte spazzato via dalle piene del Grande fiume.
Oltrepassato il Taro ecco Palasone, frazione di Sissa Trecasali: a riguardo ecco che un documento datato 2 dicembre 942 indica che, già a quell’epoca, Palasone aveva un castello che il conte Suppone donò ai Canonici di Parma. Ci sono poi successivi documenti che ne attestato l’esistenza negli anni 996 e nel 1000. Successivamente, intorno al 1310, insieme a Sissa passò ai Terzi e, da allora, non si trovano ulteriori documenti che parlino del castello ma è certo che gli ultimi feudatari del luogo furono i Simonetta di Castelbarco.
Passando quindi a Colorno ecco che la cittadina della Bassa Parmense ha avuto due castelli. Il primo si trovava nella zona alla fine del Lorno (Co Lorno), nei pressi della attuale Torre delle Acque e non ne rimane nulla se non probabilmente qualche pezzo di fortificazione (ma è tutto da provare che appartenesse a quel maniero). Agli inizio del ’400 venne quindi costruito un nuovo castello all’epoca dei Terzi, nella zona in cui ora si trova la reggia, poi trasformato in rocca dai Sanseverino e in palazzo dai Farnese. In quanto al primo castello, al centro come numerosi altri di importanti contese, è assai probabile che questo esistesse già prima dell’anno Mille visto che un documento capitolare del 1004 parla di un “castrum” del Vescovo di Parma per un paio di secoli. Data cruciale fu quella del 1364 quando Bernabò Visconti decretò lo smantellameno del forte e solo nei primi anni del Quattrocento, grazie all’iniziativa dei Terzi fu costruito il nuovo castello, laddove appunto oggi sorge la reggia.
Oltrepassando il Grande fiume e, quindi, immergendosi nel Casalasco e nel Cremonese, ecco che a Casalmaggiore i castelli furono due. Il “castello vecchio” si trovava dove oggi sorge la piazza centrale e la sua funzione difensiva si esaurì con l’avvento delle armi da fuoco. Nella celebre “Descrizione dello stato fisico – politico – statistico – storico – biografico” della Provincia e Diocesi di Cremona di don Angelo Grandi si legge che era dotato di un fossato con acque colaticce e stagnanti che rendevano l’aria molto insalubre. Di questa struttura, che subì anche e in modo importante le conseguenze delle piene del Po, non resta nulla se non appunto le memorie scritte. Sarebbe invece opera dei Veneziani, secondo anche quanto scrive l’Abate Romani, la costruzione del “castello nuovo” (ma non è chiaro se a completarla siano stati gli stessi Veneziani o gli Sforzeschi), realizzato su un terrazzamento affacciato sul Grande fiume, di cui si è conservato solo un imponente torrione a pianta quadrangolare, con importanti murature in mattoni a vista, coronato alla sommità da un apparato a sporgere munito di slanciati beccatelli e sormontato da merli collegati da archi a sostegno del tetto. E’ molto probabile che l’antica struttura abbia subito importanti modifiche e riadattamenti XV secolo. Casalmaggiore, da sempre, riveste una posizione di notevole importanza strategica sul Po, in un crocevia tra Lombardia ed Emilia, nel mezzo dei vari collegamenti tra Cremona, Mantova, Brescia e Parma. Anche per questo motivo il borgo, fin dal secolo XI venne munito di fortificazioni ed il castello fu ampiamente contesto tra milanesi, bresciani, cremonesi e mantovani, quindi tra il Ducato di Milano e la Repubblica Veneta.
C’era un castello anche a Fossacaprara di cui parla un anonimo, in un documento del 1623, citando un castello con fortezza distrutti dal Po. Esistono inoltre delle memorie di un parroco della stessa Fossacaprara, don Palmiro, che in passato aveva effettuato scavi intorno alla attuale chiesa trovando grosse mura e fondazioni che aveva attribuito ad una ipotetica opera difensiva se non addirittura ad una rocca. Lo stesso campanile della chiesa di Fossacaprara è attribuibile (ma si tratta solo di una teoria) ad una probabile torre con funzione di avvistamento sul fiume, poi divenuta appunto torre campanaria. Un altro castello esisteva anche a Martignana di Po; infatti la meravigliosa e settecentesca villa “La Bastia” sembra sia stata fatta costruire dai marchesi Lodi utilizzando il corpo murario di un preesistente castello che era situato sul terrazzamento della sponda sinistra del Po.
A Gussola, invece, il Castello di Borgolieto, detto “dell’Oca” sorgeva dove oggi si trova palazzo Casaglia che appartenne al nobile Casato degli Ala Ponzone fino al 1870, prima di essere venduto e frazionato in diverse proprietà. Va anche aggiunto che nel 1403 Gussola era annoverato tra i castelli guelfi che obbedivano ai Cavalcabò. Tutto un capitolo a parte lo meriterebbero, invece, Torricella di Sissa e Torricella del Pizzo, che anticamente formavano un unico centro prima di essere divise dai mutamenti del Grande fiume. Torricella di Sissa Trecasali, anticamente era detta San Donnino del Castello di Torricella, per distinguerla da Torricella ultra Padum, vale a dire appunto Torricella del Pizzo. Il castello della Torricella “parmense” viene citato in modo ufficiale, per la prima volta, nel 1284, e quindi è lecito supporre che potesse esistere quando le due “Torricella” erano di fatto una sola località. Il maniero venne distrutto, al termine di una cruenta battaglia fluviale nel 1427. A Torricella del Pizzo, nella parte occidentale del paese, quindi proprio quella che “guarda” verso il Po, a due passi dall’argine, si conserva ancora oggi il “Torrione”, una delle più importanti testimonianze storiche del territorio. Forse quelle superstiti del castello che esisteva in epoca medievale sul luogo di cui accennano i documenti storici. Infatti la posizione in questo punto di un castello o di una torre di avvistamento verrebbe giustificata dalla stessa orografia stessa del luogo, vale a dire su un terrazzamento alluvionale formato da un ramo morto del Po. La torre è presumibilmente quattrocentesca, a pianta quadrata su basamento a scarpa, cimata in altezza e accostata su di un lato ad altri edifici. Non è da escludere la possibilità che sia sorta a difesa del paese, a partire dal XV secolo, su quelle terre lasciate in secca dal Grande fiume che, dopo la devastante alluvione del 1390, aveva deviato il proprio corso verso Sud. Come si legge anche sul sito del Museo Amarcord, la storia di Torricella del Pizzo è fortemente legata alle vicende del Grande fiume.
“Durante la dominazione Romana – si legge sul sito stesso - il Po era caratterizzato da un bacino molto vasto formato da parecchi canali che si intersecavano fra loro costituendo nel mezzo (da qui il nome di "mezzano") varie isole e tra queste l'isola del Pizzo la cui importanza crebbe nel corso dei secoli parallelamente all'affermarsi del Grande fiume quale straordinaria via di trasporto. La navigazione fluviale consentiva il trasporto di grandi quantità di merci, era sicura garanzia contro gli assalti di predoni e briganti che infestarono le strade di campagna fino al secolo scorso ed inoltre era veloce a differenza del trasporto via terra fatto di carri trascinati da cavalli e muli. Già i bizantini (siamo nel VI-VII secolo d.C.) sfruttarono il Po per alimentare la resistenza delle città padane contro i longobardi a tal punto che il re Ataulfo, una volta conquistata Cremona, nell'anno 603 d.C., per la resistenza incontrata, la fece radere al suolo. Anche in questo caso Torricella appare nella leggenda che vuole il nome derivato da una torre fatta erigere dal longobardo Gemandro a difesa ed osservazione sul Po. Ma è dopo l'anno mille e la nascita di Cremona quale libero comune – si legge ancora - che il Po diventa l'elemento fondamentale per l'economia cremonese. Dopo aver ottenuto l'autonomia dal Sacro Romano Impero Germanico, grazie al vittorioso duello contro il figlio dell'imperatore da parte di Giovanni Baldesio, Cremona iniziò una tenace politica per accaparrarsi il controllo del Po fino a Guastalla. Il dominio cremonese si estese nel corso dell'XI sec. su entrambi le rive del fiume e l'esistenza di due Torricelle poco lontane fra loro ha messo in difficoltà gli storici nello stabilire i fatti accaduti nell'una o nell'altra località”.
Un accenno lo merita anche San Daniele Po, citato tra le località fortificate del Cremonese nel 1404 mentre la vicina Solarolo Monasterolo di Motta Baluffi era caratterizzata da fortificazioni già nell’XI secolo. Passando a Cremona, non può essere dimenticato l’antico castello di Santa Croce di cui non resta che un torrione di via Ghinaglia. Il maniero fu eretto, dal 1370, su iniziativa di Bernardo Visconti, a scopo difensivo, su un'area che in passato era occupata dal Grande fiume prima di essere bonificata dai monaci benedettini che vi avevano realizzato il monastero e la chiesa di Santa Croce. In seguito alle nozze tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza il casello venne in parte trasformato in residenza signorile nella quale passarono Angioini ed Estensi, Aragonesi, e vi si fermarono anche Lorenzo il Magnifico e Lodovico il Moro. Nel Cinquecento fu al centro di interventi finalizzati a difendersi dall’avvento delle nuove armi da fuoco. Furono quindi i veneziani ad abbassare le torri e ad eliminare il fossato mentre i francesi, nel 1520, eressero due nuove torri. Un paio di secoli più tardi, nel Settecento, gli austriaci lo vendettero ai Magio decretandone la demolizione. Solo nel 1866 lo Stato italiano lo ottenne come area di passeggio fino all’acquisto definito da parte del Comune per realizzare un quartiere residenziale mantenendo però il torrione come ricordo dell’indimenticabile maniero.
Infine, a Spinadesco, nel XIII secolo sono attestate fortificazioni e don Angelo Grandi, nei suoi preziosi volumi sulla storia della provincia e diocesi di Cremona parla dell’ “antico robusto palazzo della famiglia Poloni, costrutto alla foggia di castello, che forse avrà servito in passato di difesa….”
Un fiume, il Po, che è custode e testimone della storia; che nel suo secolare scorrere tra le verdi e fertili terre emiliane e lombarde, è stato al centro di battaglie fluviali e scontri tra antiche Casate, ha visto sorgere rocche e castelli e li ha visti crollare, ha cancellato interi abitati ed ha determinato lui stesso la storia così come ha saputo e sa custodire le vicende, piccole e grandi, dei suoi villaggi e della sua gente. In un silenzio che, a saperlo ascoltare ed osservare, è maestro, anche nel tenere vivo il passato proiettandolo verso il futuro. Sarebbe interessante, non comporterebbe costi esorbitanti e sarebbe anche buona cosa se laddove sorgevano chiese, castelli, rocche, fortificazioni, villaggi si posizionasse un cartello, con qualche essenziale accenno sulla storia del luogo, per mantenerla viva nel tempo.
Eremita del Po
in foto, l'antico castello di Torricella del pizzo, i resti del castello di Polesine, alcune riproduzioni del castello e dei bastioni di Cremona e dei ruderi del castello di Zibello
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commenti
Dirce
19 dicembre 2024 10:42
Quelle rocche non sono "castelli". I castelli sono siti "militari" ed in quanto tali sono