14 giugno 2021

Verso Tokio 2021, Gino Belloni primo cremonese alle Olimpiadi (1912) La sfida a duello con un giornalista all'Ippodromo di San Siro

Le Olimpiadi di Tokyo battono alle porte. Ecco un ricordo dei cremonesi che parteciparono, iniziando dallo schermidore Gino Belloni che fu in pedana a Stoccolma nel 1912.

 

La scherma italiana, agli inizi del secolo scorso, era tra le più fiorenti in Europa, in concorrenza con quelle russa, belga e francese: peraltro cresciuta, quest’ultima, grazie alla presenza a Parigi del maestro bolognese Girolamo Cavalcabò̀, chiamato appositamente in Francia da Luigi XIV. 

Più tardi, Alberto Marchionni, maestro fiorentino, fu l’iniziatore dichiarato della fortissima scuola mista franco-italiana. Nato all’inizio dell’800 o sul finire del 1700, scrisse e pubblicò nel 1847 a Firenze un testo che fu fondamentale per capire cosa sarebbe accaduto di lì in poi: “Trattato di scherma su di un nuovo sistema di giuoco misto di scuola italiana e francese”. Fu il fondamento di tutta scherma per almeno un secolo.

 

La scherma era entrata di diritto nel programma olimpico già nel 1896 in Atene, ma i maestri italiani non s’erano lasciati abbindolare dal fascino suggestivo dei Giochi Olimpici che, nonostante tutto, andavano acquistando sempre maggiore credibilità dopo la stravagante edizione di Atene, quelle ancora approssimative di Parigi e Saint Louis, e anche di Londra nel 1908, quando le gare si protraevano per mesi solo facendo da complemento ad esposizioni internazionali e ad altre manifestazioni collaterali. 

 

Anche la mancanza di garanzie circa la composizione delle giurie (ancora non erano stati inventati gli strumenti elettrici e il risultato era troppo spesso affidato all'abilità, oltre che alla benevolenza ed equanimità delle giurie, sovente neppure all’altezza della valentia degli schermidori più bravi) aveva trattenuto i pur temuti tiratori italiani dalla tentazione di porsi alla mercé di giudici di cui non si conoscevano  la lealtà sportiva e nemmeno le capacità tecniche.

C’era, nei maestri italiani, una pesante dose di orgoglio, fors’anche di presupponenza e, a dire il vero, la inevitabile riluttanza a rischiare una fama consolidata di fronte ad avversari sconosciuti, magari pericolosi quanto poco valutabili a livello internazionale, più o meno quanto fecero  i presuntuosi maestri inglesi quando, ritenendosi i veri depositari del gioco del calcio, non vollero misurarsi con le altre nazioni nelle prime edizioni dei campionati del mondo, finendo poi per  essere penalizzati da questo voluto isolamento. 

Gravava un altro pesante ostacolo alla partecipazione olimpica dei nostri schermidori: erano quasi tutti maestri d’arme, professionisti veri che della scherma avevano fatto il loro lavoro: la loro posizione mal si confaceva con le rigidissime disposizioni della carta olimpica.

 

I Giochi di Parigi, come quelli di Saint Louis, del resto, s’erano dimostrati non solo privi di serietà, ma pure di quella enfatica e romantica poesia che aveva permeato il debutto di Atene: quasi esclusivamente frequentati da atleti della nazione organizzatrice, troppo prolungati nel tempo e con l’assegnazione di titoli a iosa (a Saint Louis, ad esempio, a fronte della partecipazione di 496 atleti di cui 432 statunitensi, furono assegnati 390 titoli olimpici) che non avrebbero portato alcuna fama ai vincitori, specie in una specialità come la scherma, ove proprio la mancanza di giurie all’altezza della bravura degli atleti costituiva un problema difficilmente risolvibile. 

 

Solo a Stoccolma, ma si era già nel 1912, alla quinta Olimpiade, l’Italia schermistica decise di presentarsi alla rassegna; lo fece in modo positivo, con una squadra non numerosa, ma tecnicamente eccellente soprattutto nel fioretto: non sfuggì il successo pieno agli azzurri in quest’arma. 

Vinse Nedo Nadi, 18 anni soltanto, il più grande e poliedrico di tutti i tempi (sei titoli olimpici in carriera benché fosse stato costretto a saltare l’edizione del 1916 e nonostante il precoce ritiro per dedicarsi al professionismo subito dopo l’edizione del 1920). 

 

Della spedizione a Stoccolma fece parte anche un cremonese, Gino Belloni, che della scherma nostrana era il portabandiera da anni, il più valido, il più esaltante in pedana, ma anche il più discusso. Era tale la sua esperienza, autorevolezza e conoscenza del mondo della scherma, che i suoi stessi colleghi lo investirono dei gradi di capitano della formazione azzurra. 

Nella gara individuale, non giunse oltre il primo turno di eliminazione sia nella sciabola che nel fioretto poiché la sua scherma potente e aggressiva, poco apprezzata dai puristi, presentava molte difficoltà a farsi apprezzare da una giuria che badava più all’estetica che al sodo, alla stoccata effettiva.

 

Nella gara a squadre, preferì addirittura mettersi da parte dopo una litigata furibonda con un giudice, per non compromettere le prestazioni dei compagni di squadra: la mancanza di precisione nei giudizi era la causa spesso di interminabili discussioni e battaglie tra atleti, giudici e tifosi e il fairplay richiesto per tradizione agli schermidori veniva spesso tralasciato.

Nella sciabola a squadre, invece, Belloni diede il suo notevole contributo alla formazione che arrivò agevolmente alle semifinali, ma qui venne a sorpresa battuta dall’Ungheria incontrando una di quelle giornate negative che passano alla storia per demeriti propri, dei giudici, della sorte: Nadi era sceso in pedana con la febbre altissima e alcuni svarioni arbitrali avevano definitivamente condannato la squadra alla sconfitta.

Per una sola stoccata (9-8), poi, l’Italia fallì anche la conquista della medaglia di bronzo e Belloni tornò dalla Svezia a  mani vuote. 

Peccato! Era partito da Cremona con entusiasmo, anche se non al meglio della condizione, per quella avventura che era andato ad affrontare cercando conferma dei clamorosi successi appena ottenuti nelle rassegne iridate di Praga e di Vienna. 

La squadra si era presentata a Stoccolma con in tasca il titolo di campione del mondo a squadre, ma già Belloni, dall’alto della sua profonda esperienza, aveva intuito che qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto.

Ho la sensazione - aveva scritto poche settimane prima della partenza - che se la lotta sarà circoscritta fra quattro schermidori, l’Italia potrà riuscire prima di sciabola (Ungheria, Boemia, Austria e Russia sono gli avversari più forti) e seconda di spada (Francia e Belgio le più pericolose) mentre se là i combattenti in gara d’ogni squadra dovranno essere otto, la nostra posizione scenderà di molto perché le nazioni più forti possono vantare un numero di tiratori di pari forza superiore al nostro. Questo fatto avrà il maggior peso anche nelle  gare individuali.

  Qui rischieremo di essere travolti perché ogni nazione potrà presentare non meno di otto campioni per arma.. 

Basti pensare che almeno 14 nazioni saranno a Stokolma con 35-40 partecipanti. Noi siamo in otto e ci ridurremo a quattro o cinque per arma. Finiremo per perderci nelle interminabili eliminatorie e semifinali. Anche per questo fatto non so se deciderò di accettare il compito affidatomi dal Comitato Nazionale Olimpico Italiano dopo il referendum indetto tra tutti gli schermidori d’Italia. Abituato poi a partire per tornei di pari importanza con la sicurezza di vincere per la grande fiducia nella mia forma, oggi, non avendo quella fiducia  perché mi manca, sto per decidermi a non partire più.”

Alla fine ebbe un ultimo sfogo confessandosi sul giornale locale: lamentava di non aver potuto preparare adeguatamente un impegno tanto importante: “Mai Cremona è stata senza schermidori come ora. Lontano il Maestro Sanipoli; araba fenice il fortissimo capitano Folezzani, lontano il Maggiore Romani; Mori Tonino che sta morendo dietro la coda del suo cavallo, Onofri che si dà agli amori ancillari...Io solo, troppo solo, vado mendicando un po’ di aiuto da Augusto Celli il quale pare stia prendendo la sbornia automobilistica ed ha ben altro in mente che la scherma e implorando un po’ di sacrificio dal bravo e forte Ferretti che non manca mai di cavarmi la sua noia, la sua impossibilità di poter lavorare e che a giorni se ne andrà al campo. 

E così da due mesi, alla vigilia di una grande prova, mi trovo veramente troppo solo e giù di forma, arrabbiato e avvilito...

Quindi, per quanto sia cosa dolorosa, umiliante, non so ancora decidermi a partire.

 

Non era tempo ancora di raduni collegiali e di interminabili ritiri delle squadre nazionali, di preparazioni pressanti ed esasperate alle quali sono invece abituato gli atleti di oggi. Ci si allenava a casa, nella propria palestra. Ci si trovava con i compagni d’avventura e di squadra solo il giorno della partenza, alla stazione. 

In particolare, per recarsi a Stoccolma, ognuno dei partecipanti doveva portarsi fino a Verona a proprie spese (solo per i calciatori ci pensò la Federazione). Il Comitato pagava il viaggio andata e ritorno per Stoccolma da Verona in seconda classe, corrispondeva una diaria di sei lire giornaliere e, come conscio della situazione che creava, autorizzava (e ciò per iscritto in una circolare ufficiale) i partecipanti a viaggiare in terza classe dal confine a Stoccolma, intascando ognuno la differenza fra la terza e la seconda. 

Nella capitale svedese, vitto e alloggio erano intesi , ma in locande periferiche e vitto piuttosto scadente: il Governo Giolitti aveva messo a disposizione degli azzurri le solite 25.000 lirette cui si aggiungevano le 5.000 di contributo personale da parte del Re Vittorio Emanuele. 

Sessantadue gli atleti inviati a Stoccolma, nessuna donna.

A Stoccolma venne costruito per l’occasione uno stadio in mattoni rossi che assomiglia ad un maniero medioevale, in linea con il trattamento riservato alle donne, la cui partecipazione non era davvero facilitata causa anche degli abiti da gara succinti (si fa per dire) indossati dal gentil sesso, addirittura scandalosi (secondo De Coubertin) nel nuoto. In Italia, dove ancora si ponevano paletti per il suffragio maschile, figurarsi con il femminile!

 

Così Belloni, in un momento un po’ difficile, ma già con la testa a quella grande rassegna che lo attendeva tra i protagonisti, si sfogava a modo suo, ma era atleta di vaglia, dotato di grande reattività, di inusitata capacità di concentrazione e di recupero. Alla fine, non potè resistere alla tentazione di rimanere a casa e partì per la Svezia. 

A Stoccolma profuse in pedana tutta la sua possanza, il suo coraggio, l’aggressività talvolta incontrollata che qualche purista della scherma gli confutava, la sua forza erculea, ma pure quella straordinaria capacità  di piazzare colpi inimitabili che, quand’era in giornata, lo rendeva un cliente estremamente difficile per qualsiasi fuoriclasse. Purtroppo la fortuna non sostenne lui e nemmeno la squadra azzurra.

 

Ai Giochi Olimpici, Belloni non potè più tornare, naturalmente per motivi di età e perché la Grande Guerra impedì la effettuazione di quelle del 1916, ma la sua carriera non terminò a Stoccolma. 

Era pur sempre uno schermidore da prendersi con le molle, a cui non lasciare mai l’iniziativa per non rischiare d’esser travolti dalla sua furia aggressiva, come accadde, ad esempio, in una finale, passata alla storia, del famoso torneo di Desenzano del 1914 in cui superò Nedo  Nadi in una sfida che fu seguita a distanza da tutta la stampa italiana.

 

In un decennio, tra il 1906 e l’inizio della Grande Guerra, Belloni mise insieme successi eclatanti nella sciabola e nel fioretto. Campione del mondo nel 1911 e 1912 a Praga e Vienna, aveva vinto anche i tornei di Budapest, Berlino e Monaco e quelli internazionali di Milano, Venezia e Udine, imponendosi anche in una quarantina di Accademie, tra cui quelle famose di Nizza, Praga, Milano e Desenzano.

La delusione olimpica fu grande, per un personaggio stravagante come lui, ma si rifece già l’anno successivo vincendo il titolo italiano sulle pedane di casa, proprio a Cremona che si confermava come una delle capitali della scherma internazionale.

La presenza in Accademia del maestro Riccardo Sanipoli, ufficiale dell’esercito presso il 4° Reggimento Artiglieria di stanza in città e considerato  uno dei più valenti istruttori nelle tre armi in Italia, confermava insieme alla presenza di uno stuolo di fiorettisti di prima grandezza, la scuola cremonese nel Gotha della scherma. 

 

Cremona era conosciuta per i suoi violini, ma altrettanto per la sua scuola di scherma. 

La Sala d'armi si trovava in Via del Passeggio, all’altezza di Via Antica Porta Tintoria. Il Galà finale, invece, l'Accademia, come la si definiva allora, si tenne invece al Politeama Verdi. 

L’Associazione Schermistica Cremonese vantava molte “lame” di primissimo piano oltre a Gino Belloni: si battevano con onore nelle tre armi Umberto Onofri, Nando Boschi e Antonio Mori, tutti tiratori che potevano comodamente classificarsi tra i primi cinque in Italia.

 

I Campionati nazionali videro la disputa, nella prima giornata, delle gare di fioretto e Belloni fu subito in pedana. Era, naturalmente, tra i favoriti. La inusuale stazza fisica, sostenuta da una buona preparazione atletica, lo rendeva particolarmente adatto a sopportare le fatiche di un torneo lungo ed estenuante. 

Ebbe, però un sorteggio sfavorevole e si vide costretto, già nei primi turni eliminatori, alle nove del mattino, a battersi con il suo omonimo, il bergamasco Belloni che si trovava, tra l’altro, in felice momento di forma: veniva dall’aver superato, quindici giorni prima, nel prestigioso torneo di Viareggio, nientemeno che il giovane campione olimpico Nedo Nadi, il quale, probabilmente per evitare una nuova sconfitta, aveva preferito disertare i campionati italiani e restarsene tranquillamente nella sua Livorno. Tra i due Belloni l’assalto fu straordinario, tirato sul filo della parità fino alle ultime stoccate che solo il grande talento e l’esperienza del cremonese riuscirono a risolvere quando egli seppe trarre dal suo enorme bagaglio tecnico alcuni colpi assolutamente imprevedibili. Vinse, alla fine, per una sola stoccata.

Meno difficile il turno pomeridiano: dopo aver eliminato alcuni avversari di secondo piano, Belloni ebbe un solo ostico oppositore nel milanese Aliprandi che si presentò con una scherma efficace e determinata, ma non fu comunque in grado di metterlo in difficoltà. Terminò, in tal modo, il torneo imbattuto. A completare il successo tutto cremonese di Belloni ci pensarono i suoi compagni d’allenamento: Umberto Onofri si classificò quarto, il giovane Nando Boschi ottavo, Antonio Mori nono. 

 

Due giorni più tardi Belloni si ripresentò in pedana, stavolta nel torneo di sciabola ritrovando subito Aliprandi sul quale ebbe la meglio più facilmente che nel fioretto. Più tardi, in semifinale,  in uno scontro di altrettanto elevatissima spettacolarità, superò il ventiduenne savonese Pietro Boine, un atleta ancor più di lui dotato di una forza fisica straordinaria. Boine era seguito, a Milano, dal Maestro Mangiarotti, ma aveva anche trascorso alcuni mesi in Francia assimilando alcuni segreti della scherma d’Oltralpe e s’era costruito uno stile particolare, imprevedibile e basato essenzialmente sulla rapidità d’azione. 

Boine era anche un ottimo pugile e proprio pochi giorni prima del torneo tricolore di Cremona, aveva affrontato a Lione il campione del mondo dei pesi medi Frank Klaus. 

Boine portò immediatamente lo scontro sul piano della forza fisica ed il fatto che Belloni lo abbia superato scendendo a battersi sul suo campo preferito, dimostra come anch’egli fosse dotato di grande prestanza atletica.

Saltato lo scoglio Boine (che riuscì poi a conquistare il titolo nella spada) Belloni si giocò il campionato in finale con il milanese Pracchi, un giovane dotato di un talento creativo, originale e bizzarro quanto indomito e capace di piazzare stoccate sorprendenti, ma il brillante stato di forma in cui il  cremonese si trovava in quel momento. gli consentì di chiudere imbattuto anche questa seconda avventura tricolore. 

A conferma del valore dello schermidore cremonese arrivò anche la nomina a Cavaliere della Corona per meriti sportivi (fu il primo tra gli atleti di casa nostra).

 

Rimase ancora per oltre un decennio a calcare le pedane tra alti e bassi, ma sempre considerato come la bandiera della scherma cittadina, senza dubbio il più dotato di estro e di quell’esuberante talento che presto mise a disposizione di tanti allievi dedicandosi all’insegnamento. 

 

La Prima Guerra Mondiale lo fermò nel pieno della maturità agonistica e quando fu il momento di tornare sulle pedane, a 34 anni, si trovò a dover affrontare una schiera di giovani agguerriti e fortissimi che scalpitavano alle spalle degli avversari di sempre, sopra tutti i fratelli Nadi.

 Tentò di partecipare alle Olimpiadi di Anversa del 1920, ma venne escluso solo dopo una lunga serie di estenuanti assalti coi fratelli Nadi che comunque ad Anversa vinsero tutto quanto si poteva vincere (al solo Nedo, il più giovane, andarono cinque medaglie d’oro)

Durante la guerra, però, quella sua sala che aveva ereditato dal padre, friulano maestro d’armi che s’era a suo tempo trasferito a Cremona, rimase attivissima: la frequentavano in massima parte gli ufficiali inglesi di stanza a Cremona per i quali era addirittura riuscito ad acquistare  armi fabbricate in Inghilterra, da loro predilette.

 

Gli inglesi avevano anche a disposizione un proprio circolo, in Via Battisti, consono alle loro tipiche tradizioni e qui, oltre alle abitudini di quelli che già erano i riservati “club” di stampo anglosassone, in cui si poteva sorseggiare il the, leggere libri e giornali in lingua inglese e soprattutto discorrere, trovavano il tempo per addestrarsi in tipiche arti di casa loro come la scherma, appunto e la boxe che il Marchese di Queensberry aveva solo da qualche anno codificato.

 

Furono proprio gli inglesi a convincere Belloni ad attrezzare la sua sala con una sala del ring e i primi punching-balles ove gli inglesi si esercitavano dimostrandosi già tanto provetti da improvvisarsi essi stessi insegnanti per gli allievi italiani che frequentavano l'Accademia d’Armi. Belloni l’aveva trasformata in un vero e proprio circolo dotato di ogni comfort, compreso un pianoforte col quale gli ufficiali accompagnavano i canti della loro terra durante le interminabili serate d’inverno.

Iniziò allora una proficua carriera nell’insegnamento, prestandovi la sua opera preziosa anche il Maestro Giardina, il quale avrebbe finito per raccogliere l’eredità di Belloni nei decenni successivi, ma nel 1922, quando Cremona tornò ad organizzare i campionati italiani, pressato dai molti tifosi ed estimatori, Belloni provò a tornare in pedana. Aveva ormai trentasei anni: il fisico troppo appesantito difficilmente avrebbe potuto sopportare le fatiche di un torneo che durava un giorno intero, oltre tutto di grande impegno, ma decise di tornare in gara.

Da anni, ormai, si dedicava esclusivamente all’insegnamento senza badare ad una preparazione specifica. Non era più tra i favoriti anche perché una noiosa forma linfatica alla gamba destra lo affliggeva da tempo, tanto che la sua partecipazione rimase in dubbio sino alla sera precedente, ma s’era comunque preparato nella convinzione che quella sarebbe stata la sua ultima occasione per rimettersi in lizza e fare magari un pensierino alle Olimpiadi del ‘24, ma di quei Giochi, purtroppo, non conobbe neppure i risultati. Scomparve infatti, ancor giovane e nel pieno delle forze, nel gennaio di quell’anno lasciando un vuoto profondo nel mondo della scherma.

Nel ‘22 Aldo e Nedo Nadi erano ormai da tempo al lavoro come professionisti, il primo nella sua Livorno, il secondo a Buenos Aires, ma tutti i più quotati si presentarono al tavolo delle iscrizioni, dal genovese Vanzetti ai torinesi Thaon de Revel e Canova, dai bergamaschi Belloni e Novati ai fiorentini Molli, Rusconi e Pignotti, i più temibili, questi ultimi, perché in grado di fare gara di squadra ed aiutarsi l’un l’altro quando fossero giunti al girone finale. 

Lo scontro si prospettava apertissimo proprio tra la scuola toscana e quella cremonese. Belloni si tirò fuori dal pronostico proprio a causa dei dolori persistenti alla gamba, ma alla fine, quando si trattò di andare in pedana, fu il migliore di tutti, tanto che qualcuno arrivò a sospettare che avesse fatto pretattica fingendosi in condizioni pietose.

Fu campione d’Italia anche stavolta e anche stavolta senza subire una sola sconfitta: solo contro tutti perché i compagni di squadra, ad eccezioni di Boschi, erano spariti tutti dal tabellone già nei turni preliminari.

“Non farò mai più un torneo!”

Urlò un attimo dopo aver piazzato l’ultima stoccata, spossato dalla tensione nervosa e dai lancinanti dolori all’arto inferiore.

S’era evidentemente sottoposto ad una preparazione durissima per poter rientrare con successo alle competizioni e questo lo aveva fiaccato anche nel morale. 

Aveva capito che alla sua età sottoporsi ancora alle fatiche della preparazione di un campionato sarebbe stato impossibile. 

Fu comunque un’altra grande giornata per la scherma cremonese: il trionfo venne completato dal terzo posto di Boschi costretto tra l’altro, ad una difesa affannosa per una improvvisa indisposizione sopravvenuta dopo che aveva battuto, per ben due volte, il livornese Oreste Puliti, erede ed allievo dei fratelli Nadi, campione olimpico nel fioretto e nella sciabola ad Anversa  1920 che, del torneo, era il favorito numero uno. 

Dopo quel successo, Belloni decise di abbandonare definitivamente la scherma agonistica: era comunque  la sua vita ed il suo lavoro e si sarebbe quindi limitato alle singole sfide allora tanto in voga e finanziariamente anche abbastanza redditizie.

Quel titolo italiano ebbe comunque uno strascico che rischiò di finire in tragedia: il giornalista Umberto Spotti, cremonese tra l’altro e valente schermidore, che scriveva su “Il Giornale dello sportivo”, ebbe parole di fuoco per Belloni criticando aspramente quella vittoria, il modo in cui fu ottenuta, la scherma di Belloni, il suo carattere. 

 

Belloni, alla fine, si ritenne offeso e lanciò il guanto di sfida che Spotti prontamente raccolse. Il fatto che anche Spotti fosse assai conosciuto in città, alimentò ancor di più le polemiche e il tutto sfociò in un duello che i padrini (i giornalisti Cotronei e Polverelli da una parte, gli avvocati cremonesi Ghiraldi e Borsa dall’altra) fecero l’impossibile per scongiurare tentando inutilmente di convincere i due avversari a rinunciarvi.

Lo scontro avvenne il 19 luglio su una terrazza privata nei pressi dell’Ippodromo di San Siro. Le condizioni poste dai duellanti erano assai gravi e pericolose: quelle previste dal regolamento della spada francese. 

Si batterono sulla distanza accordata dei cinque assalti diretti dai Signori Cotronei e De Nola. La conclusione si ebbe solo al quinto scontro quando Belloni, in contrattempo e sull’arresto, ferì gravemente al bicipite l’avversario. Dato subito l’alt, la ferita venne accuratamente esaminata dai medici presenti i quali impedirono il proseguimento del duello a causa delle palesi condizioni di inferiorità dello Spotti che a fatica poteva maneggiare la spada.

Il duello, a quanto riferirono i presenti, era stato assai drammatico:  già al secondo dei cinque assalti durati ciascuno sette minuti, il campione aveva forato la coffa della spada dell’antagonista e due volte lo aveva posto in condizione di grande difficoltà. tanto da fargli perdere tutto il terreno e praticamente imprigionarlo contro il muro della terrazza. Solo il pronto intervento del direttore del duello aveva, in entrambe le occasioni, evitato un tragico epilogo.

Era tale la rabbia di Belloni che, nemmeno soddisfatto, solo dopo insistenti preghiere dei padrini, acconsentì a stringere la mano all’avversario. 

Aveva un caratteraccio, mai domo, soprattutto in gara, mai incline a sottomettersi, ma era stato proprio questo a consentirgli di ottenere i grandi risultati di cui era stato capace.

Scomparve ancor giovane, purtroppo, quando ancora molto avrebbe potuto dare allo sport cremonese come maestro. Al suo funerale intervenne una folla, quanto poche volte s’era visto a Cremona in simili occasioni: folla di atleti, tecnici, appassionati, giornalisti… una folla che a stento Corso Mazzini poteva contenere.

Così lo ricordò Lelio Mancini in occasione del venticinquesimo anniversario della scomparsa avvenuta  nel 1924, solo due anni dopo la conquista del titolo italiano: 

“Duro, severo nella figura, ma un fcuore nobilissimo, una bontà senza fine. 

Altro discorso quando impugnava il fioretto o la sciabola, quando calava sul viso ampio la maschera. Non era la gazzella in pedana, ma il prototipo del paratore. Abbiamo conosciuto in tanti anni un solo sosia, Martino Di Luca di Napoli, scomparso egli pure, il gentiluomo che accusava la botta in  testa. 

Era l’avversario che doveva dare l’assalto. Gino, occhio di lince, polso d’acciaio, atleta poderoso, esperienza da vendere, era dall’altro lato della pedana ad attendere; difficilmente la punta del suo fioretto falliva; era sul tempo che sbigottiva l’avversario; assai raramente la punta della sciabola avversaria arrivava a segno: lera  di tale impetuosità ed efficacia che il giubbetto imbottito non poteva neutralizzare.

Non ce lo diceva Belloni, erano gli avversari di ogni nazionalità, di ogni lingua e ogni razza incontrati su tutte le pedane d’Europa che mostravano sul petto gli indubbi segni della poderosità dello sciabolatore cremonese.”

Cesare Castellani


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