Gli antenati arabi di ravioli e torrone negli scritti di Giambonino
Gerardo da Cremona, con la sua intensa attività di traduttore a Toledo, non ha rappresentato nel Medioevo l’unico esempio cremonese di un proficuo dialogo euro-arabo. L’interesse per il sapere scientifico islamico trovò una prosecuzione negli interessi arabistici del cremonese Giambonino, appartenente alla generazione successiva a quella di Gerardo. Nelle fonti è generalmente indicato come Jamboninus, (talvolta corrotto in Jambobinus) o Joannes Boninus, De Gadio o Gadius.
Il luogo di nascita di si ricava dall’explicit del suo Tractatus de conservatione sanitatis, dove l’autore si dichiara «nato tuttavia a Castelnuovo Bocca d’Adda («nato tamen in Castronovo Buce Adue»), nonostante in altre sue opere sia indicato come Cremonensis, e nonostante in genere cronisti e studiosi gli riservino il toponimico “da Cremona”. Da una breve biografia del personaggio inserita dall’Arisi nella Cremona literata, a partire da una fonte documentale in suo possesso (sembra appartente alla stessa famiglia di Giambonino), era membro della nobile famiglia dei De Gadio o Gadio, che possedeva terre presso il Castrum Gazii (oggi il piccolo abitato di Gazzo sulla via Postumia), vicino a Pieve San Giacomo («in territorio Cremonae in Plebatu Sancti Jacobi»). Ma all’età di appena dieci anni, morto il padre, Giambonino e la sua famiglia vennero costretti ad abbandonare la propria dimora a causa dei contrasti nati internamente alla nobiltà comunale cremonese: dopo che il loro castrum a Gazzo venne distruitto ed i loro terreni confiscati (assieme ad alcune case cittadine di loro proprietà), sembra che la madre Donella, appartenente alla famiglia bresciana dei De Pedezzocchi, lo abbia inviato in custodia all’abate della rinomata abbazia di Praglia: qui Giambonino fu avviato agli studi di filosofia e medicina, quindi, sostenuto dallo stesso abate, entrò all’Università di Parigi dove si addottorò (per questo sul suo epitaffio nella chiesa padovana di S. Agostino, demolita nel 1818 dagli austriaci, venne ricordato come «Doctor Parisiensis»). Poi fu per un certo periodo a Venezia e, verso la metà del Duecento, entrò come insegnante di medicina e filosofia all’Università di Padova (della quale risulta rettore nel 1262), divenendo una delle figure preminenti di quel sapere medico che si era impiantato nell’area emiliano-veneta attorno alle Università di Bologna e Padova.
Della sua attività in area veneta restano il già menzionato trattato sulla salute (De conservatione sanitatis) ed un commento alla Retorica di Aristotele. Ma è al periodo veneziano che risale la sua opera più famosa, e forse più interessante: il Liber de ferculis et condimentis. Si tratta di un estratto in traduzione latina (oggi conservato alla Nazionale di Parigi in una miscellanea membranacea cifrata Ms. Lat. 9328) di 83 ricette gastronomiche selezionate dalle 2170 voci contenute nel Minhaj al-bayan (il «Cammino dell’esposizione»): una monumentale enciclopedia composta a Baghdad nell’XI secolo dal medico Ibn Jazla.
Proprio all’interno di questa raccolta medico-dietetica compaiono due ricette denominate sambusuch e chaloe, nelle quali buona parte della ricerca accademica è ormai allineata nel ravvedervi dei lontani antenati, rispettivamente, dei ravioli e del torrone. Il sambusuch altro non che una sfoglia all’uovo riempita con un trito di carni soffritto chiamato Mudacathat (descritto anche nelle Tavole della salute, redatte nella prima metà dell’XI dal medico iracheno Ibn Butlan, di poco precedente a Jazla). Sebbene il primo testimone a menzionare i marubini sarebbe un atto notarile del 1572, è impossibile che a Cremona i ravioli (che poi presero il nome di “marubini ”) non fossero conosciuti fin dal Medioevo e che non vantassero una parentela orientale proprio attraverso le traduzioni di Giambonino, oltre ai commerci con l’Oriente: già tra il Duecento e il Trecento nei ricettari meridionali e padani (che riprendevano ricette arabe) comparivano i termini batutum (un neutro latino che indica delle polpettine di carne) e rafiole (dove l’impasto di carne è racchiuso in una sfoglia, esattamente come nel sambusuch arabo). Già Salimbene da Parma e Boccaccio lodavano la bontà dei ravioli cotti «in brodo di capponi». Nel Quattrocento una ricetta a mezza via tra il Sambusuch arabo ed i marubini cremonesi è inserita dal Platina nel suo De honesta voluptate et valetudine alla voce “Piatto di carne” (Esicium ex carne), nella sezione dedicata alle minestre: e non sarà un caso che Platina stabilisca che le palline di ripieno non debbano essere «più grosse di una castagna», frutto dal cui nome si fa discendere una delle possibili etimologie del termine «marubini»; la medesima usanza di prescrivere la quantità di ripieno associandola a dei frutti si ritrova nei ricettari arabi citati.
Per il torrone non dev’essere andata diversamente. Il chaloe di Jazla, tradotto da Giambonino, si identifica come un dolce secco (diffuso in oriente ancor oggi con il nome di halwa o halawa) preparato con mandorle, noci o pistacchi («cum amygdalis aut nucibus aut festicis»), legate da miele e zucchero («miscentur cum melle et zaccharo»), tagliato a stecche ed inserito in sfoglie di raguifes (antenata dell’ostia moderna). Manca l’albume presente nel moderno torrone cremonese, ma la variante bianca è ottenuta tramite il processo di lavorazione dello zucchero. Lo stesso dolce in altri ricettari arabi (come quelli di Ibn Butlan) è conosciuto anche come qabit o qabut. Sembra che un dolce simile al torrone fosse già noto ai romani (menzionato in Livio e Apicio), e non è dato di sapere se gli arabi lo avessero mutuato da quest’ultimo (magari attraverso i bizantini). Senza dubbio comunque la gastronomia araba contribuì non poco, nel Medioevo, a definire quella che sarebbe diventata la cucina italiana e, forse, anche europea.
Uno dei canali di diffusione di simili ricette nella penisola fu l’Italia Meridionale, come dimostra il confronto tra gli antichi ricettari arabi e quelli redatti nel XIII secolo alla corte di Federico II.
L’altro grande canale di diffusione della dietetica e della gastronomia arabe in Italia (soprattutto in Pianura Padana) fu Venezia, dove lavorò il cremonese Giambonino. Dalla Serenissima e dal Meridione, dunque, il sambusuch ed il chaloe (assieme ad altre specialità), si diffusero in Italia e nella pianura padana, assumendo poi caratteristiche proprie da luogo a luogo per forma, dimensioni e tecniche di confezionamento e cottura (già nella traduzione di Giambonino, talvolta le specialità arabe venivano adeguate ai gusti e alle abitudini culinarie della tradizione occidentale più povera). A questo punto, potrebbe risultare più credibile che il torrone possa essere comparso a Cremona, nella in una forma abbastanza primitiva, sulla tavola di uno dei banchetti nuziali della Magna Curia cremonese di Federico II (che a Cremona faceva spesso visita, con il suo seguito di intellettuali islamici), piuttosto che su quella quattrocentesca di Bianca Maria Visconti e di Francesco Sforza. Senza neppure trascurare l’ipotesi che la tradizione di mangiare torrone a Natale possa essere associata ad un dolce esotico con in quale lo Federico usava festeggiare il suo compleanno, che cadeva proprio il 26 dicembre.
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commenti
PATRIZIA SIGNORINI
7 marzo 2021 07:15
GRAZIE PER LA BELLISSIMA CRONACA.