Il turùn andaluso, un falso storico
Si è già visto su queste pagine come l’attuale torrone abbia antenati arabi: le ricette di dolci secchi come il chaloe (in arabo halwa) e la cubaia (in arabo qubbayt, dalla quale si originerà la celebre cubbaita) fanno il loro ingresso in Italia meridionale ed in Pianura Padana durante il XIII secolo, nelle traduzioni latine dei trattati di medicina e dietetica composti nell’XI secolo a Baghdad dai medici arabi Ibn Jazla e Ibn Butlan.
Una tradizione piuttosto diffusa ritiene che il torrone possa essere giunto a Cremona nel XII secolo anche dalla Spagna islamica (il califfato di Al-Andalùs). A Toledo, nella prima metà dell’XI secolo, Abenguefith Abdul Mutarrif, medico, farmacista e vizier di Al-Mamùn (sovrano delle Taifas di Toledo e Valencia), scrisse il Libro dei medicinali semplici (Kitab al-Adwiya al-Mufrada): si tratta di un compendio dietetico delle virtù salutari e terapeutiche di molti cibi (a partire dalle opere di Dioscoride e Galeno). Secondo una tradizione assai condivisa in rete e contenuta anche nel sito del Consejo Regulador del torrone di Jijona e Alicante (senza però alcun riferimento testuale agli originali arabi), quando nel proprio compendio Abenguefith arriva ad esaltare le virtù terapeutiche del miele, citerebbe un dolce secco chiamato in arabo “turùn”, composto di mandorle tostate, miele, zucchero e acqua di rose. Nel secolo successivo il Libro dei medicinali semplici di Abenguefith fu tradotto in latino da Gerardo da Cremona, attivo a Toledo tra il 1140 e il 1170. Quando Gerardo morì, la sua ricchissima biblioteca di traduzioni arabe fu trasportata a Cremona, nella chiesa di S. Lucia, inclusa la traduzione latina del trattato di Abenguefith, dal titolo “Liber Abenguefiti de virtutibus medicinarum simplicium et ciborum”. Alcuni ritengono quindi che il turùn di Abenguefith abbia ispirato il torrone di Cremona attraverso la traduzione di Gerardo.
Ma riguardo a questa ipotesi vanno avanzate almeno tre osservazioni. In primo luogo, Gerardo non tradusse l’intera opera del medico arabo, ma solamente la prima parte, nella quale non compaiono affatto né ricette di dolci secchi né tantomeno il nome turùn. Secondariamente, il nome turùn e la ricetta del dolce tanto chiacchierato non compaiono neppure nella copia dell’originale arabo di Abenguefit più integra che ci sia giunta, la cui edizione critica è stata pubblicata da Luisa Fernanda Aguirre de Carcer della Universidad Complutense de Madrid, con il titolo El Libro de los medicamentos simples (vero è, d’altra parte, che il testo arabo è comunque guastato da numerose lacune e che la ricetta potrebbe essere stata contenuta proprio in qualcuno di questi passi mancanti). Pertanto, la ricetta del turùn di Abenguefith rischia di fare la stessa fine del secondo libro della Poetica di Aristotele: perduta o mai scritta? Effettivamente vi è in arabo un termine che assomiglia a turùn, ed è tùrunj (lo nomina Anna Martellotti ne La gastronomia araba in Occidente): ma significa “arancio”, “cedro” e non ha nulla a che fare con il torrone (da esso si origina la torongia, frittella o arancino tipico della cucina siciliana).
Secondo gli storici Fernando Galiana Carbonell, Nestòr Lujan e Pepe Rodriguez, durante la dominazione araba si era diffuso in Spagna un dolce secco che può essere considerato antenato del torrone spagnolo, chiamato alajun o alfajor dagli arabi e jalba dai cristiani (notevole l’assonanza di quest’ultimo nome con la halwa diffusa nello stesso periodo in Oriente), menzionato anche in un racconto delle Mille e una notte. Tuttavia, del fantomatico turùn non v’è traccia in alcun manoscritto arabo dell’epoca medievale. Dunque, ammettendo sicuramente l’esistenza nella Spagna islamica di un dolce prototipo del torrone, è assai difficile che si chiamasse turùn, ed è comunque impossibile che la traduzione di Gerardo possa aver rappresentato il tramite attraverso cui la ricetta di tale dolce sarebbe poi giunta a Cremona. E’ assai più verosimile che il propotipo arabo del torrone (come accadde anche a quello dei ravioli) sia giunto sotto il Torrazzo tramite i commerci con l’Oriente, la traduzione di Giambonino da Cremona (https://www.cremonasera.it/cultura/gli-antenati-arabi-di-ravioli-e-torrone-negli-scritti-di-giambonino-1). Successivamente all’antica ricetta araba (contenente solamente miele, zucchero e frutta secca racchiusi in sfoglie simili all’ostia e tagliati a stecche) si aggiunse l’albume: aggiunta creatasi verosimilmente dall’antica consuetudine delle spezierie cittadine di radunare a fine giornata gli albumi, avanzati dalla mescita del tuorlo d’uovo all’ostrica, i quali venivano poi uniti al miele di erbe mediche ed alle mandorle tostate (inizialmente il torrone in città venne prodotto proprio nelle spezierie, oltre che nelle case). Nel meridione italiano, il passaggio dalla matrice araba alla variante con chiaro d'uovo avviene nel XIII secolo (come testimoniano i ricettari redatti alla corte di Federico II, soprattutto il Liber de coquina); ed anche a Cremona, tenendo presenti i lunghi soggiorni dello Svevo all’ombra del torrazzo, assieme alla sua Magna Curia multietnica della quale facevano parte anche numerosi intellettuali arabi provenienti dai grandi califfati d’Oriente, il prototipo arabo doveva avere seguito la medesima evoluzione già ben prima del celebre sposalizio quattrocentesco tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza.
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