20 maggio 2021

Aspettando il Giro: Pierino Favalli da Zanengo, fisico possente e uno sprint straordinario

Una storia, quella di Pierino Favalli, che comincia il 1° maggio del 1914 quando il più piccolo della nidiata dei Favalli venne alla luce non in casa, come s’usava allora, ma all’Ospedale Maggiore di Cremona . 
Le due grandi guerre, in mezzo alle quali condusse la sua vita: la prima strappandogli il padre e lasciandolo solo con i suoi quattro fratelli; la seconda, costringendolo ad interrompere la carriera di corridore professionistica proprio nel momento in cui le esaltanti vittorie che stava cogliendo, lasciavano intravedere un futuro roseo come quella maglia che avrebbe indossato al Giro e, di conseguenza, una discreta agiatezza economica. 
Mamma Favalli, una donna eroica nella sua povertà e capace, da sola, di tirare avanti la famiglia in tempi in cui la miseria più nera dilagava nelle nostre campagne, di provvedere alla mancanza di una casa, di sottoporsi ai lavori più duri per racimolare qualcosa attraverso i pesanti lavori saltuari che le offriva qualche agiata famiglia di Zanengo, ricordava sempre la profezia del conducente di quel carrozzone traballante e sgangherato che la riportava a casa con l’ultimo nato in braccio. “Questo bimbo ne farà di strada – preconizzò – visto che è già in giro così piccolo!
Crebbe  a Zanengo, piccola frazione di Grumello dando una mano in casa. Non andò molto avanti con la scuola. Dopo la terza elementare era già nella bottega di un barbiere a imparare il mestiere. A quindici anni, dopo che aveva fatto il “magutt” per poche lire al mese, andò a lavorare in un cantiere in città, quello del nuovo edificio delle Poste.
Arrivava in città da Grumello con un biciclettone che costituiva probabilmente il bene più grosso di famiglia. Ogni giorno, piovesse a dirotto o vi fosse il sole bruciante d’agosto o magari mezzo metro di neve, erano sempre corse a testa bassa a confrontarsi coi ragazzi della sua stessa età che venivano a guadagnarsi il pane in città.
Pierino, quasi sempre  male in arnese, con quella sua tipica figura di ragazzo di paese che ha appena deposto la vanga, era sempre il primo, sempre davanti a tutti, a costo anche di qualche ruzzolone che lo lasciava con ginocchia e gomiti sbucciati dalla ghiaia.
Finì per lasciarsi vincere dalla passione per la bici e per la velocità tanto da prender parte a qualche gara di paese libera a tutti in cui si mettevano in palio un paio di galline vive o un chilo di burro, un salame piuttosto che mezzo sacco di farina bianca o un coniglio, finché, un giorno, il ciclista del paese se lo portò alla partenza di una corsa vera sul milanese: maglia e pantaloncini neri senza le solite “pezze” prestati da un amico; calzini bianchi pres,i di nascosto dalla mamma, nel cassettone; la bici procurata dallo stesso meccanico che l’aveva presa a prestito da un ricco cliente con un sotterfugio. 

Al raduno di partenza, vedendo gli altri corridori divorare panini al prosciutto e cotolette, si vergognò delle quattro fette di polenta con un po’ di salame, che la mamma gli aveva messo da parte la sera precedente, avvolte in un tovagliolo:  andò a sbocconcellarle seduto su    un paracarro, distante dagli altri, ma appena dopo il via, quando si accorse di come fosse facile pedalare su quella bici non sua, una vera bici da corsa, si volse per guardare gli avversari, ma vide che non c’erano più.
La domenica successiva si correva a Castelponzone: fu tra gli ultimi a presentarsi alla partenza con la solita maglietta stinta da poche lire, un fazzoletto annodato al collo, mutandoni lunghi rivoltati sin sopra i polpacci e, al fianco, una “trappola” tenuta insieme da qualche pezzo di fil di ferro.
Appoggiò sei lire sul tavolo del Giudice di partenza, una per l’iscrizione, cinque per la tessera federale e diede il nome: Pietro Favalli, di anni 17.
Fu una corsa subito veloce. Al secondo giro transitarono in due sul traguardo. Uno portava il fazzolettino annodato al collo, ma nessuno gli fece caso. I due continuarono a pigiare sui pedali, ma ben presto quello col fazzolettino rimase solo  e quando si presentò al traguardo ci si accorse che aveva pedalato a 39 Km. di media e accumulato un vantaggio di 14 minuti. Sulla linea d’arrivo c’era un dirigente del milanese Sport Club di Porta Genova che, immediatamente, gli offrì la tessera e la maglia del club. Vi rimase legato sino al giorno del passaggio al professionismo, così come fece con la casacca verdeoliva della Legnano di Bartali, Coppi e... E Favalli.

Generosamente dotato da madre natura di una complessione fisica straordinaria e di una straripante potenza negli arti inferiori, apparve subito forgiato nel carattere e nella capacità di affrontare qualsiasi sacrificio: le difficoltà della vita, fin da piccolo, lo avevano costruito con la propensione a battersi contro chiunque senza timori. Queste le doti che, affinate con il lungo esercizio in bici, lo introdussero al mondo delle due ruote, pronto a sfondare grazie a quella caparbia determinazione che è bagaglio di solo pochi predestinati.. Badava a fare incetta di premi su ogni traguardo, sia che si trattasse di un salame o di un pollo, qualche volta di un maialino. 
Odiava solo quei maledetti e pesantissimi busti in gesso, prima di Garibaldi, poi anche di Mussolini, ingombranti e pesantissimi che, troppo spesso costituivano il premio al posto di una coppa o di una medaglia  E siccome mai avrebbe potuto portarseli a casa in bicicletta, magari per un centinaio di chilometro dopo la corsa, appena fuori dal paese in cui aveva gareggiato, quando l’aria intorno era pulita, li sbriciolava sul primo paracarro che incontrava lungo la via del ritorno.
Ebbe anche la fortuna d’essere sorretto da un carattere cordiale e dalla voglia di scherzare in ogni frangente. Si racconta che, durante una corsa che, partendo da Pizzighettone ripercorreva  a grandi linee l’attuale itinerario della Coppa Dondeo, si passava da Cavatigozzi, all’andata e al ritorno. Cava era tutta per Poster, un buon dilettante cui Pierino contendeva molti traguardi, un derby tra due ragazzi vicini di casa: quello di Cava passò davanti al bar dei tifosi con un centinaio di metri di vantaggio sul gruppo. Pierino, volutamente, con altrettanti di distacco. 
A chi lo guarda meravigliato urlò: “Aspettatemi al ritorno. Allora sarò davanti!” Non si smentì. Ripassò due ore più tardi con un centinaio di metri sul gruppo, si lasciò riassorbire, quindi, a Pizzighettone. dominò la volata e vinse.
Quando, dopo un paio di stagioni di corse e di vittorie si trattò di partecipare ad una gara di qualificazione ai campionati del mondo in provincia di Vicenza, gli amici più stretti, quelli che si raccoglievano nelle sere d’estate sulla piazza del paese, lo spronarono a tentare l’avventura: svuotarono le proprie tasche e racimolarono le poche lire necessarie a comprargli il biglietto del treno. 

Pierino, una volta a casa, mise sul tavolo della cucina il gruzzolo raccolto, fece quattro conti insieme ai fratelli che, come lui, non avevano mai visto tanti soldi tutti insieme e la domenica mattina, sveglia alle due e via verso Vicenza in bici. 

Arrivò appena in tempo per prendere il via, vincere, e tornare a casa, sempre pedalando. I ragazzi di Grumello lo attesero inutilmente sino all’arrivo dell’ultimo treno alla stazione di Cremona dopo che la radio aveva dato l’annuncio della sua grande vittoria. Tornarono a Grumello delusi e lo trovarono già a letto. Non ne poteva proprio più: s’era fatto più di 500 chilometri. 
Lo perdonarono, naturalmente, ma quando quindici giorni dopo a Verona si correva la prova di campionato italiano, prese finalmente il treno e tornò a Cremona con indosso la maglia tricolore conquistata con una volata violenta e lunga oltre 500 metri battendo un altro cremonese, Geo Biazzi che, a sua volta, era reduce da una vittoria in volata sul campione del mondo della velocità Benedetto Pola.
La maglia tricolore gli apriva insperati scenari anche perché fu corredata da successi importanti come la Coppa Caldirola, la San Geo, la Del Grande, la Coppa Agello dopo una fuga di oltre cento chilometri sotto un violento temporale. 

Nel 1936 affrontò le Olimpiadi di Berlino. Il percorso era adatto alle sue caratteristiche, ma la squadra francese beffò gli azzurri che non seppero comprendere il momento topico della gara.  Fu comunque settimo e sfiorò il bronzo nella classifica squadre con l’Italia quarta.

Conquistò comunque la medaglia di bronzo qualche settimana più tardi ai mondiali di Berna e chiuse la stagione vincendo la San Geo con oltre cinque minuti di vantaggio e la Milano-Bologna. Nel 1937 la consacrazione tra i professionisti. Il passaggio non fu traumatico anche perché la Legnano gli offriva il primo stipendio sicuro e la possibilità di conquistarsi sul campo un posto come luogotenente di Gino Bartali (insieme avrebbero vinto quattro edizioni del Giro della Provincia di Milano ed un Trofeo Baracchi a coppie) prima che all’orizzonte apparisse, accanto a loro, la stella del Campionissimo Fausto Coppi. 

Nel ’38 era già considerato il miglior velocista italiano. Solo Di Paco poteva contendergli qualche volta il successo in volata.  Puntava al campionato del mondo che si correva a Copenaghen su un percorso piatto, per velocisti. Vincitore della prova di selezione, si guadagnò i galloni di capitano in caso di arrivo in volata, ma fu una corsa disastrosa. Bini e Di Paco beccarono 1500 lire di multa dalla Federazione, Pierino se la cavò con una ammonizione. 

Cos’era accaduto? Semplicemente che la fame, la sua nemica di sempre, ancora una volta aveva tradito lui e la squadra. Erano giunti a Copenaghen dopo tre giorni di viaggio in treno estenuanti. Avevano dovuto accontentarsi  di pasti scarsi e frugali sopportando tutto con la promessa che, una volta arrivati a destinazione in albergo, si sarebbero comunque abbondantemente rifatti. Finirono, per contro, in una pensioncina ove il vitto era troppo scarso per il famelico appetito degli stradisti che, invece del solito bisteccone, si videro portare in tavola un anemico brodino di verdure a contorno di un paio di tuorli d’uovo. Favalli era naturalmente, come il solito il più affamato; Di Paco, che da buon conoscitore delle piste di tutto il mondo era di casa a Copenaghen, propose un pranzo in un buon ristorante che conosceva, ma il commissario tecnico fu irremovibile: ‹‹troppo caro per le tasche della Federazione››.
Il mattino seguente, sveglia di buon mattino per un allenamento pregara. Tutti pronti per la colazione, ma arrivò il solito brodino e nulla più. 

Il Ct promise allora che avrebbe pagato il pranzo di tasca sua lungo il percorso. Dopo un centinaio di chilometri videro una bancarella che vendeva wurstel e braciole alla griglia. Si fermarono, ma venne loro detto di proseguire: più avanti c’era un buon ristorante, ma furono poi convinti a continuare l’allenamento sino all’albergo. Non Pierino che, coi crampi allo stomaco per la fame e le gambe tremanti, si fermò. La vista si annebbiava per la fame e quando questo accadeva nessuno più lo controllava. Mandò tutti a quel paese e tanto bastò per farlo mettere fuori squadra.
“O fuori Favalli, o fuori io” disse il ct Spositi. La spuntò lui che risolse così il problema di dover escludere uno dei convocati dalla formazione.
E veniamo alla sua maglia rosa conquistata nella prima tappa del Giro del 1940. Fausto Coppi poco più che ventenne, era appena entrato in squadra ed il ct Eberardo pavesi gli aveva assegnato il compito di tirar le volate a Pierino. Bartali era il capitano indiscusso. Bartali cadde investendo un cane lungo la  discesa della Scoffera (era la seconda tappa da Torino a Genova) ed era in notevole ritardo. Fausto Coppi, era rimasto con Favalli nel gruppetto di testa.
Dal sottopassaggio del vecchio stadio della Nafta sbucò per primo il giovane Fausto Coppi, per tirare la volata al velocista dei “ramarri”, proprio Pierino Favalli che aveva assunto i gradi di capitano, almeno per quella tappa. 

Coppi fu così bravo a tenere al riparo al riparo lo sprinter di Zanengo che sulla linea bianca il risultato fu: primo Favalli, secondo Coppi, terzo Bailo, nipote di Girardengo. Bailo strappò la maglia rosa a Olimpio Bizzi, il “morino” di Livorno, vincitore della prima tappa. 
Nella successiva tappa, con Bartali che risentendo i postumi della caduta accusava ancora alcuni minuti di ritardo, Favalli divenne il capitano della squadra, deputato a vincere ancora qualche volata per tentare di salvare il bilancio di un Giro che sembrava ormai compromesso e Fausto il suo gregario più prezioso.

Nelle tappe successive, mentre Bartali tentava di riprendersi e Valetti, il suo rivale più pericoloso su cui si fondavano le speranze della Bianchi (la squadra buiancoceleste non vinceva il Giro dai tempi di Gaetano Belloni) non riusciva a ritrovare il colpo di pedale che già gli aveva consentito di vincere due Giri, Favalli riuscì a vestire quella fatidica maglia di lana a cinque tasche, rosa e ambitisima che era il simbolo del primato.

Nella nona tappa, il 29 maggio, Fausto compiva il  primo capolavoro della sua carriera vincendo la tappa dell’Abetone e conquistando la maglia che avrebbe portato sino a Milano. Prima del Giro, il 19 marzo il debutto stagionale, naturalmente alla Milano-Sanremo Pierino era stato subito protagonista: era la corsa a lui più congeniale.  Arrivò secondo; secondo era stato anche nel ’40, primo nel ’41, terzo nel ’42, quarto nel ’43. 

Al Giro di Romagna tagliò il traguardo con sette minuti di anticipo su Bartali, Bini e Mollo. Anche il Giro del Piemonte fu una delle sue corse preferite. Ne vinse tre di fila (due per distacco confermando di non essere solo un velocista) poi un Giro del Veneto, uno di Campania.  La vittoria più importante resta però quella della Milano-Sanremo del 1941. Corsa atipica quel giorno, senza scosse sino alle pendici del Turchino. Valetti e Bartali già si guardavano in cagnesco. 

Pierino in mezzo, a fiutare da qual parte tirasse il vento. Il via fu dato in ritardo e dopo il tradizionale “Saluto al Duce”. 

Ad accendere la miccia fu Fiorenzo Magni con un paio di sparate furibonde subito dopo la partenza:  scatenarono la reazione di Coppi che rispose all’attacco trascinandosi dietro Cinelli e qualche altro. Favalli aveva ormai capito tutto della battaglia che si andava profilando. Già alle porte di Pavia aveva cominciato a tenere le prime posizioni del gruppo. A Voghera cominciò a tastare la forza degli avversari e, da quel momento, fu lui il timoniere della corsa. 

La selezione avvenne sulle prime rampe del Turchino. Transitarono in sei per primi sul passo, ma al termine della picchiata verso il mare il treno della Legnano con Ricci, De Benedetti, Favalli e Fondi piombò su di loro.  Ad Arenzano i quattro della Legnano avevano già staccato tutti. Li seguivano Guido Magni e Landi a 35”, Cottur e Fiorenzo Magni con Giovannino Corrieri e qualche altro a 2’55”, Coppi, Valetti e Bartali, che si guardavano in cagnesco l’un l’altro, a 3’45”.
Sui Capi che si susseguivano lungo l’Aurelia, Favalli aumentava sempre più l’andatura e i suoi compagni di squadra furono costretti a lasciarlo andare. 
Solo Ricci tenne la sua ruota per qualche chilometro, sino al Berta.  Pierino percorse da solo gli ultimi venti chilometri lanciando il do di petto della sua carriera. 
Rifilò 1’39” a Ricci; Fiorenzo Magni tagliò il traguardo dopo 5’37”; ad oltre 11’ arrivarono Coppi e Bartali. Il traguardo di Sanremo lo accolse da trionfatore.

Favalli fu protagonista, in corsa e fuori, di tantissimi episodi curiosi: gli piaceva ricordarli quando si ritrovava attorno ad una tavola imbandita con gli antichi amici-avversari: poche settimane dopo la Sanremo si correva la Milano-Roma di oltre 500 Km.  Partenza alle dieci di sera con i fanali a pila montati sulle bici. Verso mezzanotte i corridori erano attesi a Cremona e naturalmente Pierino voleva a tutti i costi guadagnare  il traguardo volante piazzato davanti al Bar Dondeo.

Scarsa l’illuminazione per il coprifuoco già in atto. All’imbocco di Via Ghinaglia mise in atto il suo piano strategico per ingannare tutti. Si mise in testa al gruppo e spense il fanale. Alla sua ruota Silvio Gosi che passava davanti a casa. Al centro di Porta Milano non c’era l’aiuola spartitraffico come oggi, ma solo un palo della luce. Pierino puntò dritto contro di esso scartando all’ultimo momento.  Solo Gosi riuscì a seguirlo. Gli altri furono costretti a brusche frenate, qualcuno rischiò di cadere e i due cremonesi passarono insieme davanti agli amici del Bar Dondeo.

Ebbe in carriera, un solo grande rammarico, quello di non aver partecipato al Tour del  1938 vinto da Bartali, il suo capitano.  
Era reduce da una strepitosa vittoria al Giro di Romagna, caricatissimo per la convocazione ufficiale da parte del ct Girardengo che lo voleva al fianco di Bartali.
Una caduta terribile sulla pista di Roma il 18 giugno lo costrinse non solo a rimanere in Italia, ma ad interrompere bruscamente l’attività. Era caduto battendo la testa in modo terrificante, rimanendo esanime sul cemento del velodromo. Si temeva una frattura della base cranica e a Cremona, in serata, s’era addirittura diffusa la voce del suo decesso, poi certosine ricerche da parte di amici, giornalisti e appassionati portarono una buona notizia: Pierino, sì, era grave, ma non aveva nessuna intenzione di lasciare questa valle. 

Lo portarono a Milano, nella Clinica San Giuseppe ove nel giro di  una ventina di giorni, grazie alla sua ineguagliabile fibra, riuscirono a rimetterlo in piedi. Si seppe poi che anche durante il viaggio aveva rischiato moltissimo. I sanitari milanesi rimasero a dir poco perplessi  quando seppero che gli era stato permesso di viaggiare in vagone lettoAveva rischiato di arrivare cadavere: accusava un preoccupante irrigidimento del collo, dolori tremendi in tutto il corpo e soprattutto alla testa. 

C’era anche il rischio di conseguenze, difficilmente valutabili in anticipo, delle numerose iniezioni lombari alle quali era stato sottoposto, ma tutto, fortunatamente, si risolse più velocemente del previsto.  Fu una brutta stagione, quella del ’38: quella caduta aveva veramente minacciato di fermarlo per sempre.

Alla fine, quando tirò le somme, a modo suo,  si accorse che la caduta, considerata la mancata partecipazione al Tour e alle successive riunioni gli era costata almeno un centinaio di bigliettoni da mille. Per un paio di mesi aveva continuato a recarsi a Milano per sottoporsi alle lunghissime cure necessarie che aveva sostenuto  al San Giuseppe ove si recava con la fiammante Topolino acquistata coi primi soldi guadagnati, ma solo ad ottobre, una volta risalito in bicicletta, aveva cominciato a disputare qualche corsa. S’impose, in volata, nel modesto Critrerium di Lucca, si ritirò nel Giro di Lombardia ai piedi del Ghisallo e vinse con Bartali il Giro della Provincia di Milano a coppie, ma era solo un convalescente che rimontava in bici. Venne poi un inverno greve di incertezze. 

A Soresina, ove viveva in quegli anni insieme alla mamma, non riusciva a capire se fosse tornato quello di un tempo: solo la bici avrebbe potuto dirgli se le gambe giravano ancora come prima, se quei flebili acciacchi, quei fastidiosi piccoli postumi che ancora si facevano sentire si potevano cancellare.  Era ingrassato circa cinque chili, meno del solito in verità, e non aveva più toccato la bici. Soltanto lunghe passeggiate tra i campi e gli “impegni cartacei” all’osteria vicino a casa. Con le carte in mano, dicevano amici e colleghi, ci sapeva fare quanto in bicicletta. 

Ai primi di febbraio, finalmente, un salto alla Legnano per ritirare il materiale e via in Riviera dopo un’ultima visita radioscopica che gli diede la certezza di poter tornare quello di prima.  Se ne andò da solo, senza compagni di squadra, senza allenatori, senza tecnici. In silenzio, in isolamento assoluto. Solo mamma Favalli a preparargli pranzo e cena, ad attenderlo dalle lunghe sgambate d’allenamento nella piccola e modesta stanza in affitto di Varazze.
Pensava che un mese gli sarebbe bastato per smaltire l’eccesso di peso accumulato in inverno e arrivare alla “Sanremo” in buone condizioni di forma. Il 5 marzo, se il tempo fosse stato favorevole, avrebbe anticipato il rientro alla Milano-Torino. L’aveva vinta l’anno prima. Un portafortuna? Chissà!  Fu un trionfo! Mai un successo del “Biondo”, fu accolto con tanta gioia, con tanti favori, con tali accoglienze festose dei tifosi. Il ritorno alla vita di un ragazzo  che aveva avuto più critici che ammiratori, di uno contro il quale la malasorte si era accanita con tale veemenza da farlo ritenere fra i non più adatti alle competizioni.

Il lavoro svolto sulla Riviera di Ponente lo aveva rigenerato: il dolore ai reni era scomparso. Gli avversari alla Milano – Torino, furono aggrediti e battuti, letteralmente stracciati.  Cento i partenti, ma alle porte di Torino erano rimasti una ventina soltanto e, sotto i colpi di pedale di uno scatenato Pierino, di Coccolato, di Benente, di qualche altro e di…. Tantissime forature (lo stesso Favalli aveva bucato due gomme) avevano mollato tutti, sepolti sotto un distacco d’una decina di minuti. 
Del gruppetto di superstiti era il più forte in volata, ma lasciò tutti poco prima dell’ingresso del Velodromo e giunse solo, in trionfo.
La fine della guerra lo vide nuovamente in sella, ma non era più l’implacabile divoratore di traguardi di un tempo irrimediabilmente trascorso. 
La sosta forzata aveva appesantito precocemente il suo fisico possente. Il matrimonio ed il lavoro lo avevano imborghesito. Il sacro fuoco dell’agonismo era andato via via spegnendosi. 
Nel 1947 invitò gli amici fraterni Coppi e Bartali a correre sul circuito di Grumello e fu per lui l’addio alla bicicletta. Ormai il suo fisico mostrava i segni della stanchezza sportiva. L’antico furore agonistico era scomparso dentro i cuscinetti adiposi che avevano infiacchito la sua fibra di atleta e una volta ripresa in mano la bici, dopo la guerra, s’accorse di non poter tornare ai livelli d’un tempo. Preferì mettersi da parte. Restò per qualche anno nel mondo del ciclismo attivo come dirigente di un bel gruppo di corridori che faceva capo a Vescovato e vinse anche parecchie volte con i suoi ragazzi (memorabile un successo di Bregalanti alla Dondeo del ’52), quindi si tolse definitivamente da quel mondo. 
Seppe farlo in punta di piedi, ma gli amici e rivali di un tempo non lo dimenticarono mai e vennero spesso a salutarlo a Pescarolo dove s’era stabilito.
Tecnicamente, lo si considerò sempre uno sprinter di enorme spessore, ma era pure in grado di esprimersi come passista e di vincere per distacco grazie ad una progressione fantastica che sapeva inscenare a meraviglia e ad un senso tattico fuori dell’ordinario che lo portava ad interpretare la corsa intuendone facilmente gli sviluppi.
Era atleta capace di giocarsi per intero le proprie possibilità: duro a cedere sul passo, era in grado di sostenere per lunghi tratta velocità infernali senza scomporsi in macchina, riuscendo in tal modo ad arrivare nei pressi del traguardo con quella stilla di energia in più che gli permetteva di piazzare la sua ruota davanti a quella degli avversari
Odiava le salite, quelle dure, sulle quali portare in alto il suo peso costava enorme fatica e in proposito, ricordava spesso una tappa del Giro che si concludeva a Campobasso. 
Non si intendeva molto di geografia e quel nome gli faceva pensare ad un arrivo in volata, magari in discesa e si preparò per tutta la tappa per vincere la volata. Era tra l’altro in maglia rosa, ma la rampa che gli si parò davanti improvvisa a pochi chilometri dal traguardo, gli rimase in gola per parecchi anni, anche se poi ne rideva spesso con gli amici. 
Fra questi Cinelli che ricordava spesso come Pierino gli avesse lasciato via libera (naturalmente dietro lauta mancia) in una semifinale dei campionati italiani dell’inseguimento perché il piazzamento in finale gli avrebbe fruttato una licenza premio (era sotto le armi). “Tanto – sogghignava Pierino – anche se avessi superato Cinelli, e sarebbe stato difficile , in finale mi avrebbe aspettato Coppi. E chi lo batteva quello?” Fiorenzo Magni, presente a quella riunione tra amici lo apostrofò immediatamente: “Quel giorno che s’arrivava a casa mia, a Firenze, non mi hai lasciato vincere.” 
Pierino fu prontissimo: “Mi avevi offerto solo cinque lire,”  Qualche maligno mise in giro la voce che Fiorenzo Magni avrebbe dovuto offrirne almeno mille volte di più per vincere quella tappa del Giro, almeno come aveva fatto Olmo per superarlo allo sprint sul traguardo di Sanremo dopo averne sperimentato le doti in volata qualche giorno prima al Velodromo di Torino.

Pierino, dall’alto dell sua furbizia da contadino della bassa che non lo aveva mai abbandonato, non lo negò mai e del resto, con quella vittoria mancata, poté permettersi di comprare la piccola casa di Zanengo in cui aveva sistemato la mamma e i fratelli. E comunque, come abbiamo ricordato, l’anno seguente sul traguardo di Corso Cavallotti, ove allora era posto il traguardo, arrivò da trionfatore  rifacendosi ampiamente.
Cose che son sempre accadute e che hanno fatto grande il mondo del ciclismo ancora pionieristico d’anteguerra: il tutto faceva parte del gioco e andava accettato e considerato con la benevolenza di chi conosce attraverso quali sacrifici si può arrivare a determinati risultati sportivi. E del resto, in un batter di ciglia, il giovanissimo Favalli aveva valutato che una vittoria alla Milano-Sanremo, a lui praticamente al debutto, avrebbe fruttato cento volte meno di quanto invece avrebbe guadagnato un campione affermato come Olmo.

Vittima di un infarto, Pierino è mancato portando con se un mare di ricordi e aneddoti gustosi, proprio pochi giorni prima dell’arrivo a Cremona di una tappa del Giro d’Italia che attendeva con ansia per rivedere tante vecchie conoscenze al seguito, soprattutto Bartali, suo antico capitano alla Legnano, amico e confidente di tanti anni prima che della furbizia e delle forza esplosiva di quell’indomito torello cresciuto nella pianura cremonese aveva fatto un punto di appoggio per tante delle sue vittorie.

Cesare Castellani


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