La storia di Martino di Contrada Gonzaga (via 11 febbraio)
Chi in quegli anni aveva la ventura di ripercorrere la via IX Febbraio, ormai irreparabilmente privata dei due giganteschi abeti che in un breve tempo passato, con l'ondeggiare delle cime e le ombre discrete ornavano il minuscolo sagrato della Maddalena, molto spesso lo incontrava. Passeggiava altalenante e solo sul marciapiede opposto al nostro, senza varcare mai il limite dell'antica bottega del barbiere Sauro Cetracchi con il quale si fermava a scambiare due parole e a prendere fiato. In una di quelle tre case, che piogge e venti secolari avevano rese di belle tinte pastello, aveva laboratorio e bottega e vi esercitava la sua attività il barbiere Sauro Cetracchi. Nell'altra, superata la stretta porta di accesso al cortile, il tabaccaio Ronchini vendeva chewing gum e dentifrici. Nei pomeriggi d'estate Sauro difendeva il suo antro dall'invadenza del sole, srotolava una tenda di un marroncino tenue che faceva tutt'uno con i muri della dirimpettaia chiesa ed i colori delle case e l'ombra di quel modesto cortinaggio si proiettava ampia al di là della larghezza del marciapiede. Da Sauro, erede degenere di un antico anarco-repubblicanesimo romagnolo che abbandonato Costa e Malatesta era approdato a Karl Marx, o si parlava di politica o si ascoltava musica di Tchaikovski e di altri come lui senza disdegnare il piacere di un sorso di vino buono. Per scambiar parola e prendere fiato anche Martino vi si rifugiava interrompendo il perenne andare e venire. Poi se ne tornava indietro, costeggiava il palazzotto degli Zanotti e la botteguccia della ciabattaia, passava davanti al bar e si inoltrava in quel tratto di strada che ancora conservava, vecchia, l'originale impronta popolare della tipologia delle case e della sua gente. Dove la strada sembrava prendere un'altra direzione ed immettersi in Porta Pila, Martino se ne tornava indietro ripassando davanti al bar ed alla casa dove abitava al primo piano. L'incedere ninnante del non volontariamente pigro e lento passo, la rigidezza del busto e lo sguardo attento a dove poggiare i piedi palesavano la fragilità della camminata ed il precario equilibrio. Come dal trattore al piè del giogo, dove c'è l'ombra, usava fare il carrettiere, Martino frequentemente a quel bar faceva tappa in cerca di ristoro. Certo il camminare non gli era agevole e sedersi per qualche tempo gli dava sollievo, ma c'era anche dell'altro: attorno ai tavolini di quel bar si mischiavano i mazzi delle piacentine per il gioco e con le carte da gioco, piacentine o da ramino che fossero, Martino ci sapeva fare. Tresette, briscola, scopa e scopone, giochi imparati nel suo giovanile girovagare e soffermarsi per osterie sparse fra i campi di Reboana e Dosso de' Frati, non avevano misteri per lui. Non so se avesse adempiuto interamente all'obbligo scolastico ma riusciva a leggere e scrivere qualche parola. Non abile al lavoro che l'agricoltura richiedeva, per fare qualche soldo girava, portando un cavagno sottobraccio, le mescite remote di quei borghi sperduti offrendo in vendita agli avventori “ceci e lupini”, poveri precursori degli sfiziosi bocconcini rompi digiuno degli aperitivi del giorno d'oggi. Con un bicchiere misurava la quantità della mercanzia che per qualche lira scambiava con un trovato cliente, porgendogliela sopra un ritaglio di carta gialla e spessa che a quel tempo i macellai al dettaglio usavano per avvolgere la carne venduta, non dimenticando di spolverare abbondantemente i legumi di sale fino, cosa che stava particolarmente a cuore all'oste.
Da noi Martino giunse che i lavori erano già iniziati da tempo, forse incuriosito da questi. Cercava aiuto e sostegno appoggiandosi al piedritto, silenzioso e discreto guardava senza addentrarsi nel cortile e con la leggera distonia del capo sembrava dare approvazione all'opera osservata e che altri stavano compiendo. Fu così assidua la sua presenza che finì per essere uno di noi. Imparò adeguatamente a leggere lo spostarsi degli indici sui quadranti interpretandone giustamente i movimenti tanto da correggere le mie disattenzioni: Ennio “te scapàa l'acqua” mi diceva quando lo spostarsi dell'indice verso il rosso tendeva ad indicare il non improbabile straripamento di questa dal serbatoio.
Viveva con i genitori e, a suo dire, praticava massaggi e pranoterapia sostenendo di possedere naturalmente un “flusso” energetico che, attraverso la imposizione delle mani, trasmetteva a chi si sottoponeva alla sua cura. Insisteva perchè provassi anch'io i benefici delle sue manipolazioni, cosa alla quale sempre mi sottrassi. Con divertito distacco ci si sottopose invece Remo Capelli che finì per addormentarsi sulla sedia lasciandoci tutti di stucco e maggiormente dubbiosi sulle facoltà terapeutiche di Martino: che avesse veramente un “fluido” come lui sosteneva?.
CI perdemmo di vista da quando l'invadenza di nuove tecnologie rese superfluo il presidio alla CRC. Ritrovai Martino casualmente anni dopo, molte cose erano successe in quel lasso di tempo segnato dalla morte dei suoi genitori lasciandolo solo. Fortuitamente lo rividi ospite dell'ospizio Soldi durante una visita a non ricordo quale mio parente e presi ad andarlo a trovare con regolarità, cosa che continuai a fare al suo rientro nella sua casa di via XI febbraio dopo quel primo breve periodo di ospitalità. Lo trovavo sempre seduto sul divano, avvolto in quella che certamente era stata una sottoveste materna ricavata dalla grezza lana di un non più utile al sonno materasso, filata e ritorta con il filarello domestico. Il divano occupava una parete in quella casa grande, scura, invasa da vecchi mobili sopravvissuti a chissà quanti forzati traslochi campagnoli e da ricorrenti san Martino. Facevano eccezione, in quella stanza che doveva essere stata la “sala”, il televisore e l'arredo dalle bombature di un simil Chippendale buono per il fuoco, ritornato di moda negli anni trenta-quaranta del novecento. In carico a non so quale servizio sociale, con non eccessiva frequenza riceveva la visita di un assistente che non vidi mai, cosa che l' accomunava con parenti che Martino diceva di avere nella vicina e parallela via Bonomelli. Un “servizio sociale” (non saprei dire quale) gli mandava saltuariamente una signora per rassettare un po' la casa e altri per portargli quotidianamente quel che serviva per un modesto sostentamento,servigio al quale per mia insistenza, visto il trogolo entro il quale quel povero cibo veniva trasportato e in parte conservato per il consumo serale, Martino rinunciò. A quel tempo la contrada era disseminata di piccoli rimpianti negozi, generalmente vi lavoravano i componenti della intera famiglia proprietaria ed il rapporto mercantile di compravendita non sostituiva ne cancellava quello di buon vicinato. Martino era conosciuto e benvoluto da tanti, in più d'uno si assunsero l'onere di rifornirlo quotidianamente a domicilio senza maggiorazione dei costi. Andavo a a fargli visita quasi tutti i giorni, i nostri dialoghi, ripetitivi nell'argomentare, vertevano sopratutto su cose del passato come se non ci fosse più un futuro: la persone conosciute, il ricordo della CRC e di chi vi aveva lavorato, la gente della strada, i modi di dire dialettali, i proverbi campagnoli, gli attrezzi per il lavoro nei campi e altre cose simili. A volte parlava dei genitori ed erano accenni nostalgici di presenze passate.
Tornò definitivamente all'ospizio che l'inverno era già inoltrato, si mise su di una sedia a rotelle e non l'abbandonò più, nonostante le ripetute sollecitazioni non volle più fare un passo. Io, anche se diradate, continuavo le mie visite. Mi parve di trovarlo più sereno, come può esserlo chi ha risolto un problema angustiante che la soluzione non fosse da lui dipesa. MI prestai a risolvergli una questione condominiale riguardante la cappa del camino, il pagamento dei lumi votivi ai genitori ed altre piccole cose.
Era il tempo che precedeva il cambio della moneta e fu per me, che essendo sempre stato povero di questioni finanziarie mai me ne ero occupato, scoprire l'attenzione che lui poneva alla questione. Sapeva tutto: sul valore di cambio, su chi ci avesse guadagnato o perso e sulla Deutsche Bank che non voleva abbandonare il marco. Fu a seguito di questi discorsi che prese a parlarmi dell'appartamento che avrebbe voluto donare all'ospizio in cambio di una ospitalità vitalizia. Mi tenni fuori da questa questione ma certamente con altri ne parlò, mi parve di capire che la cosa non si poteva fare ma lui continuava a pensarci.
A poco a poco diradai le mie visite fino a cessarle, poi lessi che il suo nome era stato inciso sulla lastra che ricorda i passati benefattori dell'istituzione.
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commenti
michele de crecchio
24 settembre 2022 17:17
Delizioso questo ricordo. Chissà quanti altri "Martino" sono vissuti, tra stenti e fatiche, negli antichi quartieri di Cremona, senza avere la fortuna di incontrare un Ennio Serventi che ne salvasse il ricordo.
Claudio
24 settembre 2022 19:23
Mi associo commosso totalmente a quanto scritto e da Serventi e dall'Arch. De Crecchio, anche perchè da sempre residente nella zona così magistralmente descritta, ricordo con nostalgia lo stato passato della zona.............
claudio
25 settembre 2022 16:56
...Serventi, mi permetta amichevolmente di chiamarLa così, come già scrissi ricordo con sincera commozione "la situazione di Via Gonzaga" e dell'intera Porta Mosa, con Isacco, il Norge, Geo, i Fratelli Manzi, Renato ed Alberto, l'Osteria delle Fiole ecc. (chi di loro non non si ricorda???), ma ormai da tempo la situazione generale della città purtroppo è questa. Via Gonzaga (ora Via XI Febbraio), ad esempio, era piena di negozi: fornaio, salumiere, tre osterie, fruttivendoli, una drogheria, pettinatrici, tabaccherie ecc., ora un solo Bar che opera ad orario ridotto. Che desolazione, la sera c'è d'avere paura a percorrerla!!! Mah, mi spiace tantisimo, pazienza. I lettori scusino lo sfogo di un anziano residente "di Porta Ladra"!