1 luglio 2021

Los Angeles, 1932. Il primo oro in bici ad Attilio Pavesi

Un doveroso sconfinamento, mi sia consentito, nel racconto delle imprese degli atleti cremonesi ai Giochi Olimpici, uno sconfinamento in terra piacentina, a Caorso, per ricordare Attilio Pavesi. Lo suggeriscono sia i racconti raccolti in casa da mio padre e dal nonno che lo conobbero assai bene negli anni dei suoi maggiori successi, sia dal fatto che si sta correndo a Fiorenzuola la Sei Giorni delle rose nel velodromo a lui dedicato, il “velodromo dei cremonesi” vista la frequenza dei molti appassionati di casa nostra e dove si può ammirare il museo con molti cimeli della sua vita sportiva, inaugurato qualche anno fa, in occasione dei cent’anni di vita del vecchio campione

Una vita avventurosa e lunghissima, la sua. 

Campione olimpico a Los Angeles nel 1932, fu il primo ciclista italiano a conquistare l’oro olimpico, anzi due (nella corsa su strada individuale e in quella a squadre) e fu anche, fino a quando si spense, nel 2011, il più longevo tra i medagliati olimpici.

Attilio nacque il 1 giugno del 1910, penultimo di 12 figli, tutti allevati dalla mamma Maria, rimasta vedova ancor giovane. Andò a lavorare molto presto per dare una mano alla famiglia e fu proprio il lavoro a indirizzarlo al ciclismo: assunto come apprendista meccanico dal famoso costruttore di biciclette Gino Tansini la cui fabbrica, la Gitan, era tra le maggiori in Italia. Appassionato di tutti gli sport, provò a misurarsi coi coetanei nel nuoto (naturalmente nel Po, ed era il più bravo di tutti), nel calcio come portiere nella piccola formazione di Caorso, ma fu la bici ad attrarlo definitivamente. E non poteva essere diversamente per uno che, lavorando in Gitan, vedeva passare di lì ogni giorno i corridori più noti della zona.

Colse la prima vittoria a 17 anni, subito all’esordio da allievo, ma in una gara aperta a tutti, con corridori anche di buon livello. Si correva a Zerbio, due passi da Caorso, e superò tutti in modo abbastanza inusuale. Era il più giovane, nessuno lo conosceva, così, per lasciargli vivere un breve momento di gloria, gli avversari lo lasciano andare subito in partenza, con la certezza di poterlo riprendere dopo qualche chilometro. Non lo videro, invece, che all’arrivo: quel giorno, in pratica, disputò la sua prima cronometro. 

Nel 1931, passato alla Cesare Battisti di Milano era già tra i migliori dilettanti italiani, aveva conquistato traguardi importanti come la Coppa Caldirola, la Coppa Bendoni, il G.P. Aquilano, ma fu costretto a rinunciare alla convocazione in nazionale per i mondiali di Copenaghen a causa della chiamata al servizio militare.

Riuscì fortunatamente ad entrare alla Farnesina ove erano sistemati gli atleti migliori e ad allenarsi adeguatamente tanto che agli inizi della stagione 1932, potè schierarsi alla partenza dei Campionati Italiani su strada che si svolgevano  a San Vito al Tagliamento. Non vinse, fu solo quinto, ma fu inserito, come riserva, nella squadra in partenza per le Olimpiadi di Los Angeles. 

In effetti la mancata vittoria era dovuta ad una caduta causata da una donna che, coll’intenzione di rinfrescarlo, gli aveva scaraventato addosso acqua e secchio insieme. 

Tutta la squadra azzurra  partì per l’America a bordo del Conte Biancamano. A bordo della nave ci si allenava alla meglio e per nove giorni i ciclisti pedalarono per ore sui rulli.

Sbarcarono a New York e li aspettavano altri cinque giorni e altrettante notti in treno, per raggiungere Los Angeles.  

Il titolo della prova su strada veniva aggiudicato in una corsa a cronometro di 100 Km, una gara massacrante su un percorso durissimo, parecchio ondulato e nel clima caldo e umido della California: la prima parte in discesa su una strada impervia che, partendo dalla collina di Moorpark scende verso il mare, costeggiando dirupi paurosi, la seconda in salita risalendo lo stesso percorso. 

All’ultimo momento il veneto Zaramella che doveva disputare la corsa insieme a Olmo e Segato, non apparve in buone condizioni di forma al tecnico Bertolino, il quale decise di sostituirlo proprio con Pavesi che in allenamento aveva fatto molto meglio e che ebbe anche la fortuna di partire per ultimo. 

Quattro minuti prima di lui aveva preso il via il danese Henry Hansen, il favorito di tutti i tecnici. Dopo pochi chilometri Attilio cominciò a pensare di trovarsi in un momento di forma straordinaria, un momento magico: raggiunti in breve i due che erano partiti prima di lui, al giro di boa, a Santa Monica, intravide, poco davanti a se, il piccolo corteo delle macchine che portavano a  bordo giornalisti e fotografi al seguito del celebratissimo danese Hansen. Cominciò a non sentire più il peso della catena, a pedalare con sempre più forza e decisione. Caricatissimo, pensava alla lettera che il Duce gli aveva fatto pervenire (non solo a lui, in verità ma a tutti gli atleti azzurri!).

Raggiunse il danese  e non lo degnò d’uno sguardo, filò via sempre più convinto mentre il campione uscente tentava inutilmente di tenergli il passo. 

Cinquemila spettatori, quasi tutti emigrati italiani, lo attendevano al traguardo. Alle 11,36, scortato dalle sirene della Polizia di Los Angeles, tagliava il traguardo posto sul Viale Castellamare di Santa Monica concludendo la gara alla media di Km 40, 514.  Giuseppe Olmo, che era considerato il primo rivale di Hansen, aveva accusato qualche difficoltà lungo il percorso a causa della folla che aveva invaso la strada e fu solo quarto (defraudato del titolo, secondo il suo primo tifoso Gianni Brera che non volle ammettere, come tanti altri colleghi, di aver fallito il pronostico); Giuliano Segato fu secondo a poco più di un minuto da Pavesi. 

Per Attilio, due medaglie d’oro, un vero trionfo che durò anche nei giorni seguenti grazie soprattutto ai numerosi immigrati italiani che vivevano da quelle parti e che impazzivano quando un azzurro saliva sul podio.

In Italia, invece, più che le medaglie, fece scalpore la foto che lo ritraeva, davanti agli studi della Metro Goldwin Mayer, insieme ad Anita Page, bellissima attrice americana, la più in voga in quel momento, con la quale, si vociferava, avesse avuto una breve  storia. 

Di Anita Page sembra, e si racconta, che si fosse addirittura invaghito Mussolini che le avrebbe scritto oltre cento lettere d’amore senza mai ottenere risposta e che, secondo voci del tempo, avrebbe accusato il colpo con molta sportività inviando una lettera di congratulazioni a Pavesi per questa avventura, oltre che per le due medaglie d’oro.   

Il rientro in Italia fu trionfale per quella che fu chiamata l’Olimpiade degli Italiani (12 ori, 12 argenti e 12 bronzi). 

Gli sportivi canticchiavano una canzoncina che recitava: "È finito quel tempo che fu: Girardengo, Meazza, Pavesi e poi più". 

Fu anche la irripetibile Olimpiade dei piacentini che, oltre ai due ori di Attilio, portarono a casa l’argento del pugile Gino Rossi nei massimi, e il bronzo del pistard Bruno Pelizzari nella velocità.

Pavesi fece il gran salto tra i professionisti subito dopo le Olimpiadi, ma non ebbe la stessa fortuna: giunse addirittura ultimo in uno sfortunato Giro d’Italia. Caduto nella prima tappa, avrebbe potuto ritirarsi, ma poi pensò che a casa non avrebbe avuto nulla da fare e così si trascinò sino alla fine. Profondamente deluso, smise praticamente di correre, ma un paio di anni dopo era di nuovo in sella, tornato dilettante.

Nel ’37, invitato alla Sei Giorni di Buenos Aires, si fermò per alcune settimane in Argentina disputando parecchie altre corse in pista e su strada, ma quando giunse il momento di rientrare, con lo scoppio della seconda guerra mondiale, uno sciopero gli impedì di imbarcarsi. 

Non ci pensò due volte: aprì un negozio, naturalmente di biciclette, e si fermò a Buenos Aires; si sposò ed ebbe due figli.                                                                                                                          Per dire di qual tempra fosse, nel 1984, in occasione delle  Olimpiadi che si svolgevano per la seconda volta a Los Angeles, fu invitato dal Comitato Olimpico ad assistervi, insieme alle altre poche medaglie d’oro del 1932 ancora viventi. Ospite in un hotel di Santa Monica, un mattino decise di prendersi un bagno in mare. 

La guardia costiera lo sorprese, a quasi due miglia dalla costa, mentre nuotava tranquillamente in una zona in cui la balneazione era proibita per la presenza di squali. 

Lo issarono a bordo e lo riportarono a riva dove avrebbero dovuto comminargli una grossa multa, ma quando si venne a sapere l’età e soprattutto che si trattava di colui che aveva vinto due medaglie d’oro oltre mezzo secolo prima, tutto finì con marinai e poliziotti a chiedere autografi e farsi fotografare con lui prima di riaccompagnarlo in hotel. I giornali americani parlarono di lui ancor più di quanto avevano fatto mezzo secolo prima. 

Così Attilio è arrivato al secolo di vita, festeggiato, nella casa di riposo che lo ha accolto, nei pressi di Buenos Aires, da  alcuni noti personaggi del ciclismo di casa sua: da Claudio Santi, da Giovanni Lombardi, oro olimpico sessant’anni dopo di lui, da Stefano Bertolotti, speaker storico della Sei Giorni, dal presidente della Federazione Ciclistica Sudamericana, il grande pistard Gabriel Curuchet.

Qui ricordava spesso tanti episodi della sua lunghissima vita, ricordava i grandi personaggi che aveva conosciuto, soprattutto Peppino Meazza cui lo aveva legato una profonda amicizia sin dai tempi del servizio militare, ma anche personaggi della cultura come il Premio Nobel Enrico Fermi, della politica come Benito Mussolini e come Juan Domingo ed Evita Peron. Sempre portato alla battuta di spirito, anche quando l’età cominciava davvero a pesargli, raramente si abbandonava a lamentosa nostalgia. 

Venne in Italia per l’ultima volta nel ’93 ove, a Caorso, ritrovò i vecchi amici di un tempo.

E’ scomparso il 2 agosto del 2011, all’età di 100 anni, 10 mesi e 1 giorno. Il nome di Attilio Pavesi è scolpito nel bronzo all’ingresso del Memorial Coliseum di Los Angeles, ma anche la sua gente, grazie soprattutto a Claudio Santi, l’inventore della Sei Giorni delle Rose e di tante altre manifestazioni ciclistiche, non lo ha dimenticato intitolandogli il velodromo ed il Museo del Ciclismo che porta il suo nome.

Cesare Castellani


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