17 maggio 2022

Madre Agata Carelli, la suora della Carità di strada

Incontrando il caro Amico Gigi Cappellini, già dirigente e operatore delle Acli cremonesi e volontario a vita, il discorso è andato su madre Agata Carelli. Una donna che ricordavamo per la sua sorprendete ricchezza spirituale e umana; una suora canossiana e docente di filosofia, protagonista di tante attività caritative e che riuscì a fondare proprio nel suo convento una comunità per tossicodipendenti. Una figura carismatica sia come insegnante, sia come protagonista di preziose iniziative sul fronte del disagio sociale. E ne è nata un’intervista che delinea questa straordinaria figura, con la quale Gigi collaborò come volontario per molti anni.

Gigi, come hai incontrato Agata (così preferiva essere chiamata da coloro con cui aveva un certa familiarità) e con che cosa di lei ti ha stimolato a impegnarti in modo attivo contro l’emarginazione e a favore della solidarietà sociale?

Innanzitutto, insegnandomi che è nel quotidiano che, come lei sosteneva riferendosi alle parole di un grande saggio, si intesse la rete dell’eternità, si rende visibile il messaggio cristiano, in particolare quello che riguarda i deboli, i poveri, gli ultimi, gli “scarti della società (Madre Agata li denominava “quarta umanità”)

Quindi, il modo di concepire la fede era imprescindibile dalla maniera con cui la praticava personalmente, come essere umano, cristiana, suora.  

Certamente. E non solo perché in questo modo dava agli altri un esempio – atto che molto spesso è assente o poco presente anche in quelli che sanno adoperare belle parole – ma anche e soprattutto perché così dimostrava che è possibile assumersi le responsabilità richieste dall’essere cristiani e persone. Ed anche dall’essere insegnante. Ricorda Daniela Cima, che ha collaborato con madre Agata fino alla fine della sua vita e che ancora oggi è presidente dell’associazione Gruppo Incontro che la suora aveva fondato negli anni Settanta, insegnava filosofia non in modo astratto, che può restare un atto poco fecondo, estraneo alla mente e al cuore delle allieve. Con il suo, stimolava le allieve dell’Istituto Magistrale delle Canossiane, di cui fu per molti per molti anni anche preside, a mettersi in dubbio, conducendole in animate discussioni riguardanti anche gli aspetti relazionali, affettivi ed esistenziali. Madre Carelli sapeva trasformare le questioni che possiamo chiamare “libresche” in problemi umani propri di ogni uomo. Inoltre, scrive Daniela, madre Agata concordava con molti filosofi, a partire da Hannah Arendt, sul fatto che non possa esistere qualche processo di pensiero senza vere ripercussioni interiori, che derivano anche e soprattutto da esperienze personali... Ecco, Agata affiancava all’impegno di docente la carità delle strade: nella sua vita ha aiutato e sostenuto i barboni, gli emarginati, i più poveri, per poi approdare, negli anni Settanta, al mondo della tossicodipendenza. Scrive una sua collaboratrice, Raimonda Lobina: “nelle nebbiose mattine cremonesi, lungo la strada che porta alla stazione, spesso i lampioni ancora accesi, capitava di vedere l’esile figura di una suora che accompagnava qualcuno messo male. Un giovane dagli occhi incavati, una ragazza con i segni della paura e della violenza, un vecchio che si reggeva a stento sulle gambe. E ancora poteva capitare di incontrare questa donna vivace in una malandata osteria dei vecchi vicoli della città, insieme ad un gruppo di giovani, dopo una riunione che continuava informalmente intorno a un tavolo.” 

Tra i tanti, anch’io posso testimoniare la qualità del suo “stilo operativo”, che declinava innanzitutto promuovendo la collaborazione e la delega in chi aveva l’opportunità di lavorare con lei. E questo su vari fronti: nell’Istituto Magistrale di cui era preside, che sperimentò soluzioni educative e didattiche nuove; nella sua attività altruistica, in cui il concetto di Carità assumeva uno spettro amplissimo di significati e valori sociali, umani, religiosi, politici (certo, anche politici, perché madre Agata seppe scontarsi con le istituzioni, chiedendo loro di innovare le tradizionali soluzioni per i problemi dell’emarginazione e della povertà. Ma in vari modi si scontrò anche con la cultura e le pratiche di una comunità opulenta, ma sotto alcuni aspetti pigra e opportunista come quella cremonese).  Una declinazione di Carità che è ben testimoniata dalle principali “imprese” che riuscì a realizzare. Così, dopo tanti anni di carità che possiamo denominare “individuale” (che era tale fino a un certo punto, perché in ogni modo riceveva aiuto da una rete di donatori che integravano quanto lei era in grado di prestare), madre Agata attua una prima vera e propria configurazione “organizzativa” della sua attività. All’inizio del 1976, aiuta e accoglie con una certa sistematicità un gruppo di emarginati della città (alcolisti, barboni, sofferenti psichici…) e organizza un gruppo di volontari che si definiscono “amici degli emarginati”. Così, ogni domenica decine e decine di persone in gravi difficoltà vengono accolte nel bellissimo edificio storico delle Canossiane, ospitate nella Cappella per la messa e nel refettorio per il pranzo (nei giorni festivi le Cucine Benefiche pubbliche erano chiuse), servito dai volontari e dalle consorelle canossiane e dalle allieve di madre Carelli… Centro e simbolo di questa svolta diviene ben presto “la Casetta”, affidata gratuitamente dalla Parrocchia della Cattedrale a quello che per tanti anni fu per Agata un amico fraterno, don Mario Cavalleri … Alla base, un’idea di prorompente vitalità: mettere davvero in rete, e non solo saltuariamente, volontari ed emarginati. Ha voluto realizzare quello che spesso rimane solo un proclama: impostare l’aiuto ai più deboli in modo che essi si sentano trattati come persone. Madre Carelli riservava grande attenzione alle mille sfumature che la carità suggerisce. Per esempio, collaborava affinché anche nella Casetta gli ospiti svolgessero i compiti, quotidiani e minuti, propri di una comunità di conviventi, nonché partecipassero seriamente agli incontri di “revisione” comunitaria.

So di cosa stai parlando, anche perché ho conosciuto don Mario, straordinaria figura molto vicina a mia moglie e agli amici della sua comunità di preghiera, negli anni in cui la Casetta di via Patecchio, nel centro di Cremona, apriva le porte a una moltitudine di persone: poveri della città, etilisti, tossicodipendenti e poi profughi in cerca di un futuro migliore. Certo, per madre Agata e per don Mario non mancavano i problemi…

Uno dei più importanti è rielaborare la consapevolezza che molti di quelli che aiutavano erano “irrecuperabili”. Ma proprio perché tali, sono da collocare tra i più sofferenti figli di Dio… L’altro, era il sempiterno problema dei soldi. Madre Carelli, come si legge nella sua biografia, così lo affronta: “I soldi? Sono la cosa meno importante, e poi io credo nella Provvidenza. Vi credo in modo esaltante, l’ho incontrata per strada, tante, tante volte… Mi ha riempito le mani quando l’amarezza profonda di non venire in aiuto mi tormentava l’anima, schiacciata, oppressa sotto il peso del dolore umano.”

Madre Agata si cimenta con questi problemi soprattutto apre al suo impegno un fronte nuovo e specifico, che richiede particolari competenze e nuove relazioni con le istituzioni. Vedendo tanti giovani abbandonati, marginalizzati, disperati, decide di buttarsi a capofitto nell’impresa di creare una comunità per il recupero per tossicodipendenti. Nel 1978, in un’ala del convento canossiano, che, tra l’altro ospitava le educande e le studentesse dell’istituto magistrale, ha fondato la Comunità residenziale per tossicodipendenti, la prima a Cremona e provincia, denominata “Gruppo Incontro”, avvalendosi dell’aiuto di volontari e in seguito anche di obiettori di coscienza. 

Agata Carelli è stata una suora scomoda in una comoda società cremonese, borghese e pasciuta, che alla fine degli anni Settanta si è vista improvvisamente travolta dal fenomeno della droga, del tutto impreparata ad affrontarlo. Per prima, Agata apre le porte del convento ai tossicodipendenti ascoltando, pensando.
Nel 1978, proprio in alcuni locali del convento, che tra l’altro ospitava l’educandato delle studentesse dell’Istituto magistrale da lei diretto, fonda la prima comunità per tossicodipendenti, da sola, ma insieme ad alcuni volontari e alle consorelle che colgono la lungimiranza del suo progetto. Prima istintivamente, poi in modo sempre più razionale e consapevole, Madre Carelli ha sempre più specializzato la comunità per tossicodipendenti, gestita in seguito dall’associazione di volontariato Gruppo Incontro: da quel momento in poi varie esperienze la portano a stringere rapporti sempre più concreti con le istituzioni, ormai impegnate nel contrastare gli effetti nefasti della tossicodipendenza. La comunità si trasformerà in seguito in Centro di Pronto Intervento, aderirà al C.N.C.A (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) e continuerà la sua opera, con la gestione del progetto “Ulisse”, da 11 anni impegnato nel reinserimento sociale e lavorativo di giovani in condizione di svantaggio.
Qui solo pochi cenni. Madre Carelli anticipò con grande lungimiranza quello che tutt’oggi è un caposaldo del Terzo Settore:
«Il volontariato non deve essere una delega dell’Ente pubblico e non deve neppure operare in modo sporadico e personale, ma deve diventare sempre più attivo attraverso la conoscenza profonda del problema da affrontare. È più efficace se costituito giuridicamente, organizzato come gruppo sotto tutti gli aspetti e avente anche una certa incidenza sull’Ente stesso. Necessitano persone preparate che conoscano bene il problema da affrontare e che offrano un servizio continuativo, questo anche per ottenere dei riconoscimenti […] a livello finanziario. […..]L’Ente pubblico non può arrivare dappertutto, inoltre ad esso non giungono tutte le segnalazioni ed esso non riesce infine ad offrire tutte le risposte di cui la gente necessita. […] L’Ente poi non può garantire un servizio immediato. Il volontariato, al contrario, dispone di un servizio più celere. Il volontariato non ha potere: offre solo le sue persone e il suo servizio». («Cremona Produce» n ° 4 / 1987).
E ancora più intelligentemente Agata Carelli comprende che non basta “fare”, ma occorre anche studiare, conoscere da vicino i fenomeni, e dunque fornire al volontariato, ma anche a tutto il privato sociale e agli stessi servizi pubblici, strumenti idonei affinché la società tutta diventi comunità educante e solidale. E così nel 1987 dà vita, in collaborazione con il mondo del volontariato e con le istituzioni, al Centro Studi sul disagio e l’Emarginazione Giovanile, attivo da oltre 23 anni e punta di diamante dei centri di documentazione sociale dell’Italia settentrionale.

Occorre parlare pure di tratti più immediati della sua personalità. Lei sapeva anche lasciarsi andare alla spontaneità, al sorriso, al riso… Riporto a questo proposito solo un paio di episodi personali. Scherzando, mi capitava di dirle: “Agata, tu che sei tanto vicina alla Madonna, dille di farsi vedere da me per pochi secondi, così mi converto, e tu salvi un’anima”. E lei, con finta indignazione, mi rispondeva: “Taci, cembalo sonante…” Non so da che parte della Bibbia venisse questa citazione, ma ben serviva a controbattere la mia ironia. Un altro episodio: la prima volta che entravamo insieme nel carcere di Cremona, allora ancora in via Jacini, per organizzare attività con i carcerati (io mi occupavo, in qualità di presidente dell’Arci, di concerti e attività ricreative, lei, di incontri formativi, religiosi), venni accuratamente perquisito. Fui costretto a togliermi anche le scarpe, per cui dovetti affrontare il tormentoso timore di avere un buco nelle calze, che mi costringeva a rattrappire le dita pe celare l’eventuale vergogna. Per lei, che per altro vi entrava spesso per confortare qualche detenuto, nessuna perquisizione. Motivazione: Per aver applicato con intelligenza la riforma carceraria, riuscendo ad instaurare con i detenuti un rapporto di stima e solidarietà che ha fatto prevalere sulle severe regole del carcere la forza della ragione e dei valori umani.Alle mie finte proteste (“Guardate bene. Ha una scatoletta con polverina bianca, e non è borotalco benedetto a Lourdes, come lei sostiene…), Agata, con altrettanta finta indignazione, rispose: “Perquisitegli la testa, magari con i raggi X, e troverete che è del tutto vuota…”

Abbiamo delineato una personalità era pensosa, seria, perfino severa. Ma questa immagine se non in parte corretta, completata.  Se non avesse saputo sorridere, ridere, scherzare, non sarebbe risultata così schietta, accattivante accogliente, empatica come è stata. Chi legge l’accurata sua biografia elaborata dalla consorella Natalina Coelli, la scopre capace di ironizzare, sugli altri e anche su se stessa. Non a caso, scrisse: “Lo sapete che sono una missionaria mancata? Quando chiesi ai Superiori di andare in Missione, mi risposero che ero troppo brutta … avrei spaventato i bambini indigeni”. E fra le testimonianze dirette delle sua consorelle canossiane, emerge una personalità non solo schietta, aperta, capace di ridere e di allegria.

Dopo questa parentesi scherzosa, propongo una riflessione finale. Mi sembra che madre Carelli abbia colto il significato autentico di “responsabilità”, fattore che nella cura del più debole è essenziale forse più che in ogni altra esperienza umana.  E qui permettimi una disquisizione dotta. Secondo l’etimologia latina, “responsabilità” richiama sia il significato di “rispondere” (a un impegno, a un compito…) sia di “responso” (una previsione degli dei, della divinità, del destino, che prescrive anche un impegno morale). Ma richiama anche il concetto d “pesare” cioè soppesare, progettare, calibrare, ciò che si deve e si vuole fare. Pertanto, la responsabilità evoca sia un impegno morale e religioso da svolgere con serietà, sia la capacità di soppesare, di svolgere con perizia, con capacità progettuale ciò che si vuole e si deve fare, e quindi abilità e competenza.

"La tua disquisizione coglie in modo egregio ciò che ha configurato la vita e dell’azione di Madre Agata Carelli. E diventa davvero “perfetta” se viene declinata secondo quello che lei spesso sosteneva: il suo compito di persona e cristiana debole e limitata, era quello di amare Dio e di ricercare Cristo nel volto di ogni uomo che soffre". 

 

Gianvi Lazzarini


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti