Voleva "Torno subito" sulla sua tomba. Perché ci si è dimenticati di Leo Longanesi?
Centodiciotto anni or sono nasceva a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, Leopoldo Longanesi, in arte Leo: giornalista, scrittore, editore, pittore, disegnatore, caricaturista e aforista; umorista, vignettista e illustratore. Insomma un intellettuale con i controcosiddetti ma, appunto a 118 anni dalla nascita e 66 dalla morte, la domanda sorge spontanea. Che fine ha fatto Leo Longanesi?
La risposta sarebbe sin troppo facile: il 27 settembre 1957 morì d’infarto al suo tavolo di lavoro. In realtà di Leo Longanesi non si parla, né si scrive dalla bellezza di diciotto anni, da quando, cioè, si volle celebrarne il centenario della nascita. Di lui pare si siano dimenticati quasi tutti, nonostante, forse con malriposta speranza, lo stesso Longanesi avesse detto: «Sulla mia lapide funeraria scrivete: “Torno subito”». Morto a soli a 52 anni, dopo aver segnato un’epoca creando non solo il modo di fare giornalismo politico-letterario in Italia, ma dopo aver anche inventato il rotocalco come modulo di informazione e di critica di costume, Longanesi rimane, nell’immaginario collettivo, più per i suoi aforismi o le battute graffianti che non per tutto ciò – ed è veramente tanto – che ha dato alla cultura italiana della prima metà del 1900. Oggi si contano, purtroppo, sulle dita di una mano i libri di Longanesi ancora a catalogo, nonostante nel 2005 si sia celebrato il centenario della sua nascita passato, anch’esso, quasi sotto silenzio.
Aderì, studente, al fascismo, che criticò poi aspramente nella sua evoluzione; nemmeno risparmiò, però, la democrazia che succedette al regime mussoliniano: Longanesi non la considerava migliore di ciò che aveva sostituito. Leo Longanesi diresse, per un certo periodo, il periodico “L’Assalto”, organo della Federazione fascista bolognese, ma ne fu estromesso allorché pubblicò un pezzo satirico sul senatore Giuseppe Tanari. Terminata l’esperienza di giornalista di regime, fondò nel 1926 “L’Italiano”, periodico artistico-letterario che sopravvisse, pur rinunciando ad una regolarità delle uscite, fino al 1942. Una rivista dai forti toni di “strapaese”, cui collaborarono nomi di tutto rispetto: da Vincenzo Cardarelli, ad Alberto Moravia, da Giuseppe Ungaretti a Luigi Barzini jr. da Vitaliano Brancati, a Emilio Cecchi, a Riccardo Bacchelli. Longanesi curava personalmente la veste grafica della rivista, obbedendo a una delle sue più grandi passioni: quella per il disegno, nel quale era indiscutibilmente un maestro. Nel 1937, trasferitosi a Roma, fondò “Omnibus”, il primo rotocalco italiano, settimanale di stampo politico-letterario, che ebbe fra i collaboratori Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Elio Vittorini, Mario Pannunzio e Alberto Savinio, solo per citarne alcuni. Anche “Omnibus”, però, venne sospeso, causa i sospetti del regime su aperture della rivista, davvero poco conformista, verso Paesi esteri come Francia e Inghilterra. Ancora satira nell’attività longanesiana ad “Index”, supplemento alle “Cronache d’attualità” edito dalla Casa d’arte Bragaglia: Longanesi teneva la rubrica “Misteri della cabala”, dove si esprimeva con disegni satirici, profili, schizzi e brevi annunci su personaggi molto noti. In questo straordinario contenitore di calembour, figurano le caricature di Giorgio De Chirico, di Giovanni Papini, di Piero Gobetti, di Curzio Malaparte, di Giuseppe Borgese, di Italo Svevo e di Achille Campanile, solo per citare i più conosciuti. Indiscutibilmente anticonformista, pur convinto assertore delle proprie idee, per alcuni versi conservatrici, nell’immediato dopoguerra Longanesi fondò a Milano la sua Casa editrice, che pubblicò grandi autori italiani come Giuseppe Prezzolini, Giovanni Spadolini, Giuseppe Berto, Ennio Flaiano, Mario Soldati e Indro Montanelli. Il 15 marzo 1950 uscì a Milano il primo numero de “Il Borghese”, la nuova rivista creata da Longanesi: un osservatorio di costume, colmo di giochi polemici sugli intellettuali militanti, e basato su una granitica ed incrollabile triade di riferimento: Dio, Patria e Famiglia (guarda caso la stessa di Giovannino Guareschi che in quell’anno veniva condannato a otto mesi di galera per una vignetta sul Barolo del presidente Einaudi), al punto che “Il Borghese” divenne ben presto sinonimo di galantuomo. Il successo fu immediato, grazie alla netta presa di posizione contro la partitocrazia (quanta attualità in quelle pagine e in quelle fotografie, a dir poco sferzanti, come le battute, titpo: «Per indisposizione del dittatore la democrazia si replica»). Con la veste tipografica del “Borghese”, Longanesi dimostrava, ancora una volta, quale importanza andasse attribuita al ruolo dell’immagine nella comunicazione: Leo fu un vero precursore dei tempi, anche nella sua collaborazione, poco o nulla conosciuta, al “Candido” di Giovannino Guareschi, tenendo la rubrica “Diario di un italiano”, uscita su nove numeri del settimanale della Rizzoli durante l’anno 1951, con lo pseudonimo, appunto, di “il borghese”, scritto minuscolo. La pungente critica longanesiana partiva, sempre, proprio da una fotografia e da questa ricavava un’osservazione, acuta e ben poco indulgente, sulla società di quegli anni che in realtà scopriamo somigliare in modo inquietante a quella di oggi. Un Longanesi praticamente inedito, come sconosciuti, o quasi, sono i suoi libri, da quel “Parliamo dell’elefante” (tutt’oggi a catalogo), che pubblicò nel 1947, diario di anni difficili e straordinari, ricco di spunti e di frasi destinate ad entrare nel linguaggio comune, ma anche di brevi aforismi, degni del grande Montaigne: «15 marzo. Vissero infelici perché costava meno.» «11 dicembre: Sono un carciofino sott’odio.» «14 dicembre. I versi che più mi toccano sono i seguenti, scritti per la morte di Umberto primo: Nella stazione di Monza – entra il treno che ronza – Hanno ucciso il re, - con palle tre.» E si potrebbe continuare all’infinito, ad esempio, guardando quale fosse il ruolo dell’Italia in Europa, secondo Longanesi: «Noi siamo il cuore d’Europa, ed il cuore non sarà mai né il braccio né la testa: ecco la nostra grandezza e la nostra miseria». E via dicendo, passando dal famosissimo «La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Ho famiglia», alternando a queste brevi perle, lunghi racconti di vita, intrisi di malinconia, di piccole felicità, di riflessioni fra il triste e lo spensierato. Poi lo scapestrato “Ci salveranno le vecchie zie?” (anch’esso ancora a catalogo) ritratto delle cariatidi su cui pare poggiare l’intero Paese ma che, alla fine, non ci potranno nemmeno loro, granitiche maestre, salvare: saranno «messe in soffitta come busti impagliati, spodestate dal progresso e da nipoti coi sogni a colori»; “In piedi e seduti” ormai fuori catalogo e lo struggente romanzo “Una vita” (a catalogo), vero e proprio racconto per immagini, fatto di settantatre incisioni di Longanesi, accompagnate, sulla pagina a fronte, da brevissimi scritti. E “Il Generale Stivalone” (stampato per la prima volta in occasione del centenario): volume per bambini che presenta una serie di acquerelli accompagnati da didascalie che narrano la buffa storia di un militare “all’italiana”. Sotto questa apparente semplicità, che pare affidare all’immagine tutto il senso del racconto, c’è una creatività emozionante. Si specchia, in “Una vita” e nel “Generale Stivalone” il vero Longanesi: scrittore dalle brevi frasi capaci si suscitare pensieri lunghissimi, che si mescolano con le immagini e le parole a costruire un ritratto tormentato ma entusiasta, un sogno spezzato troppo presto, anche se, con gli altri appassionati “longanesiani”, speriamo che, una volta o l’altra, Leo tenga fede a quel “Torno subito” che voleva sulla sua tomba.
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commenti
Andrea Fontana
3 settembre 2023 14:39
Spero di non sbagliare, ma di Longanesi ricordo una frase che ancora oggi è l'emblema della nostra Nazione: <<In Italia, la situazione è sempre grave, ma mai seria. >>
Gianni
4 settembre 2023 16:08
Quella frase è di Ennio Flaiano. Le frasi che ricordo di Longanesi inneggiano tutte al fascismo.