11 settembre 2021

C'era una volta tra véc, basapìle e rus

Premessa. Il mio scritto d’inizio agosto Un tempo c’erano, cioè sulle “cose di una volta che oggi non ci sono più”; oltre che ad essere apparso interessante, ha provocato pure delle osservazioni critiche. La mia amica maestra Carla, la mitica ecologista e depositaria delle memorie di Castelnuovo Bocca d’Adda, mi dice che lei da sempre  usa le cose della sua dote, a partire dalle belle e resistentissime lenzuola di vero cotone e dalla biancheria da casa di autentico lino.  E aggiunge che se oggi vengono usate quelle leggere e colorate è solo per motivi di moda, come del resto lo si fa per la biancheria intima… Però l’opinion leader che ho in casa, mia moglie, a proposito delle lenzuola “tradizionali” sostiene che, oltre a essere più ruvide e pesanti, sono più faticose da lavare e soprattutto da stirare nonché da sistemare nel letto. 

                                                                                               UNA VOLTA C’ERANO I VECCHI

Allora esistevano ancora i “vecchi”, parola oggi considerata poco conveniente, per cui si parla solo di “anziani” (categoria che un tempo designava chi era nella piena maturità). Non si tratta solo di una sfumatura semantica, perché rimanda a un’importante concezione della condizione umana: è del tutto naturale che il vecchio possa-debba essere “malato”; l’anziano, molto meno. Pertanto, la malattia viene considerata come una inaccettabile anomalia. 

Noi vecchi non siamo più una risorsa, ma un peso, anche perché la medicina ci tiene sempre più a lungo in vita malgrado le pluripatologie che convivono in noi, rendendo l’accudimento e la cura una necessità e uno sforzo di grande impegno e durata. 

Fino pochi decenni fa ai vecchi si attribuivano qualità specifiche, quali la perpetuazione delle memorie della famiglia, della comunità e della nazione (le guerre, le lotte sociali, le pestilenze, ecc.), nonché la conoscenza dei problemi pratici e comportamentali della vita, così come la capacità di “fare” o aggiustare tante cose utili per la quotidianità, quelle dell’artigianato domestico, usando gli utensili presenti in ogni casa (martello, ascia, sega, zappa…), e di insegnarlo alle generazioni successive. Gran parte di queste conoscenze e competenze oggi sono acquisibili, e in quantità assai maggiore, attraverso la scuola, il computer, la televisione, e il faidate è svolto usando utensili automatici… Forse ciò che è rimasta come virtù l’attitudine di molti vecchi al risparmio, sovente messo a disposizione di figli e nipoti... 

Ma l’esperienza e la saggezza si esprimeva soprattutto nella formulazione dei proverbi, che oggi sono usati sempre meno e sempre meno orientano la vita individuale e sociale. I proverbi erano considerati frutto di esperienza esistenziale e di un lento rimuginare nelle pratiche quotidiane di vita Da qui, il motto diffuso in tutto il cremonese:  I nòoster véc / J è stàt en cüül büzòoon sét àn/Per fàa i prüvéerbi”. Questa posizione d’inattività favoriva la meditazione, per cui sicuramente ne doveva sortire tanta saggezza. Ci sarebbe comunque molto da discutere sulla reale saggezza dei proverbi, che in tutti i paesi del mondo dicono cose contraddittorie e che, soprattutto in certi casi esprimono una morale chiusa o retriva. 

                                                                                                         E LE CAMPANE

Le campane segnalavano gli eventi più importanti di una comunità. Le campane, svolgevano una funzione sociale e religiosa: svolgevano una funzione di supporto alla convivenza collettiva e alla religione cristiana come voce di Dio. I loro suoni, oltre a scandire il trascorrere del tempo e a costituire un richiamo liturgico, compivano   anche la funzione di comunicare al popolo situazioni di pericolo imminente, gioie, dolori e lutti. Ciò attraverso il loro linguaggio rimasto inalterato nei secoli anche grazie alla bravura dei maestri campanari. I rintocchi delle campane, nonostante il palese inquinamento acustico determinato dai loro rintocchi, hanno da sempre vivacizzato ogni comunità, al punto che un eventuale silenzio dovuto a motivi tecnici o a tradizionali consuetudini religiose, come ad esempio la Settimana Santa, era avvertito con tristezza. Quando suonavano a martello per un incendio o un’inondazione, anche nei miei ricordi personali suscitavano paura e turbamento. Turbamento che si ripeteva frequentemente quando, come al mio paese, segnalavano lo svolgimento di un funerale e una morte appena avvenuta. Quando si sentiva la campana annunciava la morte di un neonato (avevano un rintocco speciale), secondo le testimonianze di mia madre, negli anni 30 e 40 le donne si facevano il segno della croce e manifestavano sentimenti di pena ma, quando il lutto colpiva famiglie particolarmente numerose e povere, non mancava chi dicesse la madòna la s’é mìsa na màan in sé’l cör”, “ha fatto una grazia”.   E questo, anche e proprio perché riferito a una realtà comunitaria con un’alta concezione della famiglia e della maternità, apre a molte riflessioni sugli effetti della miseria. 

                                                                                              Cambiano le parole: LA MAFIA

Una parola ha mutato di significato: màfia. Evocava la già allora l’associazione a delinquere, che per fortuna non era ancora radicata nei nostri territori. Ma da noi, era di solito usata per indicare un uomo che vestiva in modo molto vistosamente elegante, che si dava arie, si pavoneggiava: dàase de la màfia. Insomma, el mafiùus era un semplice bellimbusto. Superfluo osservare che, in questo caso, era meglio allora che oggi.

 

                                                                                              Cambiano le parole: COMUNISTA E DEMOCRISTIANO

Nella mia infanzia, in un’epoca di forte scontro di classe, era inevitabile che si forgiassero definizioni gergali per i due soggetti sociali in aspra contrapposizione politica: il comunista e il democristiano. Il primo era el busgnàach (è forse l’unione di bolscevico e corvo, el curgnàch?) o più banalmente el rùs. Il secondo era basapìle o, ma anche, specie in Cremona, il più spiritoso cul de legn, per l’assidua sosta sui banchi della chiesa. Oggi, scomparsa o radicalmente ridefinita la lotte di classe, non c’è alcuna ragione per continuare a usare i due termini oppositivi.

                                                                                            Cambiano le parole: EL MAGÒN

Anche vìighe el magòn contiene una peculiarità semantica non traducibile in “avere un nodo alla gola, un cruccio, un dispiacere”. Il vocabolo magòn, come annota acutamente il grande intellettuale Luigi Meneghello, configura lo stato d’animo di chi è accorato in modo assai più severo, in quanto indica uno stato di grave imbronciamento dell’intera personalità; condizione funerea dell’animo, che domina su di esso e sul viso del paziente facendogli assumere un’espressione funerea (Luigi Meneghello, Pomo pero, nota a p. 14)

Nella foto di Ernesto Fazioli (1932) il mercato di piazza Cavour

Gianvi Lazzarini


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commenti


Graziella Borgna

11 settembre 2021 11:05

Da Pavia sono venuta a Cremona perché ho sposato un cremonese. Negli armadi di casa ho trovato un vero "tesoro", una pila enorme di lenzuola di lino; alcune ingiallire dai continui lavaggi, altre ancora parecchio resistenti:perfette per un'artista abituata a dipingere con l'acrilico o con l'olio.Cosi' sono nati i quadri che parlano della violenza sulle donne dal itolo "La donna cucita" . Prossimo vernissage al centro culturale Il Torchio, n.62 Pieve San Giacomo Cr