1 dicembre 2021

I prigionieri cremaschi di Radetzky

Alberto Benedetto de Herra ha un cognome spagnolo ma da tempo la sua è una facoltosa famiglia aristocratica milanese. Il padre, il barone don Ferdinando, è Imperial Regio Consigliere d’Appello, Direttore del liceo Sant’Alessandro (liceo Beccaria dal 1865) e insigne grecista, mentre sua madre, donna Giuseppina, viene dalla nobile famiglia Forni. Allora che cosa ci fa Alberto, acquattato come un fuorilegge, la notte tra il 17 e il 18 marzo 1848, in una via buia di Milano, in attesa di un segnale convenuto? Nato il 9 dicembre del 1821, ha studiato nelle migliori scuole di Milano, si è laureato in giurisprudenza nel 1843 e ha già iniziato una brillante carriera amministrativa presso la Congregazione Provinciale e la Procura di Finanza. Quindi, perché Alberto adesso se ne sta nascosto nella penombra, stretto al suo fucile, aspettando le prime luci dell’alba?

Come Augusto Anfossi venuto da Nizza, come Luigi Torelli giunto da Tirano, come Luciano Manara arrivato da Antegnate, Alberto si sta preparando all’azione. I componenti dei vari gruppi di fuoco hanno fatto quella notte i loro “giuramenti sulla lama”. I più religiosi hanno ricevuto l’assoluzione in articulo mortis. Non si trovano facilmente i nuovi ’44 d’ordinanza in dotazione oltre Ticino e nemmeno le nuove carabine a canna rigata. Quindi Alberto ha ingrassato e scovolato il suo fucile a canna liscia, che non è più a pietra ma è a luminello. Alberto ci sa fare con le armi da fuoco. Le guerre carliste in Spagna e quella del Sonderbund in Svizzera hanno portato a molti miglioramenti all’avancarica. Si è anche procurato una buona scorta delle nuove “cartucce”. Con queste, la dose di polvere è già pronta e così, invece che nei suoi quaranta secondi soliti, strappata la carta, con la quantità giusta di polvere subito in fornelletto (poi in canna, quindi bacchetta, palla, carta, bacchetta), Alberto riesce a caricare e tirare in trenta secondi, un ottimo tempo. Adesso il cielo di Milano si fa sempre più chiaro. Ecco, i miliziani di Manara partono verso il palazzo del governo. Arriva il segnale anche per il suo gruppo. La rivoluzione è cominciata.

La storia delle Cinque Giornate ci dice con che sequenza gli insorti attaccano i vari presidi della guarnigione austriaca. Alberto de Herra avrebbe potuto restarsene negli ozi nobiliari di una gioventù spensierata e dorata, mentre ora sta sparando, ricaricando, sparando in continuazione, e con buona mira. L’Ottocento è il secolo di questi impeti giovanili, di questi ragazzi coraggiosi. È il “secolo romantico”, il secolo sturm und drang, in cui si combatte per la Libertà, sempre, dovunque, comunque. Prima l’assalto al palazzo del governo, poi in copertura a proteggere i nostri in casa Vidiserti, dove si sta formando il primo nucleo della nuova reggenza provvisoria, infine al Broletto, che viene attaccato e occupato dagli insorti. È il Broletto, in questo primo giorno di scontri furiosi, il luogo simbolo dell’insurrezione. Da qui occorre dare un segnale di resistenza a tutti i combattenti, a tutte le barricate. Il giuramento è di lottare sino all'ultimo uomo. Dopo un forsennato scambio di fucileria, è il 21° fanteria Baumgarten del colonnello Döll che li prende a cannonate con un pezzo da dodici. Alla fine, le devastanti esplosioni riescono ad aprire un varco e alcune compagnie del tenente Fischer iniziano a irrompere nell’edificio. Si combatte nel cortile, sulle scale, di stanza in stanza. I difensori caduti e feriti vengono finiti alla baionetta dagli assalitori inferociti. Poi, uno dopo l'altro, i milanesi si arrendono: Belgiojoso, Bellati, Bellotti, Greppi, Lechi, Manzoni, Porro e tutti gli altri. Ma ormai le barricate sono in piedi, la popolazione è stata spinta alla rivolta, l’intera città è in lotta. Alberto non si arrende, gli sono addosso e lui spara ancora. Poi li portano al Castello, dove cominciano gli orrori. Le torture inflitte dai croati e dai “bani” bosniaci ai prigionieri restano famose nelle cronache milanesi. Poi li condurranno via, incatenati, durante la ritirata da Milano, in un viaggio di violenze e dolori. Ma in quel viaggio Alberto prenderà nota di molte cose, nascondendo ai carcerieri i suoi appunti.

Quando alcuni decenni dopo Cesare de Herra scopre queste carte di suo padre Alberto, venuto a mancare quando lui e suo fratello Ferdinando erano ancora adolescenti, non crede ai propri occhi. Suo padre è stato uno dei protagonisti di quegli eventi ma in famiglia ha sempre taciuto. Contrariamente ai molti che saranno ironicamente definiti come “gli eroi della sesta giornata”, Alberto de Herra non ha affidato alle gazzette milanesi e all’agiografia meneghina la sua testimonianza di quei fatti. Cesare chiede notizie di suo padre ai pochi superstiti di quelle vicende e ne riceve conferme e ulteriori informazioni su quei momenti dell’insurrezione. Suo padre ha anche lasciato annotazioni e lettere riguardanti il successivo viaggio di deportazione nella fortezza di Kufstein, insieme ad altri patrioti italiani. E qui veniamo a Crema e ai cremaschi: perché alcuni di quei patrioti deportati con Alberto de Herra e con gli altri insorti milanesi a Kufstein erano nostri concittadini. Ma come mai questi cremaschi erano stati imprigionati in quella fortezza del Tirolo, vicino al confine con l’alta Baviera?

Cominciamo col dire che un giovane ricercatore storico e scrittore del territorio saluzzese, Domenico Chiattone (1878-1906), studia le carte lasciate da Alberto de Herra e pubblica nel 1906, poco prima di morire a ventotto anni, presso l’editore L. F. Cogliati di Milano, un “Contributo alla storia delle Cinque Giornate. I Mali trattamenti usati dall’Austria ai prigionieri del Broletto. 18 marzo - 21 giugno 1848”. Il fascicolo si basa sui documenti manoscritti di Alberto de Herra e contiene informazioni anche sui prigionieri cremaschi. I quali però compaiono negli appunti di Alberto solo a un certo punto della sua vicenda. Attendiamo quindi un momento prima di assistere alla loro entrata in scena e seguiamo il racconto di Alberto. Tra i combattenti del Broletto catturati insieme a lui, ci sono personaggi di spicco dell’aristocrazia milanese, come Giuseppe Belgiojoso, e importanti uomini d’armi, come il generale Teodoro Lechi. C’è il conte Carlo Porro, noto studioso ed entomologo (fratello di Alessandro, che farà inizialmente parte del Governo Provvisorio) e c’è Filippo Manzoni, il figlio di Alessandro Manzoni, oltre a varie personalità di rilievo della società milanese del tempo. Nei giorni successivi, a loro si aggiungono altri detenuti, catturati durante gli scontri tra il 19 e il 22 marzo.

Quando nella notte tra il 22 e il 23 marzo Radetzky esce con l’esercito da Milano per iniziare la marcia a tappe forzate verso il Quadrilatero, molti ostaggi vengono liberati ma altri vengono condotti in prigionia al seguito delle truppe. Alberto de Herra è tra di loro. I prigionieri sono in ceppi, bloccati dai ferri, lasciati senza acqua e cibo, alimentati e dissetati solo in momenti arbitrariamente stabiliti dai carcerieri. Il tempo atmosferico è pessimo e la temperatura è di molto sotto le medie stagionali. Sono esposti al freddo e alle intemperie, senza alcun conforto o riguardo alle loro condizione. A Melegnano, il giorno 23, viene ucciso Carlo Porro, che muore proprio accanto ad Alberto. Tra il 24 e il 25 le formazioni austriache, con i loro ostaggi incatenati, passano da Lodi e poi da Crema. Qui fanno una sosta. Il 26, sempre secondo il resoconto riportato da Chiattone, ripartono da Crema e arrivano a Orzinuovi. È in questa località che Alberto incontra e cita per la prima volta nelle sue annotazioni i prigionieri cremaschi. Dice infatti che ci sono 12 ostaggi “sopraggiunti ad Orzinuovi”, nel senso che, in quel luogo, gli stessi sono stati consegnati dalle guarnigioni di provenienza al grosso dell’esercito in ritirata. Si tratta di 2 “lodigiani” e 10 “cremaschi”. Di questi 10 cremaschi, uno viene rilasciato poco tempo dopo, mentre gli altri 9 seguono in ceppi le truppe austriache. Pare di comprendere che i prigionieri cremaschi non siano stati aggiunti agli altri durante la sosta a Crema del 25/26 marzo ma che ciò sia avvenuto più avanti, a Orzinuovi. Probabilmente i cremaschi erano stati condotti separatamente, da altri contingenti austriaci, da Crema in direzione di Brescia. Sempre secondo Alberto de Herra, il cremasco rilasciato si chiamava Gandini e i 9 rimasti con lui e con gli altri detenuti, nel percorso verso il Quadrilatero e quindi verso Kufstein, si chiamavano Grioni, Galletti, Capretti, Rovescalli, Bianchezzi, Moretti Giovanni, Moretti Luigi veterinario, Gandini, Pandiani e Gervasoni.

Per quale motivo questi cremaschi erano divenuti prigionieri degli austriaci? Ce lo dice un altro testo, redatto in quello stesso periodo, non pubblicato e rimasto manoscritto, conservato presso la Biblioteca di Crema (segnatura manoscritti “MSS 78”). Ne esiste una trascrizione novecentesca dattiloscritta, scansionata e reperibile in rete. Si tratta del “Diario delle cose notabili avvenute in Crema l’anno 1848” di Ferdinando Meneghezzi, autore ed educatore noto a livello locale e oggetto negli ultimi anni di una meritata riscoperta e ripresa in considerazione, per le sue attività letterarie e giornalistiche e per le sue prese di posizione durante le battaglie politiche ed elettorali postunitarie. In realtà, in questo scritto, dell’anno 1848 si parla soprattutto in riferimento ai fatti avvenuti a Crema da venerdì 17 marzo a sabato 1° aprile 1848, con un breve cenno finale al 1° agosto.

Sappiamo da Meneghezzi che il 18 pomeriggio si diffonde a Crema la notizia della rivoluzione a Milano, che il 19 si verifica il tentativo insurrezionale cremasco e che il 20, rinforzata la guarnigione austriaca, quel tentativo viene represso e i suoi autori imprigionati. Secondo Meneghezzi, i nomi di questi arrestati erano: “Ingegnere Baletti, Pellegrino Grioni, Rovescalli Gio. Battista, Gervasoni Angelo (non è quindi il Giovanni Gervasoni caduto ad Ancona nel 1849), Capetti Agostino Inserviente del Municipio, Moretti Luigi, Moretti Giovanni, Bianchessi Angelo, Dottor Pandiani Eugenio”. A questi si aggiungono “un Morell (in realtà Morelli, nda) Gio. Batt. ed Antonio Esquelé milanesi”. Rispetto ai nominativi indicati da Alberto de Herra, le uniche differenze riguardano la scrittura di alcuni nomi, più corretta in Meneghezzi: qui abbiamo infatti Bianchessi invece di Bianchezzi, Capetti invece di Capretti, Baletti invece di Galletti. Difficile dire se sia una mera diversità di scritturazione anche quella riguardante l’ostaggio rilasciato in tempi brevi: Carniti invece di Gandini. Dice infatti Meneghezzi: “Nel dopo pranzo di questo giorno (il 29 marzo, nda) ebbe a tornar a casa il detenuto ostaggio Carniti Francesco, che ha la sua casa in Ghirlo, e credesi fermamente che ciò sia stato ottenuto per opera della lega Grassi-Bolzoni, mediante una buona mano di svanziche fatte mangiare a que’ masnadieri che lo tenevano in custodia”. Aggiunge che Carniti, “mezzo stupido e sempre offuscato dai vapori del vino e dell’acquavite”, era stato preso “come quaglia nella rete” solo perché aveva in tasca una pistola, forse passatagli all’ultimo momento da altri. La “legge stataria” austriaca era severissima verso i portatori di armi non autorizzati. Può darsi che il Gandini di Alberto de Herra e il Carniti di Meneghezzi fossero ostaggi diversi, entrambi rilasciati in contesti e per ragioni differenti.

Venerdì 24 marzo, “alla mattina i detenuti furono messi nuovamente a disposizione del militare e messi alla partenza in una Omnibus”, che si lascia fuori Porta Serio “alla pioggia e al vento freddo che in que’ giorni quasi di continuo imperversavano”. Tra il 24 e il 25 comincia ad arrivare a Crema la maggior parte delle truppe austriache in ritirata da Milano e dalla Lombardia occidentale, in formazioni sempre più numerose. Abbiamo visto come il 25, verso fine giornata, arrivino a Crema anche i prigionieri milanesi catturati al Broletto, tra cui Alberto de Herra, e gli altri patrioti imprigionati durante le Cinque Giornate, che ripartono poi da Crema la mattina del 26. Intanto, sempre nel pomeriggio del 25, escono da Crema alcuni contingenti militari austriaci, con un distaccamento di ussari ungheresi, per mettere in sicurezza il passaggio dell’Oglio, tra Soncino e Orzinuovi, in vista del transito della parte più cospicua dell’esercito nei giorni immediatamente successivi. Questi militari, dice Meneghezzi, “trassero seco nella loro partenza i nostri cremaschi detenuti e si avviarono alla volta di Brescia”. Va quindi ben intesa la predetta espressione “sopraggiunti ad Orzinuovi”, utilizzata da Alberto de Herra riguardo ai prigionieri cremaschi. Probabilmente si è trattato di un mero ricongiungimento in itinere. Comunque, dal 26 marzo gli ostaggi cremaschi e quelli milanesi sono riuniti nel percorso verso il Quadrilatero e quindi verso il Tirolo.

Nel frattempo, il 26 arriva a Crema il grosso dell’esercito austriaco, con Radetzky al comando. Il feldmaresciallo pernotta alla Villa Martini di San Bernardino e lancia un proclama in cui afferma che “gli abitanti tranquilli nulla hanno da temere” mentre “chiunque sarà colto con le armi alle mani sarà sottoposto a una Commissione Militare e convinto di ribellione verrà irremissibilmente fucilato”.

Da questa permanenza di Radetzky alla Villa Martini nasce la leggenda del forziere interrato allora in quel parco, per non correre il rischio di far cadere le barre d’oro prelevate dal deposito della tesoreria lombardo-veneta di Milano in mano agli insorti italiani, soprattutto ai corpi franchi che si temeva stessero per arrivare a contrastare la ritirata austriaca tra l’Oglio e il Mincio. Insieme all’esercito in ripiegamento, passano per Crema parecchi personaggi di rilievo dell’establishment asburgico milanese, dal capo della polizia, Carlo Torresani di Lanzfeld, che dorme all’Albergo del Papa, agli alti ufficiali e ai funzionari statali, ospitati dalle famiglie nobili cremasche più devote all’aquila bicipite per i favori arciducali ricevuti nei decenni precedenti. Passano da Crema molte contesse e baronesse austriache, sorprese nei loro salotti meneghini dall’insurrezione milanese e ora in fuga con folta servitù e numerosi carriaggi carichi di bagagli. Ci passa anche uno dei figli del Viceré Ranieri, che viene ospitato in casa Pesadori. La mattina del 28 marzo, “Crema non aveva più un solo soldato tedesco”.

Lasciamo ora Fedinando Meneghezzi e il suo testo manoscritto, limitandoci a dire due cose. La prima è che Francesco Sforza Benvenuti riprenderà nella sua Storia di Crema questa vicenda degli ostaggi del 1848, sunteggiando i corrispondenti brani di Meneghezzi. La seconda è che Meneghezzi nomina “Grassi”, unito in “lega” a Bolzoni. Si tratta di Francesco Grassi, che anche Alberto de Herra incontra durante la sosta degli ostaggi a Crema. Grassi, che è milanese ma opera stabilmente per affari anche a Crema, si prodiga per alleviare le sofferenze dei prigionieri, addirittura facendo liberare, come riferisce Meneghezzi, Francesco Carniti (o il Gandini riportato da Chiattone oppure forse entrambi, qualora fossero persone distinte). A Crema Alberto de Herra riesce, per la prima volta dalla cattura, a scrivere al padre, per informarlo della sua prigionia e per chiedergli aiuto. Il 26 marzo Alberto scrive: “Carissimo Padre, coll’esercito imperiale oggi io mi trovo in qualità di ostaggio a Crema”. E aggiunge che Francesco Grassi, da lui definito “banchiere”, gli ha “con isquisita gentilezza anticipate austriache lire 200”. Secondo Alberto de Herra, Grassi riesce anche, con i suoi buoni uffici, a far fermare i carcerieri poco fuori Crema e a far ristorare gli ostaggi in località “Bergonzone”, nella villa di un patriota cremasco legato a Grassi e agli altri membri del partito albertista locale. Solo che “Bergonzone” non esiste. Si tratta infatti di Vergonzana e la villa è quella dei marchesi Zurla, a cui appartiene Enrico Zurla, uno degli insorti del 19 marzo a Crema, sfuggito alla cattura e condannato in contumacia. Ma chi è Francesco Grassi?

Apriamo una parentesi su questo personaggio. Nato a Milano il 25 giugno 1790 da Giovanni e Maria Lucioni, Francesco Grassi avvia un redditizio commercio di tessuti e di seta, diversificando poi i propri affari in altri campi economici. Negli anni Quaranta diventa appaltatore dell’esercito per le truppe di stanza tra Pavia, Lodi e Crema (vestiario, panizzazione e scorte alimentari, foraggi e pagliatici). Ottiene la titolarità dell’Esattoria di Crema. Gestisce con Enrico Mylius una fabbrica di coperte. Negli anni Cinquanta diviene socio delle manifatture in lana di Vöslau e partecipa, in società con lo stesso Mylius e con le ditte Galli, Brambilla, Balabio e Besana, alla conduzione di un paio di importanti filande a Lodi e di altre imprese tessili. Intanto commercia all’ingrosso in gallette, seta, lana, pelli, cotone, piombo, stagno, rame e molti altri generi di mercanzia. Mantiene sempre ottimi rapporti di facciata con le autorità austriache ma è in realtà un sincero patriota, che sostiene in vari modi, soprattutto in termini economici, i progetti politici di Cavour e della dirigenza torinese verso la Lombardia. Risiede e ha gli uffici di rappresentanza nel cuore finanziario della Milano di allora, in via Meravigli n. 2375 (oggi n. 4), dove a quel tempo erano ubicate le maggiori società e banche ambrosiane. È molto affezionato a Crema ed è spesso ospite di alcuni nobili cremaschi filopiemontesi. Acquista un possedimento di oltre 1000 pertiche con residenza nobiliare in Giussano. Nel 1856 è insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine Imperiale di Francesco Giuseppe. Al momento della morte, avvenuta a Milano il 22 dicembre 1862, Francesco Grassi lascia un patrimonio stimato in oltre un milione di lire italiane di allora, di cui la metà in beni immobili e metà in capitali, obbligazioni, mutui, titoli di credito e industriali. Con il decreto 24 febbraio 1864 della Giudicatura del Mandamento IV di Milano, questa ingente sostanza è aggiudicata, sulla base di un testamento olografo privato di cui oggi non è rimasta traccia, per due terzi ai Luoghi Pii Elemosinieri di Milano, amministrati dalla Congregazione di Carità, e per un terzo a quelli di Crema, dove viene costituita l’Opera Pia Grassi. Entrambi i fondi sono poi assorbiti nelle successive operazioni di accorpamento dei vari enti istituzionali di beneficenza, sia a Milano che a Crema. Nel 1882, quando a Borgo San Pietro si demolisce la Caserma della Stella, il consiglio comunale di Crema dà all’area di risulta il nome di piazza della Stella e dopo pochi anni, il 31 marzo 1889, intitola questa nuova piazza a Francesco Grassi. Quando però nel 1894 l’area viene occupata dal nuovo edificio scolastico, con la scomparsa della piazza scompare anche l’intitolazione a Francesco Grassi. La municipalità cremasca gli aveva anche dedicato una lapide, recante una lusinghiera e riconoscente epigrafe. Rimossa nel 1958 durante i lavori di ristrutturazione del palazzo pretorio, la lapide è scomparsa in circostanze poco chiare e non se ne trova più traccia. Oggi Francesco Grassi è del tutto dimenticato dai cremaschi. Chiudiamo la parentesi su questo personaggio.

Torniamo ai nostri ostaggi e ai “mali trattamenti” subiti durante il loro viaggio, secondo il racconto di Alberto de Herra. I prigionieri sono sballottati in catene per tutto il tragitto attraverso il territorio bresciano. Il 28 marzo arrivano a Manerbio, tra il 29 e il 30 sono a “Montechiaro”, il 31 superano Desenzano. Tra patimenti e privazioni, entrano nel veronese, con il costante rischio di attacchi da parte italiana e quindi di rappresaglie su di loro. Sanno infatti che, in caso di attacchi italiani, loro sarebbero i primi capri espiatori, alla mercé di una soldataglia sempre più stanca, irritata e non sempre controllata dagli ufficiali, come gli episodi di saccheggio e di violenze lungo la ritirata stanno a testimoniare. Mentre la maggior parte delle truppe si trincera poi nel Quadrilatero, una parte minore sale lungo la valle dell’Adige verso Rovereto e poi Trento, per mettere in sicurezza i valichi alpini e le valli trentine, portandosi appresso gli ostaggi in ceppi, sempre più denutriti ed esausti. I prigionieri arrivano a Bolzano, poi a Vipiteno e quindi a Innsbruck. Dopo alcune giornate di marcia, a temperature molto basse, senza abiti e protezioni adatte, giungono infine alla fortezza di Kufstein.

Qui, per circa un mese, fino a poco dopo la metà di maggio, i prigionieri sono vittime di un trattamento molto severo e punitivo. Alberto riesce però a far spedire al padre alcune lettere, in cui descrive la sua prigionia e quella degli altri carcerati. Intanto sono numerose e accorate le richieste delle famiglie degli ostaggi e dello stesso Governo Provvisorio della Lombardia, oltre che della diplomazia piemontese, intese a ottenere la liberazione dei detenuti. Finalmente, dopo diverse settimane di segregazione a Kufstein, i detenuti italiani vengono liberati dai ceppi e dalle celle della fortezza e vengono trasferiti, sotto scorta militare, fino a Vienna. Questo grazie alle reiterate pressioni diplomatiche e attraverso operazioni di scambi di prigionieri e altre difficoltose concessioni reciproche tra le parti contendenti. Nella capitale austriaca i prigionieri riacquistano una certa libertà, ricevendo un trattamento più umano e decoroso. Non vengono però rimessi del tutto a piede libero e devono rimanere a Vienna, in una sorta di libertà vigilata, per circa un altro mese. Fino a quando, il 21 giugno, arriva il permesso di far ritorno in Italia, a Milano, a Crema e nelle altre città dalle quali erano stati prelevati per essere imprigionati. Alcuni tornano per conto proprio, altri viaggiano in gruppo. La maggior parte passa da Salisburgo, poi taglia per Coira in Svizzera e raggiunge l’Italia attraverso il passo dello Spluga. Anche Alberto de Herra ritorna e può ricongiungersi ai suoi familiari.

Nel 1851, a trent’anni, Alberto sposa la contessa Fulvia Sormani. Entra a far parte del Collegio dei Conservatori dell’Ospedale Maggiore. Diventa membro della Congregazione municipale di Milano e Assessore comunale. Diviene presidente della Società Agraria di Lombardia e membro della Commissione di Beneficenza che amministra le Casse di Risparmio Lombarde. Nel 1860 è eletto deputato per la VII legislatura nel collegio di Melegnano. Il barone Alberto Benedetto de Herra muore la mattina del 27 maggio 1866, all’età di 44 anni, a causa di una “malattia polmonare”, dopo “quattro mesi di sofferenza”. Una “Commemorazione del Nobile Cavaliere Alberto de Herra presentata ai giovanetti di lui figli Ferdinando e Cesare”, datata 30 novembre 1866, viene pubblicata a cura di Massimiliano de Leva. Contiene molte notizie interessanti ed è stata scansionata e messa in rete su iniziativa della Illinois University of Urbana-Champaign.

E gli ostaggi cremaschi? Anche loro tornano a casa, alle loro famiglie. Il numero di lunedì 24 luglio 1848 della Gazzetta di Milano riporta un’informazione che proviene da Crema a tale riguardo. In fondo alla prima pagina, un trafiletto fornisce la notizia che il giorno 11 luglio sono rientrati in città tutti i prigionieri presi in ostaggio dagli austriaci nel mese di marzo. In realtà, già dal 4 luglio i primi cremaschi erano rientrati a Crema, in qualche caso passando prima da Milano. Il giornale descrive l’accoglienza riservata dalla popolazione ai concittadini ritornati a casa: “Fra un numeroso corteggio di carrozze, fra la Guardia nazionale preceduta dalla rispettiva banda e una folla di popolo gaudente, ritornavano in Crema loro Patria gli ostaggi, che a lei tolti dalla barbarie austriaca fin dal primo impeto della rivoluzione venivano ora per l’amorevole cura del Governo Provvisorio ridonati alle loro famiglie”. Il tripudio patriottico avviene però in giornate molto particolari. Due giorni prima dell’uscita di questo numero del giornale, il 22 luglio, erano iniziati i primi scontri della battaglia di Custoza, che terminerà il 27, con la sconfitta degli italiani e il successivo ritorno degli austriaci in Lombardia.

Per completezza, va detto che presso la Biblioteca di Crema è conservato sull’argomento anche un altro testo manoscritto (segnatura manoscritti “MS 374”), mai edito sino a oggi. Ha per titolo “Memorie di un ostaggio” e l’autore è Pellegrino Grioni, uno dei prigionieri di Kufstein. Anche in queste carte sono descritte le vicende del viaggio e della prigionia degli ostaggi cremaschi. Carlo Pellegrino Grioni (1809-1871) è un personaggio molto noto a Crema nel periodo risorgimentale. Partecipa attivamente alle vicende cittadine del suo tempo ed è un apprezzato antiquario e collezionista. Collabora con Matteo Benvenuti (fra Giocondo) ad alcuni numeri dell’Almanacco Cremasco. Ha lasciato importanti raccolte di libri, fondi archivistici e cimeli storici. Oggi questo materiale è distribuito in diversi luoghi, tra i quali la Biblioteca Civica Comunale, l’Archivio Storico Diocesano di Crema e alcuni archivi privati. Dopo la sua scomparsa, una buona parte delle sue raccolte e dei suoi archivi era passata al figlio Evardo e quindi, alla morte di questi nel 1914, a Romolo Tadini. Il Comune di Crema gli ha dedicato una pubblica via.

Infine, va ricordato, tra i vari contributi dedicati alla storia di questi cremaschi prigionieri degli austriaci, l’articolo redatto da Vittorio Dornetti per il settimanale cremasco Il Nuovo Torrazzo, nel numero del 23 aprile 2011, intitolato “Gli ostaggi cremaschi dell’anno 1848”.

Nelle foto una stampa dei prigionieri in Tirolo e il castello di Kufstein, poi l'insurrezione e i sotterranei del castello

Pietro Martini


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