25 novembre 2022

Spigolature cremasche

Anche quest’anno la ricorrenza del due di novembre ha portato molti di noi a onorare la memoria dei propri defunti nei cimiteri cittadini. Questo è avvenuto anche a Crema. Al cimitero maggiore, non pochi hanno l’abitudine, dopo la visita ai luoghi in cui sono inumati o tumulati i loro parenti e amici, di recarsi al famedio militare e al famedio civile. Si tratta di due ambienti a struttura aperta, posti nel secondo corpo monumentale, quello più a mezzogiorno. Il primo famedio, ornato da una statua di guerriero, opera di Bassano Danielli, è dedicato ai combattenti e ai caduti, perché “fede e gratitudine veglian le fosse degli umili eroi che dai vari fronti d’Italia la dura guerra trasse a morire nella nostra città”. Il secondo famedio è dedicato “ai cittadini che rifulsero per altezza di opere” e “ai cittadini benemeriti della pubblica beneficenza”. Qui, sulle due pareti laterali, sono incisi nel marmo i nomi di questi cittadini illustri, perché “l’ingegno bene usato è un patrimonio donato a tutti” e “il ricordo dei beneficati è la gloria dei benefattori”. Il locale è ornato, agli angoli, da sculture di urne funerarie e, a terra, da un portalampade flammante. Sulla parete di fondo si trova una deposizione dalla croce, opera scultorea di Enrico Girbafranti. L’ingresso a entrambi i famedi è costituito da una chiusura bassa, con scultura di due angeli inginocchiati e con corona su croce al centro. Sul pavimento, ai due ingressi, è indicata la data in cui è stato riorganizzato l’ultimo allestimento di rilievo di questi ambienti (“1931 - Anno IX”). Nel complesso, i due famedi risultano più che dignitosi e adeguati, in termini sia architettonici che artistici, anche alla luce di altre realtà celebrative cimiteriali di maggiore “modernità”.

In corrispondenza di questi due spazi commemorativi posti in superficie, esistono a livello sotterraneo, nella parte sottostante in cui si trovano i vari sepolcreti, loculi e cappelle, i due relativi locali in cui sono effettivamente collocate le tumulazioni dei resti mortali, con le loro lapidi. Va detto che sono rari i visitatori di questi due famedi sotterranei, che però sono proprio i luoghi in cui si custodiscono le spoglie dei soggetti pubblicamente commemorati in superficie. In particolare, la parte dedicata ai cittadini illustri non è quasi mai visitata. Questo ambiente è piuttosto negletto e non mancano fessurazioni e percolature. La disposizione dei loculi appare alquanto arbitraria. Esiste però una ripartizione di fondo, su due distinte pareti, tra gli uomini di “ingegno” e i “benefattori”. Le lapidi sono di tre tipi: a loculo intero, a loculo diviso in quattro sezioni (in un caso con quattro soggetti, in un altro solo con tre) e a colombaio con fronte quadrato. Le ragioni di queste differenze, derivanti probabilmente dallo stato dei resti tumulati, potrebbero essere storicamente ricostruibili e almeno in parte comprensibili. Invece, il posizionamento a parete dei vari soggetti con le relative lapidi è francamente di difficile decifrazione, ferma restando la suddetta ripartizione. Comunque, in un caso e forse anche in due, la collocazione dei resti tumulati avrebbe dovuto essere fatta, seguendo la differenziazione tra uomini di “ingegno” e “benefattori”, in una parete diversa da quella effettivamente utilizzata. Infatti, il poeta Federico Pesadori sarebbe stato da collocare non tra i “benefattori” ma tra gli uomini di “ingegno”. Qualche dubbio potrebbe venire nel caso di Filippo Zambellini, “medico e consolatore degli indigenti e dei miseri”, posizionato tra gli uomini di “ingegno” e non tra i “benefattori”. Tutti questi nostri illustri concittadini sono venuti a mancare tra il 1840 e il 1966 (e sono nati tra il 1754 e il 1899). Quanto ai criteri di scelta dei personaggi ritenuti illustri e meritevoli di tumulazione in questo famedio rispetto ad altri possibili soggetti, ci si limita in questa sede a un garbato e prudente “no comment”.

È stato proprio lo scorso due di novembre che, dopo il mio usuale giro cimiteriale in superficie, di anno in anno articolato in un numero sempre maggiore di tappe, sono sceso nei famedi sotterranei. Visitando il locale con le lapidi dei concittadini benemeriti per ingegno e per generosità, mi sono attardato su alcuni particolari delle incisioni riportate su quelle superfici marmoree. E visto che in quel periodo ero stato coinvolto in alcune iniziative riguardanti lo storico Francesco Sforza Benvenuti (1822-1888), ho guardato con attenzione la famosa dicitura “scrittore di cose cremasche”, apposta sulla sua lapide. È stato in quel momento che ho visto la data dell’anno di morte incisa appena sotto tale dicitura: “1857”. La cosa mi ha molto sorpreso, anche perché non mi è mai risultato che qualcuno avesse in precedenza rilevato questo errore così grave. Il povero conte Benvenuti è stato fatto morire non a sessantasei anni ma a trentacinque, con ben trentun anni di anticipo. Sono corso di sopra, nella parte alta del famedio in cui sono indicate sulle pareti, sotto ogni nome di tumulato, le relative date di nascita e di morte. Almeno lì, la vita dell’autore della Storia di Crema non è stata troncata prima della pubblicazione di questa sua prima e principale opera, avvenuta nel 1859. Anche il cosiddetto “totem”, installato a fianco degli uffici per la consultazione pubblica, ha confermato la data corretta di morte. Lì la ricerca si svolge sul database degli uffici e quindi si basa anche sulla correttezza del data entry effettuato per alimentarlo. Resta però il fatto che la lapide dietro la quale riposano i resti di Francesco Sforza Benvenuti, uno dei principali storici della nostra città, è sbagliata in modo notevole. Trattandosi di un famedio monumentale, in una città come Crema, la cosa colpisce parecchio. A quel punto, un dubbio si è insinuato nei miei pensieri: e se di errori, mi sono detto, ce ne fossero altri?

Non è stato difficile accertarlo. Ecco dunque, qui di seguito, alcune piccole curiosità riguardanti le tumulazioni delle spoglie mortali appartenute ai concittadini ritenuti più illustri e quindi meritevoli dell’onore del famedio. Quest’ultima parola deriva dalle parole latine “fama” (fama, notizia, reputazione) e “aedes” o “aedis” (tempio, camera, casa). Evidente il suo significato: “edificio funebre dedicato a uomini illustri” (Nocentini, Vocabolario Etimologico, Le Monnier, 2010). Ed è chiara la rilevanza che assume il fatto di essere onorati da tale collocazione funebre. Il minimo quindi sarebbe, proprio perché di solito nei cimiteri si collocano i morti, stare attenti alle date di morte, in particolare a quelle dei tumulati nel famedio ed esposti al pubblico encomio. Ma anche alle date di nascita, perché non è un dettaglio per la comunità sapere se un suo uomo illustre è vissuto quaranta o settant’anni.

Sul musicista Stefano Pavesi (1779-1850) la Società Storica Cremasca ha pubblicato nel 2016 un valido libro scritto da Aldo Salvagno. In questo testo, così come in numerosi altri, la data di morte di Pavesi indicata dall’autore è quella del 28 luglio 1850. Invece sulla lapide giù in famedio è riportata la data del 23 luglio 1850, di cinque giorni antecedente. In questo caso, l’errore è molto meno eclatante di quello riferito a Benvenuti. Forse chi ha inciso il numero tre invece del numero otto era un po’ distratto. Magari quell’otto era scritto male nel testo da cui lo scalpellino doveva copiarlo. Oppure l’incisore non ci vedeva molto bene. Chissà. E se fosse lo stesso scalpellino che ha fatto morire Benvenuti con trentun anni di anticipo? Il dubbio viene perché sia Pavesi che Benvenuti condividono una delle due lapidi che in precedenza si sono definite a loculo diviso in quattro sezioni, per la precisione quella condivisa da quattro soggetti. In pratica, la lapide è la stessa, con le scritte ripartite e posizionate in sequenza orizzontale per i quattro occupanti. Per fortuna che lo scalpellino distratto (o ipovedente, o un po’ alticcio, o innamorato, magari volutamente dispettoso) non ha ricevuto incarichi nella parte alta del famedio. Infatti, anche per quanto riguarda Pavesi, così come per Benvenuti, la data posta nella parte superiore del famedio è corretta. E risulta corretta anche la data contenuta nel database consultabile dal “totem”. Forse anche per questo l’errore sulla lapide di Pavesi non è mai stato notato, per lo meno da quanto sinora è dato sapere. A riprova che lì sotto ci vanno davvero in pochi.

Sempre dalla parte degli uomini di “ingegno”, c’è il poeta Luigi Soldati (1888-1944). La data di morte riportata sulla lapide è il 25 febbraio 1944. Qui il punto è quello del giorno effettivo del decesso. Sui vari testi consultati, a stampa e sul web, questo elemento è eluso con locuzioni del tipo “morì nell’inverno del 1944” oppure “morì nel febbraio 1944”. Anche nel libro uscito pochi mesi fa, a cura di Luigi Serina, si dice di Soldati che “da sempre malato di reni, morì in un freddo inverno” e ci si limita a indicare il mese del suo decesso, il “febbraio del 1944”, specificando che il maestro poeta è venuto a mancare “a soli 56 anni”. L’unica pubblicazione che, almeno da quanto sin qui emerso, fornisce il giorno preciso della morte di Soldati è quella data alle stampe nel 1988, nel centesimo anniversario della sua nascita, con prefazione di Pietro Savoia. Non so se Savoia sia anche l’autore della breve nota biografica che precede la prefazione, come sarei personalmente portato a supporre. In tale nota si conferma la data di morte del 25 febbraio 1944, dunque la stessa incisa sulla lapide giù nel famedio.

Per cui, questa volta la lapide è corretta? Allora, perché questo dubbio sul giorno venticinque? Semplice. Perché sia nella parte superiore del famedio, sia nel database consultabile dal “totem”, viene indicata la data del 5 febbraio. Fin qui, si sono dimostrate più attendibili le informazioni fornite dal locale superiore del famedio e dal database consultabile dal “totem”, rispetto alle informazioni incise dai vari scalpellini più o meno distratti o con problemi di vista o affetti da altre difficoltà. Va però tenuto presente che, nella parte alta del famedio, le scritte riferite a Soldati sono molto stinte e poco leggibili. Chissà, magari scavalcando di soppiatto gli angeli guardiani e toccando bene il marmo si potrebbe scoprire se è rimasto l’incavo di un numero due, prima del cinque, non più visibile. Ma forse è meglio fare una visita all’Archivio Diocesano e consultare i registri parrocchiali di morte del 1944. Tenendo presente che anche i parroci e i loro coadiutori possono commettere errori. Fatto sta che, se non è errata la lapide, sono sbagliate le informazioni fornite dalle altre due fonti del cimitero. O viceversa. Se non ci fosse l’informazione precisa fornita da una persona molto autorevole come Savoia, che indica la data di nascita del 25 e non del 5 febbraio, forse propenderei per un’altra lapide errata.

Le piccole curiosità continuano. Tralasciamo la lapide di Pietro Donati e passiamo al lato dei “benefattori”. La tralasciamo perché crediamo più ai testi del 1880 e del 1896 di Telesforo Sarti sul parlamento subalpino e nazionale (oltre che a diversi altri), che confermano la data di nascita di Donati il 10 dicembre 1832, come inciso anche sulla lapide giù in famedio, invece che a Wikipedia, dove al momento risulta indicata come sua data di nascita quella del 12 dicembre 1832, di due giorni successiva. Tra i “benefattori”, isolata in un angolino in basso e in fondo al locale, c’è la piccola lapide quadrata a colombaio di Pietro Marini (1803-1879). E pensare che Marini, grazie al cui testamento fu fondata l’Opera Pia Marini, voleva con il suo lascito creare una “casa di mendicità” in grado di “togliere l’accattonaggio in Crema”. Il lascito c’è stato, sull’accattonaggio, invece, lasciamo perdere che è meglio. Si questua anche all’ingresso del cimitero. La lapide di Marini reca come data della sua morte il 5 febbraio 1879. Per coincidenza, è forse la stessa di Soldati, però sessantacinque anni prima. Qui non c’è contraddizione con la data di morte indicata nella parte alta del famedio. Però c’è contraddizione con la data fornita dal “totem”, nel senso che nel database risulta come data di morte quella del 5 novembre 1879. Quindi, in questo caso, la lapide potrebbe essere corretta, però è sbagliata quell’altra fonte del cimitero. Probabilmente, l’errore nel database si deve al fatto che il numero due (per indicare il mese di febbraio), quando è scritto in numeri romani viene reso con due “barrettine” affiancate (“II”). E nella parte alta del famedio i numeri dei mesi sono espressi in numeri romani. Se chi ha fatto il data entry si è limitato a buttare un’occhiata nella parte alta del famedio e se non conosceva i numeri romani oppure se le due “barrettine” non erano chiare, può aver inteso che si trattasse di un numero undici, che sta ad indicare, di solito, l’undicesimo mese dell’anno, quello di novembre. Ovviamente, questo è solo un tentativo di spiegazione. Fatto sta che, anche qui, c’è una data sbagliata.

Un’altra piccola curiosità riguarda il poeta Federico Pesadori (1849-1923). Nel suo caso, tutte e tre le date della sua nascita, quella incisa sulla lapide, quella riportata nella parte alta del famedio e quella consultabile dal “totem”, coincidono felicemente: il nostro notaio poeta viene sempre fatto nascere il 3 febbraio 1849. Quindi, tutto bene? Dipende. Intanto, si può prendere atto del fatto che, in questo caso, il cimitero maggiore di Crema è d’accordo con sé stesso. Però il problema nasce leggendo alcuni testi scritti da Mario Perolini e da altri autori, che indicano il 3 settembre 1849 come data della nascita di Pesadori. Insomma, è possibile una simile insistenza nello stesso errore, sia nel libro di Perolini sugli edifici monumentali e storici cremaschi, sia in altre sue pubblicazioni (ad esempio quella sull’origine dei nomi delle strade di Crema), per non parlare di altri che ribadiscono nelle loro opere questo 3 settembre invece del 3 febbraio? Senza contare che su Wikipedia Pesadori viene fatto nascere il 3 novembre 1849 (e qui potrebbe valere il discorso già fatto su coloro che scambiano il numero romano “II”, cioè due, in riferimento al mese di febbraio, per un undici). Per di più, sempre su Wikipedia Pesadori viene fatto morire con un anno di ritardo, l’8 aprile 1924 (e qui lasciamo pur perdere). Per cui, avremmo un illustre concittadino nato tre volte. Vuoi vedere che stavolta ha ragione la lapide? Strano, perché Perolini non è proprio l’ultimo arrivato. Anche in questo caso, forse per sicurezza è meglio fare una capatina all’Archivio Diocesano, per vedere i registri parrocchiali di nascita del 1849. Si potrebbe andare anche all’ufficio anagrafe comunale, dove però le modalità e i tempi sono diversi.

Nel complesso, in questo locale sotterraneo del famedio ci sarebbero quindici tumulati, per motivi di “ingegno” o per opere di “beneficenza”. Oltre ai sette personaggi già citati, ci sono infatti anche Luigi Griffini, Carlo Donati De Conti, Daniele Marignoni (stranamente isolato in alto, in un colombaio vicino al soffitto), Lodovico Benvenuti, Giuseppe Benzi, Maria Avanzati (“modello di santità”), Pasquale Belletta e Giuseppe Spagnoli. Questi quindici nomi vengono riportati anche nel locale superiore del famedio. Ma perché prima ho detto sarebbero? Perché in realtà, in un angolino in alto a sinistra, entrando nel locale, ci sono altre due lapidi quadrate a colombaio, i cui nominativi non compaiono tra quelli riportati nel famedio superiore. Sono le lapidi di “Bonizzoni Luigi, 1887-1965” e di “Bonizzoni Bianca, 1892-1964”, collocate sul lato dei concittadini di “ingegno”. E questo è un elemento senz’altro degno di futuri approfondimenti nelle sedi opportune.

Non vorrei aver dato l’impressione, con quanto scritto in precedenza, di avere una posizione critica nei confronti del nostro famedio dei concittadini illustri, del nostro cimitero maggiore o addirittura delle pubbliche autorità preposte alle relative responsabilità municipali. Tutt’altro. Innanzitutto sono convinto che a Crema abbiamo, in queste aree, delle realtà di notevole pregio storico e artistico, come anche conferma l’interessante volume del Gruppo Antropologico Cremasco sui luoghi della memoria pubblicato nel 2014. In ogni zona e quasi a ogni angolo ci sono opere d’arte, soprattutto scultoree, e manufatti di pregio. Inoltre, le alberature, le essenze vegetali e l’ambiente naturale costituiscono un patrimonio verde importante e ben curato. Il personale amministrativo dell’ufficio è sempre competente, disponibile e cortese. E se anche nei famedi inferiori si avverte un po’ di fatiscenza, soprattutto nella parte di cui si è trattato in questa sede, va ricordato che certi ambienti, se troppo tirati a lucido ed eccessivamente ornati di ammennicoli e pinzillacchere, sono peggiori di quelli nei quali una certa patina umida e silenziosa, una certa scarna e disadorna semplicità meglio si confanno al raccoglimento e alla vicinanza del visitatore alle spoglie mortali custodite e onorate in loco. Infine, certamente i nostri reggitori locali hanno al momento ben altri problemi da risolvere riguardo al mondo dei vivi, prima di volgere le loro attenzioni al mondo dei defunti, dei famedi sotterranei e delle lapidi più o meno errate. E poi, tutti possiamo sbagliare. Anche incidendo delle lapidi. Errare humanum est.

Va poi detto che convivere tranquillamente e amabilmente con gli errori degli altri è una buona abitudine di vita. Fin dai tempi delle scuole si impara che far notare gli errori altrui in modo presuntuoso e spocchioso rende antipatici, innesca sentimenti di avversione, fa fare la figura del “primo della classe”, magari della “spia” (oggi si direbbe dell’ “intellettuale” o del “professore”, anzi dell’ “intellettualone” o del “professorone”, per usare termini cari a un certo lessico politico) e, soprattutto, fa sì che, quando poi l’errore diventa il proprio, scattino reazioni molto peggiori. Per di più, noi italiani non siamo stati cresciuti in una fede avversativa, ritorsiva, punitiva, bensì in un credo conciliativo, transattivo, accomodativo. Lo sappiamo tutti: “chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù”. Per questo, quelle indicate in precedenza vogliono essere solo piccole, inoffensive curiosità. Adesso però risaliamo in superficie da determinate profondità sotterrane (anche perché qualche lettore starà forse eseguendo dei gesti scaramantici) e vediamo alcune altre curiosità cittadine, all’aria aperta e alla luce del sole. Sempre con spirito leggero, per svagarsi un po’.

Basta camminare per le vie della nostra città per notare queste cose curiose. Per motivi di spazio, se ne riportano solo alcune. In realtà, il loro elenco sarebbe molto maggiore. Ad esempio, proviamo ad alzare gli occhi all’angolo tra via Benzoni e via Lucini e guardiamo la targa viaria di quest’ultima via. Sopra c’è scritto: “Via G. Battista Lucini - Pittore Cremasco - Secolo XVIII”. A questo punto potremmo non essere sicuri di aver visto bene. Secolo diciottesimo? Sì, proprio così. Se andiamo a vedere l’altra targa stradale sull’angolo con piazza Trento e Trieste, vediamo che la scritta è la stessa: “Via G. Battista Lucini - Pittore Cremasco - Secolo XVIII”. Come si è detto, nessun problema, di errori è pieno il mondo e, inoltre, il bravo Giovanni Battista (1639-1686) non si è mai lamentato dall’aldilà. E poi, le strade del centro portano a concentrare lo sguardo dei passanti più sul livello del suolo che verso le targhe viarie poste a diversi metri di altezza. Per cui, ben pochi si accorgeranno del Lucini proiettato dalle targhe municipali in epoca pittorica neoclassica o Sturm und Drang. Mi spiego meglio sullo sguardo al suolo dei passanti. Non so se davvero dobbiamo fare crociate contro le culle vuote e le cucce piene, però di certo lo sguardo indagatore dei passanti in queste vie del centro è giustificato dallo sforzo di evitare ciò che tante matrone botulinate e tanti giovinottazzi lampadati lasciano in queste vie dopo che i loro cagnetti o cagnoni hanno liberato il condotto rettale. Per non parlare dei residuati, in questo caso non canini, della movida cittadina, che evidenzia nei lunedì mattina i dettagli gastroenterici dei remoti hinterland metropolitani e dei contadi circostanti, offerti in remissione dei peccati di noi residenti.

Sempre a proposito del Lucini settecentesco, un altro motivo per non preoccuparsi delle due citate targhe viarie, è che ben difficilmente i volonterosi gruppi di turisti con gli occhi a mandorla, mentre fotografano ogni spigolo di questa zona cittadina, saranno in grado di eccepire alcunché. Infatti, battendo inesorabilmente ogni palmo di terreno tra la chiesa di Santa Maddalena e piazza delle Erbe, tra il mercato dei lini e dei grani e l’antico conventino antoniano, scattando foto a ogni anfratto e pertugio, quando inquadreranno una di quelle targhe, si limiteranno a squittire come sempre per l’entusiasmo e non sospetteranno certo alcun errore, non essendo il Lucini poi così noto a livello intercontinentale. Per chi non abita a Crema, chiarisco che questi numerosi turisti (ma soprattutto turiste, nonostante i motivi cinematografici del richiamo turistico), prima delle scribacchiature di rito sul portoncino di legno di un mio rassegnato conoscente geometra, intercettano tutti gli angoli in cui si è svolto il commovente amore di Elio e Oliver. Fotografando anche ogni targa viaria, magari sbagliata, senza soffermarcisi troppo. Quel che conta, per loro, è che siano veri e autentici il tavolino, la bici e tutti gli altri elementi resi celebri dal guardarobato filmico. Per cui, se Verona ha Giulietta e Romeo, noi a Crema siamo, diciamolo pure, molto più avanti. Abbiamo un brand affettivo davvero più trendy. E quindi non disturbiamo con simili inezie, riguardanti delle targhe viarie sbagliate, i nostri reggitori locali. L’importante è che la cultura cittadina sia elevata da cose di ben maggiore attualità, rilevanza e significatività. Anche perché ha ragione Dario Franceschini, quando dice nel suo libro che “con la cultura si mangia”. Da noi quel grande amore cinematografico fa mangiare eccome, soprattutto i plateatici.

Ma torniamo alle curiosità esistenti in città. Una riguarda il monumento a Vittorio Emanuele II in piazza Moro, re-inaugurato il 7 settembre 2013. Nella data in numeri romani riferita alla inaugurazione originaria, quella del 1881, manca una “barrettina”. Quella del numero romano “I”, cioè “uno”. Sì, perché la data in numeri romani sul lato sinistro del piedistallo (guardando la statua con le spalle alla Folcioni) è “MDCCCLXXX”, cioè “1880”. Invece l’inaugurazione originaria del monumento, opera di Francesco Barzaghi (il comitato organizzatore era guidato da Pietro Donati), si era svolta il 7 agosto del 1881, non del 1880. Quindi questa data esistente sul piedistallo è sbagliata. Una svista, intendiamoci, che nulla toglie ai meriti di chi, tra il 2010 e il 2013, ha recuperato i resti del monumento, rimossi dopo l’attentato dinamitardo del 1946, e ha curato il restauro e il ricollocamento della statua nella sua piazza originaria, anche se in una posizione differente. Peccato, comunque, perché in nove anni qualcuno poteva accorgersene. In ogni caso, va aggiunta la “barrettina”, visto che si tratta di un numero romano su cui, per fortuna, è possibile questa semplice operazione. Una banale, piccola aggiunta e voilà, ecco un bel “MDCCCLXXXI”, facendo attenzione al colore della “barrettina” aggiuntiva. Certo che, anche in questo caso, i numeri romani sembrano proprio creare difficoltà dalle nostre parti. Chissà perché. E poi dobbiamo stare attenti. Infatti, di questi tempi, potrebbero essere accusati di essere numeri “fascisti”. Si sa, di romano c’era anche il saluto. E pure la cronologia littoria. Però, chiarendo bene alla cittadinanza che i numeri romani potrebbero non essere in contraddizione con i nostri valori costituzionali, l’anno prossimo, nel decennale della re-inaugurazione del 2013, qualche componente del comitato che ha restaurato e riposizionato il monumento potrebbe farsi parte diligente e fare applicare la “barrettina” mancante. Magari potrebbe provvedere il sottoscritto.

Anche al di fuori del centro storico non mancano le piccole curiosità. Una è quella riguardante la targa viaria, cambiata alcuni anni fa, della via Curtatone e Montanara, posizionata sull’angolo con via Indipendenza. Adesso questa targa è modificata come se si trattasse di un nome e un cognome: “via Curtatone Montanara”. Forse Montanara come cognome ci può anche stare. Non è molto diffuso ma esiste. È Curtatone che, come nome di persona, suona un po’ strano. Ma tant’è, anche qui il problema in realtà non sussiste e si è fatta notare questa cosa solo a titolo di inoffensiva curiosità. Infatti, quelli che si ricordano qualcosa dei tempi della scuola capiscono che questa via non celebra alcun illustre signor Curtatone, mentre quelli che hanno studiato poco oppure che si sono formati su testi storici diversi dai nostri non si pongono certo il problema. In questo, essere una città multietnica, multireligiosa e multiculturale è un vantaggio. Dell’eroico sacrificio dei volontari toscani e degli altri combattenti italiani in quel 29 maggio 1848, almeno dalla nostra via Indipendenza si è persa traccia. A meno di sostenere che, su questa targa viaria, non ci stava materialmente la congiunzione “e” tra le due parole, non avendo tenuto graficamente conto degli spazi e del carattere. Però, questa a Napoli (ma non solo) si definirebbe una “pezza a colore”. E porterebbe ad altre considerazioni sulla perizia grafica di certi soggetti incaricati di tali adempimenti tecnici. In ogni caso, basta imboccare e poi percorrere per alcune decine di metri la via oggi intestata al benemerito signor Montanara, per accorgersi che, nel punto di innesto con via Solferino, le vecchie precedenti targhe rendono ancora giustizia alle nostre battaglie risorgimentali. Infatti, sulle stagionate targhe a fondo blu, rimaste posizionate in quel punto, si leggono delle dizioni corrette: su una, “Via Curtatone e Montanara - 1848”; sull’altra: “Via Solferino - 1859”. Eh sì, non ci sono più le targhe di una volta.

In proposito, verrebbe anche da pensare, sempre in modo molto pacato e sereno, che qui da noi il Risorgimento italiano non sia più visto particolarmente di buon occhio. Basti pensare alla piazza San Martino, che con delibera municipale del 31 marzo 1889 aveva assunto questo nome per celebrare la battaglia vittoriosa del 24 giugno 1859 (prima lo slargo si chiamava piazza di Porta Ombriano, detta popolarmente di Santa Trìnita). Ebbene, quando con delibera municipale del 20 gennaio 1970 la piazza è stata intestata a Giovanni XXIII, ci fu chi sostenne che in precedenza la stessa era dedicata a un santo, per cui, tra un santo e l’altro, si trattava solo (questo era il concetto, visto che sulla futura canonizzazione di Angelo Giuseppe Roncalli nessuno aveva dubbi) di un avvicendamento di natura ecclesiastica. Ricordo in particolare che, all’inizio del mio ultimo anno di liceo, il nostro insegnante di religione, che godeva di molti simpatizzanti in una determinata parte dell’utenza studentesca del “Racchetti”, aveva sostenuto questa versione dei fatti. D’altra parte, si sa, era il periodo dei “due Giovanni” (la stessa delibera del 20 gennaio 1970 aveva istituito la via Kennedy) e non certo delle memorie risorgimentali e delle bandiere tricolori, che in quel tempo si vedevano soltanto allo stadio.

Invece, come si è detto, la delibera consiliare del 1889, che istituiva la piazza San Martino, aveva motivazioni ben diverse. Sta di fatto che oggi il piccolo e negletto vicoletto San Martino a Borgo San Pietro (quello sì) è ancora intestato al grande santo e cavaliere di Tours, il che è più che giusto, mentre della fondamentale battaglia di San Martino non c’è più traccia viaria. Però, come si è visto, abbiamo in città via Solferino, dove vinsero soprattutto i francesi. Per cui, paradossalmente a Crema vengono ricordate delle formazioni militari tra le quali operavano contingenti (ad esempio gli zuavi) che anni dopo avrebbero combattuto gli italiani a Mentana e a Porta Pia, mentre invece non si ricorda più la battaglia grazie alla quale si concluse vittoriosamente la seconda guerra di indipendenza, consentendoci oggi di essere italiani. Ma anche qui, sono solo piccole, inoffensive curiosità. Magari, cerchiamo di stare attenti in futuro a operazioni del genere. Ad esempio, una via centrale e importante come via XX Settembre, con una simile intitolazione, potrebbe subire una sorte simile alla piazza San Martino. Come del resto è accaduto, a San Bernardino, alla via Carlo Alberto, il Re che, nonostante i libelli della propaganda repubblicana dei suoi tempi (e poi dei nostri), ha dato un contributo decisivo all’indipendenza e all’unità d’Italia. Oggi la via Carlo Alberto è diventata via XI Febbraio. Tuttavia, in questi fatti di piazza Giovanni XXIII e di via XI Febbraio, non siamo più nel campo delle piccole curiosità dovute a disattenzione, imperizia o negligenza, indicate in precedenza nel corso di questo articolo, ma in un contesto diverso.

Di curiosità, beninteso sempre piccole e inoffensive, ce ne sarebbero diverse altre, sia sopra che sotto il livello del suolo della nostra città. Ma per ragioni di spazio è meglio non abusare ulteriormente della pazienza dei lettori di questo giornale, rinviando eventualmente a un prossimo imprecisato futuro queste altre curiosità. E forse sarebbe più opportuno definirle “spigolature”, vale a dire, nel senso figurato e non in quello agricolo originario, “raccolta di notizie o argomenti d’interesse secondario, presentati come curiosità” (Devoto-Oli, Le Monnier, 2020).

Immagini 1 e 2: la parte superiore dei due famedi.
Immagini 3, 4, 5, 6 e 7: lapidi del famedio sotterraneo citate nel testo.
Immagini 8, 9, 10 e 11: curiosità per le vie della città.
I
Pietro Martini


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commenti


Luigi Serina

1 dicembre 2022 14:14

Ha suscitato la mia curiosita’ sulla data di morte di mio nonno Luigi Soldati. Ho controllato le fotografie dei manifesti funebri dell’epoca e posso confermare che la data esatta e’ il 25 di Febbraio 1944 XXII. Spero di avere risolto un suo dubbio e la ringrazio per l’interessante lettura. Luigi Serina

Pietro Martini

2 dicembre 2022 13:11

La ringrazio per il suo commento e per l'informazione che così cortesemente mi ha comunicato. Mi permetto di aggiungere il mio apprezzamento per la sua pubblicazione di quest'anno dedicata a Luigi Soldati. Pietro Martini