5 maggio 2023

Tra la "sboba" dei soldati e i menu raffinati dei comandi. Cosa mangiavano i nostri combattenti

La differenza di classe si notava anche a partire da lì: la “sboba”, definita dal dizionario “brodaglia di aspetto e sapore poco invitante e sgradevole” che costituiva il rancio dei soldati italiani nella II Guerra mondiale (come nella Grande Guerra), riservato alla truppa di origine contadina, popolare ma anche operaia. Alla mensa ufficiali arrivavano cibi più allettanti, a volte anche raffinati, bevande e dolci che sollecitavano il palato. 

Per averne conferma mi avvalgo di fonti vagliate da valenti storici (Cfr. Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall'Impero d'Etiopia alla disfatta, Einaudi 2005; Marco Cuzzi, Cibo di guerra. Sofferenza e privazioni nell’Italia dei conflitti mondiali, Biblion, 2015). Ma anche, per far riferimento anche al nostro territorio cremonese, attingerò anche dalla corrispondenza privata di mio padre Gino Lazzarini, quindi una testimonianza limitata, però diretta e personale, il quale giornalmente scriveva a sua moglie Nene, e a volte la informava della sua attività di cuoco alla mensa ufficiali, prima nella Campagna d’Africa tra il 1935 al 1936, poi sul fronte greco-albanese, fino alle Isole Ionie, dal 1940 al 1943 (cfr. Carmine Lazzarini, Duemila e ventisei lettere d’amore e di guerra. La storia del soldato Gino e di Nene sua moglie 1935-1945, Isola Dovarese, 2011). Con una annotazione derivata dalla sua permanenza presso la 76^ Brigata Garibaldi in Val d’Aosta, tra i combattenti per la libertà, dove si era rifugiato da disertore, nel luglio/agosto 1944: per qualche mese quel gruppo di partigiani fu uno dei meglio nutriti di tutta la Valle d'Aosta, diceva Gino sorridendo, quando anni dopo raccontava questi episodi: "Avendo farina, zucchero e uova, gli preparavo anche le torte!"

Non è da credere che i partigiani se la passassero meglio dei soldati, anzi, soprattutto d’inverno. Italo Calvino anni dopo confesserà, invitato a fornire un’immagine sintetica di cosa fu l’esperienza partigiana per lui, di voler partire da elementi assai concreti: "i problemi del vitto spaventosi, tutto l’inverno nelle nostre montagne non c’era da mangiare che castagne, l’avitaminosi che riempiva le gambe dei partigiani di foruncoli, ciavèli in dialetto, tanto che la prima cosa da cui si riconosceva un partigiano erano questi grossi foruncoli rossi-viola che buttavano al giallo […] le piaghe ai piedi, per gli scarponi che col gelo diventavano duri come strumenti di tortura, la simbiosi partigiano-pidocchi, le uova di pidocchio appese a ogni pelo, i giovani d’origine proletaria o montanara riuscivano a tenersi più puliti, ma gli studenti – quei pochi che c’erano tra i partigiani – eravamo di solito i più sporchi e pidocchiosi, parlo dei partigiani semplici, non dei comandanti”. (1973, Colloquio con Ferdinando Camon). Aggiungeva poi: “I sogni dei partigiani erano rari e corti, sogni nati dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni simili, d'ossa rosicchiate e nascoste sottoterra”.

Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale per l’Italia, nel giugno 1940, si vide che il nostro esercito, dopo quasi due decenni di propaganda fascista che inneggiava all’Italia come grande potenza, era sostanzialmente fermo, riguardo all’alimentazione ma non solo, alla situazione del 1918. Per certi aspetti in una situazione peggiore, con un rancio più limitato, non essendo più disponibili i canali di approvvigionamento dell’Impero britannico e francese, degli USA e dei paesi sudamericani. Il pranzo disponibile in condizioni “normali”, per i militari italiani prevedeva una gavetta per una minestra in brodo, con pasta o riso, un pezzo di carne lessa del peso di 375 gr (osso compreso), a cui si poteva aggiungere una tazza di caffè nero con un paio di fette di pane secco.

Il rancio era preparato, naturalmente, nelle retrovie, lontano dal fronte, per poi essere trasportato verso la prima linea con mezzi motorizzati, ma più spesso a dorso di mulo. Per conservare il cibo in caldo, questo veniva conservato in marmitte coibentate, le cosiddette “casse di cottura”, che contenevano ciascuna intorno alle 30 razioni, che mantenevano una temperatura accettabile per circa 24 ore. 

Le truppe italiane dopo il 1940 dovettero registrare un calo dell’apporto di carne e l’incremento di pasta e riso: “all’ingresso in guerra il vitto quotidiano del soldato di Mussolini era circa il seguente: 700 g di pane, 250 di carne fresca o congelata (presto sostituita da carne conservata o da 100 g di pesce in scatola), 220 g di pasta o 170 g di riso, 10 g di formaggio da grattugiare, 15 g di grassi (olio, burro o strutto) e 15 g di conserva di pomodoro. Infine uno scarso contorno rappresentato da circa 50 g di legumi, o secondo le disponibilità, di patate, verdura fresca o essiccata. Si prevedeva, inoltre, una razione di riserva o di emergenza, composta da una scatoletta di carne e 400 g di gallette, che diventarono la vera, e sovente unica, fonte di rifornimento della truppa impegnata in zone operative, come già avvenuto nell’altra guerra. Da notare che l’alimentazione del militare italiano, secondo le stesse indicazioni degli stati maggiori, avrebbe dovuto essere subordinata allo “sfruttamento delle risorse locali” (Cuzzi). 

Ma c’era un’aggravante. Come nella Grande Guerra, per le lunghe soste nelle retrovie o nelle caserme, assai spesso il pane consegnato alla truppa era duro o ammuffito, mentre la carne o la frutta giungevano marce e fortemente deteriorate. A volte i comandi giungevano a consigliare di essere assai cauti nel distribuire cibi putrefatti alle truppe. Anche le gallette in sostituzione del pane fresco non risolvevano il problema, perché dopo le lunghe permanenze dei magazzini centrali ammuffivano. Nella II Guerra mondiale, inoltre, si aggiungeva l’aggravante che si trattava non di una guerra di posizione come nella Grande Guerra, quando il fronte era più raggiungibile, ma una guerra di movimento, per cui far arrivare il rancio alle truppe era spesso impedito od ostacolato dalle condizioni ambientali e logistiche. 

Il mondo degli Ufficiali e dei Comandi era assai diverso, in questo caso si disponeva di solito di cibo in abbondanza, ben conservato, vario, cucinato con cura: spesso col denaro a disposizione ci si poteva rifornire sul mercato locale, oppure si procedeva a requisizioni sul territorio. In ogni caso le situazioni variavano di molto da zona a zona: Africa Orientale, Libia, Grecia, Russia. Per dare un’idea della differenza tra il mondo del soldato semplice e quello degli ufficiali, non porto dati statistici, ma una testimonianza di mio padre, Gino Lazzarini, che avvalendosi della sua esperienza presso la “Trattoria al ponte” di Isola Dovarese, durante la “conquista dell’Impero”, venne comandato come cameriere alla mensa ufficiali della “Divisione Gran Sasso”, alle dipendenze del II Corpo d’Armata, partecipando tra il 29/2/1936 e il 3 marzo alla battaglia dello Sciré. 

Quando la divisione si mise in marcia per avvicinarsi al confine eritreo-etiopico, che raggiungerà il 24 ottobre 1935, in questi giorni di lunghe “camminate”, da cameriere venne promosso cuoco: in questa mansione incontrò a volte la presunzione e la prepotenza degli ufficiali, che volevano essere serviti a qualsiasi ora, anche per dei capricci. Quando esageravano (ad esempio, chiedendo il gelato… in Africa!?), i cuochi si vendicavano e qualche sputo di rabbia nel condimento della pasta asciutta ci arrivava di certo. Qui a Gino capitò di mangiare un cibo veramente africano, un istrice, il cui aculeo infilò in una busta con lettera per farla arrivare alla fidanzata, Nene Balestreri, che poi diventerà sua moglie.  

La situazione si ripresentò sulle montagne del confine greco-albanese, dove giunse però in camicia nera. Qui ricominciò la sua vita di cuoco, con grandi lavorate per preparare agli ufficiali menù degni di un ottimo ristorante, quando arrivavano ospiti importanti: “Abbiamo avuto parecchi invitati di riguardo… Ieri sera ero tanto stanco, ma anche contento, il menu è andato molto bene e ho avuto degli elogi. Sapendo, Nene cara, che vuoi sapere tutto, cosa faccio, come vivo (in povertà mia lieta, scialo da gran signore...) ti ripeterò la lista (antipasto misto, crema di piselli con crostini al burro, capretto alla legionaria, lepre (uccisa da uno dei nostri ufficiali e messa in fusione il giorno prima) in salmì, contorno misto, formaggio, frutta, vino, liquori, caffè”.

Dopo i mesi assai duri sulle montagne, dove rischiò di morire, quando intervennero i tedeschi, la campagna di Grecia si concluse rapidamente e il suo reparto venne trasferito prima a Porto Edda, sempre in Albania e finalmente il 7 1941 a Corfù (Kerkyra): “Appena sbarcati ci siamo dati all'ebrezza della frutta, aranci, cedri, fragole, nespoli, ciliege ecc. che danno in abbondanza e costano quasi niente. Per darti un'idea 1 kg di fragole per due lire e il bello e che è saporitissima. Ne ha fatto una scorpacciata. Il posto è da villeggiatura. Il giorno dopo scrisse che l'isola era paragonabile a Capri. Rimase colpito dalla viva presenza della lingua e delle testimonianze della dominazione veneziana. Anche come cuoco trovò nuovi stimoli e inaspettate soddisfazioni: Ora ci provo un po' di soddisfazione a far da mangiare, con un burro buonissimo come questo si fa sempre bella figura, stasera ho fatto due belle frittate con piselli e insalata che è bianca come il latte, cotolette, polli arrosto, asparagi, carciofi” (8-5-1941). Ma con il passare dei mesi la carestia causata dall’occupazione italiana e tedesco portò difficoltà di approvvigionamento anche per gli ufficiali

Vale la pena richiamare un episodio che gli era capitato nel febbraio 1941, quando a Gino per un attimo si apri una straordinaria occasione: venne chiamato alla mensa del Quartier Generale della Divisione Acqui come aiutante cuoco, dove incontrò un cremonese, che lavorava nel famoso “Bar Giardino” di un altrettanto famoso cremonese, Gino Rancati. Un locale “di tendenza”, si direbbe oggi, nella Cremona degli anni a metà del secolo scorso. “Vorrei che questa mia ti arrivasse in un volo, la notizia che ora ti sto dicendo ti farà saltare dalla gioia. Pensa Nene cara sono qui al Quartiere Generale della Div. Acqui, richiesto da questo comando in qualità di cuoco. Domani mattina comincerò il mio servizio, appena mi sarò messo a posto ti scriverò dettagliatamente e lungamente di questa inaspettata fortuna... ringrazia proprio la Divina Provvidenza di cotanta fortuna. Questo è il mio nuovo indirizzo: Milite G. L., Quartier Generale Divisione Acqui, P. M. 2.A”. 

Si coronavano per lui due sogni: essere il più lontano possibile dalla prima linea e frequentare un ambiente elevato, dove la sua professionalità di cuoco poteva svilupparsi convenientemente. Ecco come raccontò l'evento: "Mentre io me ne stavo lì in cucina mi chiama un tenente e di dice: Lazzarini, occorre un cuoco alla mensa della Divisione, ci vuoi andare? Ti puoi immaginare Nene cara la mia risposta... Allora il tenente ha risposto affermativamente alla Legione, e questa alla Divisione e il giorno dopo cambiato da capo ai piedi son partito in camion e dopo 4 ore di strada sono arrivato qui al Quartier Generale… Siamo in sei, fra i quali due cuochi. L'altro che fa da capo è cuciniere di professione, ultimamente era in casa del Conte Marzotto di Valdagno, è molto bravo…lui mi ordina ed io eseguisco, ti combina certi piatti che proprio c'è da imparare e leccarsi le dita” (24-2-1941).

Giorni magnifici per lui, figlio di Giuani de Bigìin Masèer, della “Trattoria al ponte” di Isola Dovarese a contatto con personalità di altissimo livello: Se credi Nene cara son tanto felice e contento che alla volte ho paura che qualche cosa mi capiti. Pensa, Nene cara, che ho anche la fortuna di lavorare insieme a un cuoco di professione è un cremonese puro sangue, ultimamente lavorava al Bar Giardino da Rancati. Due volte alla settimana si fa il dolce (pan di spagna farciti, bigné ecc.) questa mattina abbiamo fatto maccheroni alla gratèn, domani mattina per esempio è in programma: lasagne pasticciate con viteltonné e croché di patate. Per me è tanto lavorare con uno veramente del mestiere e ti puoi immaginare quale attenzione e quanta volontà ci metto.

Ma dopo quindici giorni la sua bella avventura finì, e Gino dovette ritornare ai suoi reparti un poco deluso. E qui per il cronista che scrive dopo tanti anni, viene spontanea una riflessione sulle tante strade che può imboccare una vita, su una delusione che può invece salvarti: sapendo come andò a finire la Divisione Acqui nel settembre 1943, Gino non poteva immaginare che in quel frangente, rientrando al suo corpo, probabilmente si salvava la vita, in quanto tutto lo Stato Maggiore della divisione fu passato per le armi dai tedeschi nel settembre 1943 a Cefalonia, dopo aver assistito ad una messa alla fine della quale il Generale Gandin annunciò ai presenti quale sarebbe stata la loro sorte.

Nella foto Gino con alle spalle Argostoli Cefalonia e il Bar Giardino a Cremona che si trovava all'angolo tra piazza Roma e via Guarneri

 

 

 

Carmine Lazzarini


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commenti


cla

5 maggio 2023 16:31

Ogni occasione è positiva e commovente da parte mia per ricordare e rendere omaggio ai Caduti della Divisione Acqui, una delle pagine più nere della storia italiana.